Contratti a termine: non è più tempo di causali

di Fabrizio De Angelis * 

Senza voler richiamare scomodi ed abusati paragoni con il difficilissimo periodo del secondo dopoguerra, certamente dobbiamo considerare l’attuale presente come un periodo di difficile transizione e quindi di necessaria ripartenza per la nostra società, in particolare per il mondo delle imprese e del lavoro.

E così, in questa fase, diventa ancor più indispensabile un ripensamento del corpus normativo giuslavoristico per consentire alle aziende di ritrovare vigore economico, ma soprattutto per fornire al mercato del lavoro maggiori chances di impiego al fine di evitare che la situazione venga dominata esclusivamente dalle operazioni di riduzione del personale conseguenti alla crisi che minacciosamente si profila all’orizzonte.

Occupabilità, employabilty, deve essere la parola d’ordine per l’immediato futuro, non solo nell’accezione fornitaci dalla psicologia del lavoro per individuare l’acquisizione delle qualità necessarie all’individuo per la ricerca dell’impiego, ma anche per significare la creazione di quelle condizioni indispensabili alle imprese affinché questo possa avvenire. Per noi operatori della materia il tentativo deve essere quello di suggerire proposte giuridicamente realizzabili, per fronteggiare quella che viene preannunciata come la “più grave crisi economica dopo quella del ’29”, attraverso interventi di radicale e necessaria rottura con un passato caratterizzato dall’imbrigliamento delle regole del lavoro per lo più causato dal susseguirsi inconcludente di ben sette governi negli ultimi dieci anni.

Già prima dell’attuale situazione di crisi il mercato del lavoro in Italia è apparso asfittico, incapace di incrementare l’occupazione e con un calo delle assunzioni nel solo trimestre dicembre 2019 – febbraio 2020 pari a quasi 90.000 unità (dati il Sole 24 Ore del 14 aprile 2020).

In tale contesto, assume un ruolo primario il ripensamento delle norme che regolano il contratto a tempo determinato quale primario strumento di flessibilità del nostro sistema giuslavoristico.

Le attuali norme sul contratto a termine, infatti, vanno necessariamente reinserite nella discussione politica al fine di consegnare al mercato del lavoro una concreta possibilità di ripartenza degli impieghi posto che la controversa decisione di reintrodurre – con il c.d. Decreto dignità (d.l. 87/2018) – il meccanismo delle “causali” dei contratti a tempo determinato, finora non ha prodotto la crescita sperata del lavoro a tempo indeterminato ed ha praticamente arrestato del tutto quella del lavoro a termine; questo in un contesto che ci vede al quart’ultimo posto tra i paesi dell’Eurozona come numero di assunzioni.

Gli artt. 19-29 del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 81 – nella formulazione antecedente alle modifiche apportate dal c.d. “Decreto dignità” – avevano confermato sostanzialmente la disciplina per il contratto a termine prevista già dal d.lgs. n. 368 del 2001, così come modificato dal d.l. n. 34 del 2014, convertito in legge n. 78 del 2014 a seguito dell’abolizione delle causali giustificatrici dell’apposizione del termine e delle ragioni oggettive per la proroga.

L’art. 19, primo comma, del d.lgs. n. 81 del 2015 consentiva l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato di durata non superiore a 36 mesi, concluso fra un datore di lavoro e un lavoratore per lo svolgimento di qualunque tipo di mansione. Pertanto, con la conferma della c.d. “acausalità generalizzata” nella stipula dei contratti a tempo determinato, ogni contratto a termine poteva essere stipulato a fronte delle normali necessità aziendali, senza esigenze di causali specifiche, ma, soprattutto, attraverso l’autonoma valutazione del datore di lavoro, totalmente svincolata da ogni giudizio inerente i criteri della oggettività tecnico- organizzativa.

Tuttavia, il precedente Governo Conte ha ceduto alla tentazione di esprimere un segnale di discontinuità rispetto alle precedenti legislature ed il modo migliore è sembrato quello di rendere sempre più stringenti le norme tese alla flessibilità dei rapporti di lavoro nel nome della lotta alla precarietà.

E così, con la sempre più utilizzata decretazione d’urgenza, ha preso vita il d.l. n. 87 del 2018 (c.d. “Decreto dignità”), convertito con modificazioni dalla legge  9 agosto 2018, n. 96 che ha, da un lato, introdotto l’obbligo di indicare la causale giustificativa di apposizione del termine per i contratti di durata superiore a 12 mesi e, d’altro lato, ridotto la durata complessiva dei contratti stessi da 36 a 24 mesi.

Pertanto, le condizioni che oggi consentono la stipula o la proroga di un contratto di durata superiore a 12 mesi ed il rinnovo di un contratto a termine sono elencate all’art. 19, primo comma, del d.lgs. n. 81 del 2015, che fa riferimento a:

a) “esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività, ovvero esigenze di sostituzione di altri lavoratori”;

b) “esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria”.

