Distacco del personale: i dubbi della Cassazione

di Paolo Soro* 

Prendiamo spunto dalla recentissima ordinanza interlocutoria della Cassazione Civile (sezione Tributaria) n. 2385 del 29/01/2019, che ha rimesso la questione alla Corte di Giustizia Europea, per fare il punto della situazione circa le implicazioni fiscali connesse alle operazioni di distacco della forza lavoro.

Tramite l’istituto del distacco (art. 30, decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30”, Legge Biagi), un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. A carico del distaccante continuano a gravare i tipici obblighi del datore di lavoro, ossia la responsabilità in materia di assunzione, la gestione del rapporto, i connessi adempimenti retributivi e previdenziali, nonché il potere disciplinare e di licenziamento. Nel contempo, per prassi oramai consolidata, a fronte della prestazione lavorativa svolta, l’azienda distaccataria rifonde alla distaccante i costi sostenuti per il personale in distacco. Ebbene, si è posto il problema concernente il corretto inquadramento ai fini tributari di tali somme.

Giova, innanzitutto, ricordare che in epoca anteriore al sopra riportato decreto, il distacco era sostanzialmente previsto dalla normativa soltanto con riferimento alla contrattazione collettiva: “Gli accordi sindacali, al fine di evitare le riduzioni di personale, possono regolare il comando o il distacco di uno o più lavoratori dall’impresa ad altra per una durata temporanea” (art. 8, comma 3, decreto-legge 20 maggio 1993, n. 148 “Interventi urgenti a sostegno dell’occupazione”, convertito, con modificazioni, dalla legge 236/1993).

Col d.lgs. 276/2003, invece, viene finalmente introdotta una vera e propria regolamentazione dell’istituto del distacco, specificandone alcuni elementi imprescindibili, quale – primo fra tutti – il soddisfacimento di un interesse proprio del datore di lavoro distaccante, fattore che – come avremo modo di vedere fra poco – risulta fondamentale ai fini della qualificazione fiscale (e non solo) delle somme qui oggetto di analisi.

Peraltro, proprio in tale ottica prettamente tributaria, appare necessario primariamente riportare l’indirizzo che era stato espresso dall’Agenzia delle Entrate con la Risoluzione 346/2002, rispondendo ad apposita istanza d’interpello. Tramite detto documento, l’Agenzia aveva fornito un’interpretazione particolarmente restrittiva della norma di riferimento (comma 35, art. 8, legge 67/1988, legge finanziaria 1988), la quale disponeva che: “Non sono da intendere rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto i prestiti o i distacchi di personale a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo”.

Ebbene, a parere dell’Ufficio, il rigido tenore letterale della legge consente la non assoggettabilità all’IVA esclusivamente nel caso in cui il ristoro versato dal distaccatario al distaccante sia assolutamente equivalente al rimborso degli effettivi costi vivi sopportati. Se tali somme dovessero invece differire (non solo in quanto maggiori, ma anche laddove minori rispetto al totale dei meri costi sostenuti), l’intero importo andrebbe automaticamente assoggettato a IVA. Non solo: nell’interpello in argomento, l’istante faceva presente che, contestualmente al prestito/distacco del personale, era disciplinato contrattualmente anche l’affitto di beni strumentali, per i quali veniva ovviamente ipotizzata l’imponibilità IVA. Ebbene la risposta tranchant dell’Agenzia era stata che, per ciò stesso, l’intera operazione doveva essere qualificata unitariamente; pertanto, in tale particolare fattispecie, anche il solo corretto rimborso dei costi del personale andava parimenti assoggettato a IVA.

Occorre osservare che al riguardo la Cassazione (sentenze: 19129, 19130, 19131 e 19132 del 2010) ha deciso in maniera difforme, stabilendo che la pattuizione di un corrispettivo inferiore o superiore al costo globale dei dipendenti risulta, in definitiva, irrilevante, dato che nei limiti di esso il distaccante non effettua alcuna prestazione. Per cui, se fosse pattuito un rimborso pari o inferiore, il distaccatario non dovrebbe pagarci l’IVA, mentre se fosse concordata una somma superiore sarebbe tenuto a farlo soltanto sulla parte eccedente il costo del personale distaccato.

Detto orientamento, peraltro, non è stato condiviso da successivo Collegio (Cassazione 23021/2011), il quale ha affermato il seguente principio di diritto: “La L. n. 67 del 1988, art. 8, comma 35, deve essere intesa nel senso che il distacco di personale è irrilevante ai fini dell’IVA soltanto se la controprestazione del distaccatario consista nel rimborso di una somma esattamente pari alle retribuzioni e agli altri oneri previdenziali e contrattuali gravanti sul distaccante.”

