Disabilità e accomodamento ragionevole

di Loris Beretta*

Quando si parla di disabilità in azienda spesso ci si accorge che il termine “accomodamento ragionevole” è poco conosciuto. Per capire di cosa si tratta ripercorriamo le norme che nel tempo si sono susseguite per regolare il rapporto tra impresa e lavoratori con limitate capacità lavorative.

Iniziamo considerando la legge 11 febbraio 1980, n. 18 che disciplinò l’“indennità di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili” offrendo la seguente definizione di handicap: Art. 1 – Ai mutilati ed invalidi civili totalmente inabili per affezioni fisiche o psichiche di cui agli articoli 2 e 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118, nei cui confronti le apposite commissioni sanitarie, previste dall’articolo 7 e seguenti della legge citata, abbiano accertato che si trovano nella impossibilità di deambulare senza l’aiuto permanente di un accompagnatore o, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani della vita, abbisognano di un’assistenza continua, “omissis”.

Tale   definizione   venne   poi   ulteriormente precisata dalla legge 12 giugno 1984, n. 222 revisione della disciplina della invalidità pensionabile”  all’art.  1  comma  1:  “1.  Si considera  invalido,  ai  fini  del  conseguimento  del diritto ad assegno nell’assicurazione obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia ed i superstiti dei lavoratori dipendenti ed autonomi gestita dall’Istituto nazionale della previdenza sociale, l’assicurato la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di infermità o difetto fisico o mentale a meno di un terzo” iniziando ad introdurre un primo parametro (“meno di un terzo della capacità”).

Successivamente, venne promulgata la legge 5  febbraio  1992,  n.  104  “legge-quadro per  l’assistenza,  l’integrazione  sociale  e i  diritti  delle  persone  handicappate”  che  disciplinò l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone disabili, tracciandone, all’art. 3 comma 1, 2 e 3, il profilo: “1. È persona handicappata colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione” e “2. La persona handicappata ha diritto alle prestazioni stabilite in suo favore in relazione alla natura e alla consistenza della minorazione, alla capacità complessiva individuale residua e alla efficacia delle terapie riabilitative.” e comma 3 “Qualora la minorazione, singola o plurima, abbia ridotto l’autonomia personale, correlata all’età, in modo da rendere necessario un intervento assistenziale permanente, continuativo e globale nella sfera individuale o in quella di relazione, la situazione assume connotazione di gravità. Le situazioni riconosciute di gravità determinano priorità nei programmi e negli interventi dei servizi pubblici.” Peraltro al comma 1 vennero dichiarate delle finalità molto precise: 1. La Repubblica: a) garantisce il pieno rispetto della dignità umana e i diritti di libertà e di autonomia della persona handicappata e ne promuove la piena integrazione nella famiglia, nella scuola, nel lavoro e nella società; b) previene e rimuove le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività, nonché la realizzazione dei diritti civili, politici e patrimoniali; c) persegue il recupero funzionale e sociale della persona affetta da minorazioni fisiche, psichiche e sensoriali e assicura i servizi e le prestazioni per la prevenzione, la cura e la riabilitazione delle minorazioni, nonché la tutela giuridica ed economica della persona handicappata; d) predispone interventi volti a superare stati di emarginazione e di esclusione sociale della persona handicappata.

Un ulteriore pilastro per la gestione di queste persone, e ulteriore precisazione dello stato di handicap, è costituito dalla legge 12 marzo 1999, n. 68 “norme per il diritto al lavoro dei disabili” che disciplinò le norme per il diritto al lavoro dei disabili precisandone ulteriormente la definizione e gli obblighi datoriali. Nel 2000 intervenne la Comunità Europea emanando la direttiva 2000/78/ cE che definì un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. In particolare l’intento era di bandire ogni forma di discriminazione che potesse limitare la possibilità di occupazione delle persone in Europa: “(11) La discriminazione basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali può pregiudicare il conseguimento degli obiettivi del trattato CE, in particolare il raggiungimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone. (12) Qualsiasi discriminazione diretta o indiretta basata su religione o convinzioni personali, handicap, età o tendenze sessuali nei settori di cui alla presente direttiva dovrebbe essere pertanto proibita in tutta la Comunità. Tale divieto di discriminazione dovrebbe applicarsi anche nei confronti dei cittadini dei paesi terzi, ma non comprende le differenze di trattamento basate sulla nazionalità e lascia impregiudicate le disposizioni che disciplinano l’ammissione e il soggiorno dei cittadini dei paesi terzi e il loro accesso all’occupazione e alle condizioni di lavoro.”