Sin dall’emanazione del decreto in esame non sono di certo mancate le critiche giunte da molte parti della dottrina più autorevole che hanno stigmatizzato, da un lato, la difficile interpretazione delle casuali in sede giudiziale, e, dall’altro lato, un campo di applicazione così ristretto delle stesse casuali da farle apparire, di fatto, inapplicabili.

A ciò si aggiunga che nel tempo anche il costo del lavoro dei contratti a tempo determinato è stato volutamente ed inspiegabilmente accresciuto con l’aumento costante del versamento del contributo addizionale.

È verosimile che, proprio a seguito della sospensione delle attività previste dalle misure di contrasto adottate dal Governo al COVID-19, ci si troverà dinanzi ad una convergenza di fattori sfavorevoli al recupero dell’occupazione anche in ragione del difficile utilizzo, per il futuro, dei contratti a tempo determinato.

A maggior ragione in quei contesti nei quali i contratti di lavoro a termine e in somministrazione stipulati antecedentemente alla sospensione della produzione si troveranno in procinto di raggiungere (e superare) i 12 mesi di acausalità, con la conseguenza che, nel momento della ripresa le aziende saranno obbligate a ricorrere alle proroghe o ai rinnovi contrattuali nel rispetto delle causali – pressoché inapplicabili – di cui al citato art. 19, primo comma del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81.

Tale situazione non farà che generare un ulteriore aggravamento dello stallo delle assunzioni con gravissime ripercussioni sul tasso di disoccupazione e, più in generale, sulle condizioni economiche della popolazione e delle famiglie.

Ora, al di là delle previsioni e degli interventi normativi che verranno attuati per disporre la disapplicazione del regime delle proroghe e dei rinnovi contrattuali dei rapporti a termine della durata superiore ai 12 mesi a causa dell’emergenza epidemiologica, deve assumere un ruolo centrale la discussione sulla definitiva abrogazione delle causali per sostenere in modo coraggioso le imprese ed incentivarle ad assumere o a confermare i contratti in scadenza, anche se per periodi limitati. Una formula sempre preferibile alla raggelante inattività nella quale molti italiani potrebbero trovarsi anche successivamente al periodo strettamente emergenziale.

La cancellazione delle causali dal nostro ordinamento assume maggiore rilevanza se si considera anche che, ad oggi, l’unico strumento che consente di superare le restrizioni dell’art. 19, prima comma, è riconducibile alla c.d. contrattazione di prossimità e, nello specifico all’art. 8 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, così come convertito con modificazioni, con la legge del 14 settembre 2011, n. 148.

Dalle pagine di questa rivista (vedi n. 9 Settembre/Ottobre 2019) avevamo già ragionato su come il secondo comma dell’art. 8 del d.l. n. 138/2011, lett. a)-d), e prima parte della lett. e), riconosca alla contrattazione aziendale e territoriale di derogare, precisando i contenuti regolatori delle intese modificative le quali, dunque, possono riguardare la regolazione delle materie, tassativamente indicate, inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione tra le quali rientrano anche i contratti a termine ed in somministrazione. Sebbene le più rilevanti questioni sollevate dalla dottrina abbiano già superato, con valutazione di conformità, il giudizio di costituzionalità, con la sentenza della Corte costituzionale del 4 ottobre 2012, n. 221 (e con la recente sentenza della Corte di cassazione del 22 luglio 2019 n.19660, commentata nel citato numero), tuttavia, la formulazione stessa dell’art. 8 non rende esenti gli accordi di prossimità dal controllo giudiziale, stante la necessità di verificare il rispetto dei requisiti.

Un controllo che deve avvenire attraverso il vaglio giudiziario delle intese di prossimità stipulate dalle parti sociali, sia in ordine alla misura adottata in funzione dell’obiettivo prefissato in linea con le finalità previste dal primo comma, seconda parte, sia con riferimento al rispetto delle materie “inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione” indicate nel successivo secondo comma, sia infine rispetto ai principi costituzionali e delle convenzioni internazionali, così come previsto dal comma 2 bis.

Nondimeno, la percorribilità degli accordi di prossimità, appare poco agevole per superare lo scoglio delle causali previste per i contratti a tempo determinato per quelle piccole e medie imprese che non possiedono le caratteristiche strutturali ed organizzative per utilizzare la contrattazione di secondo livello con il fine di regolamentare la quotidiana operatività aziendale.

È oramai sotto gli occhi di tutti che le conseguenze dell’attuale situazione di crisi spiegheranno i loro effetti per un tempo che non siamo in grado di calcolare. Servono, quindi, interventi normativi chiari e liberi dalle maglie ideologiche che restituiscano alle imprese strumenti idonei a spingere verso un futuro di maggiore occupazione.

*Avvocato in Roma

 

 

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