Contrattazione aziendale di 2ˆ livello ed evoluzione delle relazioni industriali

di Filippo Mengucci* 

Il dibattito sull’evoluzione delle relazioni industriali, sul ruolo e sulle modalità di applicazione della contrattazione collettiva ai vari livelli è un tema affascinante per chi si occupa professionalmente della materia del lavoro, ma è anche un tema controverso, allo sviluppo del quale oltre al governo e alle parti sociali anche i commercialisti danno il loro contributo, basato sull’esperienza maturata “sul campo”.

Nell’attesa della riforma strutturale del sistema contrattuale è compito degli operatori del mercato del lavoro utilizzare appieno gli strumenti a loro disposizione, allo scopo condiviso – o facilmente condivisibile – di migliorare le condizioni di lavoro e l’efficienza gestionale, con le conseguenti ricadute positive sui margini aziendali e sulle retribuzioni.

Oggi che si parla di salario unico per tutti i settori economici, le parti sociali stentano a trovare accordi che favoriscano la competitività aziendale e spesso risulta vano l’impegno dei professionisti che si adoperano per favorire soluzioni innovative, ma pur sempre basate su criteri oggettivi e che rispettino i principi di tutela della libertà e della dignità dei lavoratori. Su questo argomento si sono consumate negli ultimi anni fratture epocali, dalle quali sono partite nuove “sfide” in materia di lavoro. Non può, in proposito, essere sottaciuto l’assunto di autorevoli studiosi della materia per cui le relazioni industriali non possono essere considerate una “questione ideologica”. Le interazioni fra datori di lavoro e rappresentanti sindacali servono infatti a regolare lo scambio fra soggetti che sono interdipendenti, non costituiscono un gioco a somma zero, e trovano maggiore efficacia quando si fondano sul postulato del vantaggio reciproco. Il conflitto, quando si manifesta non è (o meglio non dovrebbe essere) vissuto, come un conflitto sociale o ideologico, ma più semplicemente un conflitto di interessi, e, in quanto tale, conciliabile attraverso la contrattazione. In questa ottica, proprio negli ultimi dieci anni, caratterizzati da una profonda crisi economia, si è posto l’accento sulla erogazione di parte della retribuzione al personale sotto forma premiale. Di conseguenza, il premio di risultato è divenuto l’emblema di una nuova dinamica collaborativa tra datori di lavoro e lavoratori, quasi l’unico punto di condivisione delle “gioie e dolori” del fare impresa, il datore di lavoro è sempre meno concepito come parte forte e il lavoratore non appare poi così debole.

Non può essere trascurato inoltre il fatto che l’Italia conta oggi oltre 800 contratti sottoscritti a livello nazionale, una miriade di accordi di secondo livello e una frammentazione di accordi aziendali di prossimità in deroga. Un vero ginepraio per capire come accettare la sfida di una ripresa economica che ci dicono i media sia a portata di mano con i nuovi strumenti legislativi a disposizione, ma quando nel paese si rileva una tradizione della c.d. “concertazione” e delle prove di dialogo sociale, nella definizione di tutte le politiche economiche e del lavoro. Il nostro paese, rispetto ai suoi concorrenti, soffre oggi di un eccessivo peso specifico della contrattazione collettiva nazionale di lavoro, tutta poi di ambito settoriale. Il problema quindi è il limitato grado di esigibilità della contrattazione collettiva nazionale anche per via della mancata attuazione di parte dell’art.39 della Costituzione, e la scarsa copertura a livello decentrato, dove si rilevano anche casi dei c.d. “Contratti Pirata”, oltre che di un’assenza totale di regole come nel caso del lavoro nero e del caporalato.

La crisi economica iniziata nel 2008/2009 ha spinto governo e parti sociali ad adottare politiche di promozione del decentramento contrattuale. Anche la nascita della contrattazione di prossimità ex art.8 della legge 148/2011 (c.d. in deroga), altro non è che una estensione dell’agibilità alla contrattazione aziendale, anche dove i contratti nazionali (o le leggi) non permettono di andare. Lo spazio concesso al secondo livello di contrattazione da quello nazionale (Ccnl), è stato così ulteriormente ampliato per effetto di accordi a livello di singola unità produttiva aziendale, con i pochi e ben noti limiti previsti dai precetti costituzionali e dai principi cardine di rango sovranazionale, che si muovono nell’ambito dei valori lavoristici e diritti primari/fondamentali dell’Unione europea. Si è dunque cercato di spostare il focus delle relazioni industriali dal livello nazionale a quello aziendale, per meglio rispondere alle esigenze di gestione e agli effetti della crisi economica.