La Direttiva diede precise indicazioni agli Stati membri su tali temi: “(16) La messa a punto di misure per tener conto dei bisogni dei disabili sul luogo di lavoro ha un ruolo importante nel combattere la discriminazione basata sull’handicap.” tuttavia “(17) La presente direttiva non prescrive l’assunzione, la promozione o il mantenimento dell’occupazione né prevede la formazione di un individuo non competente, non capace o non disponibile ad effettuare le funzioni essenziali del lavoro in questione, fermo restando l’obbligo di prevedere una soluzione appropriata per i disabili.” Un po’ a dire che nessuno può obbligare nessuno a darsi da fare se non vuole, questo però non significa che gli Stati membri non debbano disciplinare le soluzioni necessarie per l’inserimento dei disabili in azienda. Per questo così dispose: “(20) È opportuno prevedere misure appropriate, ossia misure efficaci e pratiche destinate a sistemare il luogo di lavoro in funzione dell’handicap, ad esempio sistemando i locali o adattando le attrezzature, i ritmi di lavoro, la ripartizione dei compiti o fornendo mezzi di formazione o di inquadramento.” Ma tutto questo a qualsiasi costo? Indipendentemente dalle condizioni dell’impresa? Certamente no! E così eccoci al punto: “(21) Per determinare se le misure in questione danno luogo a oneri finanziari sproporzionati, è necessario tener conto in particolare dei costi finanziari o di altro tipo che esse comportano, delle dimensioni e delle risorse finanziarie dell’organizzazione o dell’impresa e della possibilità di ottenere fondi pubblici o altre sovvenzioni.” Questa è la prima anticipazione del cosiddetto accomodamento ragionevole, ossia l’inserimento lavorativo di una persona disabile non deve essere effettuato senza tenere in alcuna considerazione l’organizzazione dell’impresa abbinata alla situazione della persona con ridotte capacità lavorative. Tale definizione venne ripresa all’art. 5 in cui la Direttiva così recita: “articolo 5, Soluzioni ragionevoli per i disabili. Per garantire il rispetto del principio della parità di trattamento dei disabili, sono previste soluzioni ragionevoli. Ciò significa che il datore di lavoro prende i provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione, a meno che tali provvedimenti richiedano da parte del datore di lavoro un onere finanziario sproporzionato. Tale soluzione non è sproporzionata allorché l’onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato membro a favore dei disabili.

L’Italia, considerando che al punto (22) la direttiva disponeva che “La presente direttiva lascia impregiudicate le legislazioni nazionali in materia di stato civile e le prestazioni che ne derivano.” pensò che le norme vigenti all’epoca fossero più che sufficienti per potersi considerare pienamente adempiente, in fondo vigeva una chiara definizione di disabilità a cui veniva data estrema attenzione al fine di evitare qualsiasi forma di discriminazione. La legge n. 68/1999 sul collocamento dei disabili pareva essere sufficientemente chiara ed esaustiva, disciplinando il collocamento mirato, disponendo il regime delle assunzioni obbligatorie, attivando i servizi per il collocamento obbligatorio e l’avviamento al lavoro, nonché esoneri, agevolazioni e sanzioni. Cosa mancava? Qualsiasi riferimento all’accomodamento ragionevole!

Nel frattempo la questione “disabilità” venne presa in considerazione anche dall’ONU con la convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, entrata in vigore il 3 maggio 2008 e adottata da 192 paesi, firmata da 126 e ratificata da 49. Essa rappresentò il primo grande trattato sui diritti umani del nuovo millennio che l’Italia ratificò e rese, parzialmente, esecutiva con la legge n. 18 del 3 marzo 2009 “Ratifica ed esecuzione della convenzione delle nazioni unite sui diritti delle persone con disabilità, con Protocollo opzionale, fatta a new York il 13 dicembre 2006 e istituzione dell’osservatorio nazionale sulla condizione delle persone con disabilità. Tale Convenzione delineava così il suo scopo: Scopo della presente Convenzione è promuovere, proteggere e assicurare il pieno ed eguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro inerente dignità.

Le persone con disabilità includono quanti hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri.