A giudizio della Corte, infatti, il rimborso deve essere esattamente uguale alle retribuzioni e agli altri oneri perché ciò che occorre ai fini dell’irrilevanza IVA è, come riconosciuto dall’Amministrazione finanziaria, che si tratti di un’operazione sostanzialmente neutra. Ovverosia, una situazione che non comporti un guadagno per il distaccante, ma nemmeno un risparmio per il distaccatario, visto che, in caso contrario, non vi sarebbe ragione di riservarle un trattamento diverso dal normale. In ulteriore occasione (Sentenza 14053/2012), la Cassazione ha avuto modo di ribadire che la l. 67/1988 è una norma speciale che esonera dall’imposta in base all’ammontare della somma dovuta dal distaccatario, solo laddove detto importo sia perfettamente uguale al costo del personale. Tale rimborso deve essere, però, esattamente equipollente alle retribuzioni e agli altri oneri, perché ciò che occorre ai fini della irrilevanza, è che si debba trattare di un’operazione – come anzidetto – sostanzialmente neutra (non si verifica: né un guadagno per il distaccante, né un risparmio per il distaccatario).

Anche dalla normativa comunitaria (art. 9, Direttiva 77/388 CEE, art. 56 Direttiva 2006/112/CE) risulta che il distacco (o messa a disposizione, o prestito) di personale costituisce una prestazione di servizi astrattamente destinata, in quanto tale, a essere assoggettata all’IVA. Orbene, tale regola generale non può trovare applicazione nel caso in cui il distaccatario si sia limitato a rimborsare al distaccante il solo costo dei dipendenti, atteso che le prestazioni di servizio assumono rilevanza ai fini del pagamento dell’IVA solamente se ne deriva un vantaggio economico per l’utilizzatore.

In sostanza, a giudizio di detta ultima Cassazione:

“Per restare fuori dal campo di applicazione dell’IVA occorre la duplice condizione che: a) si tratti di un accordo in forza del quale un soggetto, al fine di soddisfare un proprio specifico interesse, mette a disposizione di un altro delle persone a lui legate da un rapporto di lavoro subordinato; b) il distaccatario riversi al distaccante una somma esattamente pari al costo retribuivo e previdenziale dei dipendenti utilizzati, dato che il riconoscimento di un corrispettivo maggiore o minore comporta l’inapplicabilità dell’agevolazione, con conseguente- mente sottoposizione a IVA dell’intero importo pattuito.”

Tralasciamo, sul punto, ogni considerazione personale concernente il fatto che l’assoggettamento o meno all’IVA possa costituire una “agevolazione” per l’imprenditore: vero e proprio ossimoro, avuto riguardo alla ratio stessa dell’imposta. Ciò detto, aldilà delle sue esposte interpretazioni fornite dall’Agenzia delle Entrate a dalla Cassazione, la conditio sine qua non che le somme versate dal distaccatario al distaccante siano necessariamente equipollenti al rimborso del puro costo sostenuto per il personale distaccato, acquisisce ulteriore conferma con la pubblicazione della Circolare 3/2004 del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, di commento alla normativa sul distacco (Legge Biagi). Appare, invero, innegabile che la situazione debba essere compiutamente vagliata anche in ottica giuslavorista. Orbene, al riguardo, la Circolare in questione afferma quanto segue:

“La Cassazione a Sezioni Unite 13 aprile 1989, n.1751,ha chiarito, che il rimborso al distaccante della spesa del trattamento economico non ha alcuna rilevanza ai fini della qualificazione del distacco genuino. In ultima analisi, poiché il lavoratore distaccato esegue la prestazione non solo nell’interesse del distaccante ma anche nell’interesse del distaccatario, la possibilità di ammettere il rimborso rende più lineare e trasparente anche l’imputazione reale dei costi sostenuti da ogni singola società. In questo senso l’importo del rimborso non può superare quanto effettivamente corrisposto al lavoratore dal datore di lavoro distaccante. Ciò che differenzia il distacco dalla somministrazione, infatti, è l’interesse del distaccante. Mentre il somministratore realizza il solo interesse produttivo della somministrazione a fini di lucro, il distaccante soddisfa un interesse produttivo diversamente qualificato, come l’interesse al buon andamento della società controllata o partecipata.”

In pratica, il Ministero, pur dando conto della pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione che evidenzia come l’elemento “costi rimborsati” non sia, fine a sé stesso, atto a dichiarare il distacco come non genuino, precisa che, laddove tali rimborsi dovessero essere eccedenti rispetto ai meri costi sostenuti, mancherebbe di fatto l’elemento fondamentale del distacco: ossia, l’interesse – economico, produttivo, organizzativo, al migliore andamento aziendale – del distaccante. Tale interesse, infatti, verrebbe a essere identificato con il mero guadagno finanziario dovuto quale controprestazione del “prestito” dei dipendenti: tipico della somministrazione; ma non realizzabile mediante l’istituto del distacco, che a questo punto si configurerebbe come irregolare.