A ben vedere, anche le c.d. “opzioni in deroga” sono state concepite dal Legislatore con una consultazione preventiva delle Organizzazioni sindacali dei lavoratori (OOSS) comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Il Sindacato ha così sempre mantenuto un “potere di veto” sulle deroghe, riconosciute come possibili sia da parte dei contratti collettivi di settore sia dalla stessa legge. Si è assistito così ad una frammentazione del sistema regolatorio, operando con deroghe anche in peius su molteplici istituti quali: il tempo determinato, la retribuzione base, l’elemento economico aggiuntivo, il lavoro straordinario e le relative maggiorazioni, l’orario di lavoro (salvo il tetto massimo ammesso dalla legge regolatrice e dalle direttive unionali), l’organizzazione dei turni, la pianificazione delle ferie, l’adattamento della classificazione del personale e degli skill lavorativi al livello di professionalità della singola realtà aziendale sino, infine, ai tempi di conciliazione di vita e lavoro ed alle modalità di resa della prestazione di lavoro al di fuori dei locali aziendali, in modalità agile, con il c.d. smart working, accompagnato dalla nascita del nuovo sistema di welfare aziendale.

Il premio di risultato è lo strumento che ha indotto più frequentemente datori di lavoro e lavoratori a “sedersi al tavolo”, non si può quindi prescindere dall’esaminare tale strumento e gli accordi che tipicamente lo regolano, nei quali devono essere indicati sia i criteri di misurazione degli incrementi di produttività, redditività, qualità, efficienza ed innovazione, allo scopo di ottenere le agevolazioni fiscali e/o contributive previste dalla legge, sia l’eventuale opzione concessa al lavoratore per sostituire i premi monetari in welfare aziendale, beneficiando, in tal caso, di una completa detassazione delle somme erogate.

Nel caso di piccole e medie imprese (Pmi) prive di rappresentanze sindacali (Rsu o Rsa), l’accesso al regime di tassazione agevolata Irpef passa, invece, attraverso il recepimento di un Accordo-Quadro territoriale o Interconfederale, redatto per ciascun settore di pertinenza dalle rappresentanze sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale. Inoltre, le Pmi debbono aver cura di rispettare alcune ulteriori condizioni:

  • in primis applicare i contratti collettivi nazionali di lavoro sottoscritti dalle organizzazioni datoriali che hanno firmato l’accordo quadro;
  • in secundis essere associate ad una delle organizzazioni datoriali firmatarie dell’accordo quadro.

In mancanza di quest’ultimo requisito, possono in alternativa conferire un espresso mandato ad una delle associazioni datoriali firmatarie dell’accordo.

Occorre quindi che gli operatori abbiano a mente quali siano i corretti passi necessari per le Pmi interessate ad erogare premi di risultato. Ci sono tra l’altro anche degli ulteriori step da rispettare. Prima di tutto, a livello formale, occorre comunicare ai lavoratori l’adesione all’accordo quadro (territoriale o interconfederale) e la chiara volontà di erogare i premi di produttività eventualmente sostituibili con welfare aziendale. La comunicazione deve contenere obbligatoriamente il periodo di riferimento, la composizione del premio, gli indicatori adottati, la stima del valore annuo medio pro capite del premio (in proposito sarà necessario rifarsi al decreto ministeriale 25 marzo 2016), nonché le modalità di corresponsione. La stessa comunicazione deve essere inviata ad un comitato, istituito presso le associazioni datoriali che hanno siglato l’accordo quadro, che ha il compito di vagliare (entro un termine prestabilito nello stesso accordo) la conformità della proposta del datore con l’accordo quadro. Ricevuta la conferma del comitato, il datore completa la procedura di trasmissione telematica all’Ispettorato territoriale del lavoro (ITL), già Direzione territoriale del lavoro (DTL), competente nei 30 giorni successivi (cfr. al riguardo la nota del Ministero del lavoro 4274/2016). Non appena avrà verificato le condizioni per l’erogazione del premio, informerà tanto il comitato, quanto i propri lavoratori.

I lavoratori, nei termini previsti dall’accordo e comunque prima che sia effettivamente erogato il premio in denaro, possono esercitare l’opzione convertendo il premio in benefit di cui all’articolo 51, comma 2, del D.P.R. 917/1986 “Testo unico delle imposte sul reddito” (Tuir). Questa opzione può essere esercitata anche se l’accordo quadro non prevede una elencazione dei singoli benefit fruibili: è sufficiente a tal fine l’inserimento di una espressa clausola generale che permette al lavoratore di sostituire il premio monetario con benefit. In mancanza di questa clausola, non sarà possibile per il lavoratore fruire della sostituzione.