Nella Convenzione  venne  indicato chiaramente che il concetto di disabilità non va considerato quale tratto caratterizzante la persona, ma, piuttosto, “una complessa interazione di condizioni, molte delle quali sono create dall’ambiente sociale: vengono definite “persone con disabilità” tutte coloro che “hanno minorazioni fisiche, mentali, intellettuali o sensoriali a lungo termine che in interazione con varie barriere possono impedire la loro piena ed effettiva partecipazione nella società su una base di eguaglianza con gli altri” (art. 1, comma 2).” É proprio tra le definizioni di cui all’articolo 2 di detta Convenzione che si rintraccia con precisione il termine “accomodamento ragionevole”, in essa si legge che accomodamento ragionevole indica le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in base a casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di eguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e libertà fondamentali”. E un ulteriore richiamo agli accomodamenti ragionevoli è previsto anche nell’art. 27, lett. I) per cui gli Stati Parti devono garantire e favorire l’esercizio del diritto al lavoro per tutti, prendendo appropriate iniziative, comprese le misure legislative, “in particolare al fine di garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro”. Cosa mancava nella nostrana legge n. 18/2009 che tentò di recepire la Convenzione ONU? Qualsiasi riferimento all’accomodamento ragionevole! Questo argomento fu sempre trascurato dall’Italia, tanto che nel 2011 la Commissione Europea aprì una procedura d’infrazione a carico del nostro Paese per il mancato recepimento della Direttiva 2000/78/CE proprio nella parte dedicata all’accomodamento ragionevole. Contro di essa l’Italia si difese adducendo la completezza e l’ampiezza delle norme adottate nel tempo, dedusse in proposito la legge n. 68/1999, le leggi n. 104/1992 e n. 381/1991, nonché il decreto legislativo n. 81/2008 e la legge n. 18/2009. Ciò non fu ritenuto sufficiente tanto che la Commissione decise di proporre ricorso avanti la Corte di giustizia, volto a far dichiarare che l’Italia venne meno agli obblighi di cui all’art. 5 della direttiva stessa. In particolare, la Commissione evidenziò che, di fatto, la legge n. 68/1999 si applica solo ad alcune categorie di disabili e di datori di lavoro, non prevedendo soluzioni ragionevoli in relazione a tutti gli aspetti del rapporto di lavoro; inoltre, poiché l’attuazione delle soluzioni previste presuppone l’adozione di ulteriori provvedimenti da parte delle autorità locali o la conclusione di apposite convenzioni tra queste e i datori di lavoro, non assicura ai disabili un’adeguata difesa dei diritti da essi invocabili in un eventuale giudizio contro la discriminazione. Ne seguì la soccombenza dell’Italia, ecco i tratti salienti della Sentenza della Corte di giustizia  nella  causa  c-312/11,  Commissione  /  Italia: l’italia non ha correttamente  trasposto l’art.   5   della   direttiva   2000/78/cE   in materia di provvedimenti da adottarsi da parte  di  tutti  i  datori  di  lavoro  in  favore dei lavoratori disabili”.  Sostanzialmente la Corte  di  giustizia  sentenziò  che  l’Italia,  non avendo  imposto  a  tutti  i  datori  di  lavoro  di prevedere  soluzioni  ragionevoli  applicabili a  tutti  i  disabili,  in  funzione  delle  esigenze delle   situazioni   concrete,   venne   meno   al suo    obbligo    di    recepire    correttamente e   completamente   l’art.   5   della   direttiva 2000/78/CE,    che    stabiliva    un    quadro generale   per   la   lotta   alle   discriminazioni fondate,    tra    l’altro,    anche    sull’handicap, ovviamente  con  riferimento  all’occupazione e  alle  condizioni  di  lavoro.  L’Italia  tentò  di difendersi   sostenendo   che   né   la   direttiva né  la  giurisprudenza  della  Corte  di  giustizia contenevano  una  definizione  di  disabilità  o di handicap avente un contenuto concreto e specifico, tuttavia, la Corte di giustizia respinse questo argomento richiamandosi alla sentenza resa, l’11 aprile 2013, nella causa C-335/11 e C-337/11, HK Denmark, in cui affermò che, «alla luce della Convenzione dell’ONU, [la] nozione [di “handicap”] deve essere intesa nel senso che si riferisce ad una limitazione risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature che, in interazione con barriere di diversa natura, possono ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori». Sulla base di tale premessa, la Corte ha affermato che «l’espressione “disabile” utilizzata nell’articolo 5 della direttiva 2000/78 deve essere interpretata come comprendente tutte le persone affette da una disabilità corrispondente alla definizione enunciata nel punto precedente», inoltre, contrariamente a quanto esposto dall’Italia, aggiunse che «non è sufficiente disporre misure pubbliche di incentivo e di sostegno, ma è compito degli Stati membri imporre a tutti i datori di lavoro l’obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i disabili, che riguardino i diversi aspetti dell’occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione».

Il legislatore italiano emanò quindi il decreto legge 28 giugno 2013, n. 76 intitolato: “Primi interventi urgenti per la promozione dell’occupazione, in particolare giovanile, della coesione sociale, nonché in materia di Imposta sul valore aggiunto (IVA) e altre misure finanziarie urgenti.” Tale decreto venne pubblicato nella Gazzetta ufficiale 28 giugno 2013, n. 150 e convertito in legge, con modificazioni, dall’ art. 1, comma 1, legge 9 agosto 2013, n. 99. In esso si legge: 4-ter. All’articolo 3 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216, dopo il comma 3 è inserito il seguente: «3-bis. Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all’attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».

Nonostante ciò ancora oggi l’accomodamento ragionevole, non solo è poco conosciuto, ma non vi sono linee guida sui criteri di applicazione pratica, ad esempio non è disciplinato esattamente l’individuazione del momento in cui scatta un qualche obbligo in capo al datore di lavoro (mentre, invece, in alcuni Paesi sono addirittura stati creati specifici enti volti ad attuare concretamente tali disposizioni: ad esempio negli Stati Uniti l’U.S. Equal Employment Opportunity Commission-ADA (EEOC) e il Job Accommodation Network (JAN); nel Regno Unito The Equality and Human Rights Commission (EHRC). L’argomento è ancora fonte di ampio dibattito, si veda ad esempio il rapporto 2016 dell’European network of legal experts in gender equality and non-discrimination della Commissione Europea (“Reasonable accommodation for disabled people in employment contexts. A legal analysis of EU Member States, Iceland, Liechtenstein and Norway”, in Boll. Adapt del 11 aprile 2016, n. 12).

Dal canto loro le imprese, almeno quelle di grandi e grandissime dimensioni molto hanno fatto e molto stanno facendo. Si parla ormai da anni e in molti casi è una realtà, dell’introduzione nell’organizzazione aziendale di figure quali il “diversity manager” e il “disability manager”, deputati a trasformare la disabilità in opportunità, non concentrandosi su cosa il disabile non può fare ma su cosa può fare e come quel che può fare può essere significativo e strategico per l’attività d’impresa. Ne è un esempio l’Unicredit che ha fatto diventare “strategica” la sordità creando un team di persone prive dell’udito che fa conferenze, e offre assistenza finanziaria ad altre persone sorde parlandogli con il linguaggio dei segni. In definitiva si tratta solo di capire come trasformare un handicap in vantaggio pensando anche a implementare specifici corsi di formazione per lo sviluppo della capacità residua dell’individuo. É davvero più complessa la situazione delle piccole e medie imprese? Forse qualche volta si, ma solo perché non è ancora diffusa la cultura del concentrarsi su cosa si può fare invece che su cosa non si può fare. Le ultime norme che compongono il cosiddetto Jobs Act hanno modificato la legge n. 68/2009 e sicuramente vanno nella direzione giusta. Mi riferisco, in particolare, al decreto legislativo n. 151/2015 che ha riformato l’ingresso al lavoro delle persone con disabilità. Le aziende oggi possono assumere tramite chiamata nominativa mentre quella numerica resta solo quale ultima ratio se l’impresa non si rende adempiente. Non è molto ma è un passo avanti anche nell’interesse del lavoratore disabile; quanti hanno peggiorato le loro condizioni a causa della disumanità dell’avviamento numerico che ha sempre inserito al lavoro [coattivo] persone senza riguardo alla loro formazione, capacità e alla situazione aziendale? L’accomodamento ragionevole deve trovare spazio anche nelle imprese di minori dimensioni ed è compito dei professionisti aiutare il mondo imprenditoriale a conoscerlo e applicarlo correttamente, non perché sia giusto o sbagliato ma perché è strategico!

* Odcec Milano

 

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