In caso di sostituzione del premio con benefit, le Pmi prive di rappresentanze sindacali possono dedurre integralmente i costi sostenuti a fronte dell’erogazione dei benefit inserendo il piano di welfare in un regolamento aziendale. La presenza di un accordo contrattuale può così consentire alle Pmi di evitare le restrizioni previste all’articolo 100 del Tuir in caso di erogazione volontaria dei benefit da parte del datore di lavoro. Infatti, senza accordo di secondo livello o regolamento aziendale, la deducibilità dei costi, risultante dalla dichiarazione dei redditi, è limitata al 5 per mille dell’ammontare delle spese sostenute per prestazioni di lavoro dipendente.

Volendo fare una breve analisi del fenomeno premiale, occorre riflettere sui nuovi schemi retributivi delineandone lineamenti, funzioni, obiettivi e modalità di funzionamento, tenendo presente che l’eventuale introduzione di un salario minimo orario fissato per legge potrebbe mirare a elevare le retribuzioni dei cosiddetti lavoratori poveri, assestando il colpo di grazia al contratto collettivo nazionale di lavoro, almeno per quanto riguarda la competenza sulla retribuzione minima inderogabile ex art.36 della costituzione, demolendo il dogma della fonte collettiva che, meglio di altre, oggi recepisce l’andamento delle dinamiche retributive in Italia. Ove non fosse, magari declinando la retribuzione minima, pur sempre proporzionata alla quantità e qualità del lavoro come assicura il citato art. 36 per una esistenza libera e dignitosa, ma stabilendola in via differenziata nel Paese, tarando la stessa misura in maniera ripetitiva, generale, uniforme e costante come avviene nel caso degli usi e delle consuetudini locali. Forse per questo sino ad oggi si è potuto trattare in sede di relazioni industriali solo della retribuzione c.d. “variabile”, ovvero quella aggiuntiva alla minima. E il premio di risultato ha così mostrato casistiche e tratti comuni in tutto il territorio nazionale.

I piani di welfare aziendale – al contrario di quanto previsto per la detassazione dei premi di risultato – non devono necessariamente essere attuati mediante un accordo collettivo di secondo livello, salvo quando si vuole introdurre un meccanismo che consenta ai lavoratori di scegliere tra il premio di risultato e le prestazioni di welfare.

Un percorso diverso può essere seguito qualora non esista un accordo aziendale sulla retribuzione di produttività oppure, pur esistendo un’intesa di questo tipo, le parti non fossero intenzionate a creare un meccanismo di conversione tra premi individuali e welfare aziendale. In queste ipotesi, per attuare il piano di welfare, il datore di lavoro può seguire molte strade, equivalenti ai fini del risultato:

  • riconoscere il pacchetto mediante un regolamento aziendale unilaterale;
  • concordare il piano con le organizzazioni sindacali (questa opportunità non era prevista dalla normativa vigente prima della legge di Stabilità).

In entrambe queste ipotesi possono anche essere usate forme del tutto semplificate per elaborare ed erogare il piano di welfare aziendale, senza dover applicare procedure formali particolari; basterà definire in concreto i beni e i servizi riconosciuti ai lavoratori.

L’interesse delle parti sociali per i contratti di secondo livello in materia di welfare aziendale potrebbe ampliarsi nell’immediato futuro, a seguito del consolidamento di taluni orientamenti di prassi. Al riguardo, è appena il caso di ricordare che recentemente l’Agenzia delle entrate, Direzione regionale della Lombardia, rispondendo a un interpello presentato l’8 giugno 2017, ha riconosciuto la legittimità di un Piano Welfare, che subordina l’accesso dei lavoratori ai servizi previsti al raggiungimento di determinati obiettivi di performance aziendale e individuale, con espressa indicazione del “credito welfare” attribuibile in funzione del livello di ottenimento di tali obiettivi, la cui conseguenza, nel caso esaminato, è stata il riconoscimento dell’esistenza dei presupposti per escludere da imposizione sul reddito di lavoro dipendente il valore dei servizi offerti alla generalità dei dipendenti rientranti, astrattamente, nelle fattispecie di esenzione di cui ai commi 2 e 3 dell’articolo 51 del Tuir.

* Odcec Roma 

Gli argomenti trattati in questo articolo sono ripresi dall’intervento dell’Autore al IV convegno nazionale “Commercialista del lavoro”, organizzato dal Consiglio nazionale dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili, tenuto a Roma il 9 novembre 2017.

 

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