A fronte di simile declaratoria di non genuinità del distacco, le conseguenze sarebbero disparate e particolarmente gravose:

  • in ottica lavorativa, la richiesta di tardiva (ossia, a posteriori) regolarizzazione del rapporto diretto col datore di lavoro distaccatario, da parte dei dipendenti distaccati;
  • in ottica amministrativa, sanzioni ai danni di entrambi i datori di lavoro interessati;
  • in ottica fiscale, la sicura imponibilità IVA delle integrali somme corrisposte dal distaccatario al distaccante;
  • in ottica penale, dove la legge 9 agosto 2018, n. 96 ha reintrodotto il reato di somministrazione fraudolenta che si configura in tutti i casi in cui “la somministrazione di lavoro è posta in essere con la specifica finalità di eludere norme inderogabili di legge o di contratto collettivo applicate al lavoratore”; orbene, tale ipotesi si configura anche nell’ambito di distacchi di personale che comportino un’elusione della disciplina di cui all’art. 30, d.lgs. 276/2003, ovvero nelle fattispecie di distacco transnazionale “non autentico” ai sensi dell’art. 3, d.lgs. 136/2016 (come ha recentemente ricordato l’Ispettorato nazionale del lavoro: Circolare 3/2019 dell’11 febbraio scorso).

In siffatto quadro giuridico/normativo, giunge l’odierna Cassazione 2385/2019, la quale ordina la sospensione del processo e chiede alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi, in via pregiudiziale, sulla seguente questione di interpretazione del Diritto dell’Unione:

“Se la VI Direttiva 77/388/CEE del Consiglio, del 17 maggio 1977, artt. 2 e 6, nonché il principio di neutralità fiscale, debbano essere interpretati nel senso che ostano a una Legislazione nazionale in base alla quale non sono da intendere rilevanti ai fini dell’Imposta sul Valore Aggiunto i prestiti o i distacchi di personale della controllante a fronte dei quali è versato solo il rimborso del relativo costo da parte della controllata”.

A parere dei Giudici di legittimità, la Direttiva 2006/112/CE attribuisce un’amplissima sfera di applicazione all’IVA, elencando, all’art. 2 relativo alle operazioni imponibili, oltre alle importazioni di beni, le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso all’interno del Paese da un soggetto passivo che agisca in quanto tale. Inoltre, l’art. 6 della VI Direttiva, applicabile all’epoca dei fatti, stabilisce che:

“Si considera ‘prestazione di servizi’ ogni operazione che non costituisce cessione di un bene ai sensi dell’art. 5”.

Gli Ermellini rappresentano come la nozione di “prestazione di servizi”, ai sensi della Direttiva IVA, debba essere interpretata indipendentemente dagli scopi e dai risultati delle operazioni di cui trattasi (in pratica, viene sconfessato quanto detto dalla stessa Corte nelle occasioni precedenti, ritenendo irrilevante la circostanza che si verifichi la neutralità dell’operazione).

Oltre tutto, dice la Cassazione, l’art. 9 della VI Direttiva annovera tra le prestazioni di servizi la “messa a disposizione di personale”; e uno degli strumenti mediante i quali avviene tale messa a disposizione è appunto il distacco.

Per altro verso, la valutazione afferente il pagamento di una remunerazione quale corrispettivo di una prestazione di servizi, è una questione di Diritto dell’Unione, che deve essere risolta indipendentemente dalla valutazione operata nel diritto nazionale. Conseguentemente, appare di per sé irrilevante la qualificazione, contenuta nello stesso diritto nazionale, di una corresponsione di somme come rimborso, anziché come corrispettivo. Una prestazione di servizi – prosegue il Supremo Collegio – è effettuata a titolo oneroso, ai sensi della VI Direttiva e della Direttiva IVA, soltanto se esiste tra il prestatore e il beneficiario un rapporto giuridico nel corso del quale vengono scambiate prestazioni reciproche: la retribuzione percepita dal prestatore deve costituire l’effettivo controvalore del servizio fornito al beneficiario. In proposito, la Corte UE (C- 37/16) ha dichiarato che ciò si verifica quando sussiste un nesso diretto tra il servizio reso e il controvalore ricevuto; quando, cioè, le somme versate costituiscano l’effettivo corrispettivo di un servizio individualizzabile fornito nell’ambito di un siffatto rapporto giuridico. Viceversa, sempre a parere della stessa Corte di Giustizia (C-267/15), non sarebbe necessario, ai fini dell’IVA, che lo scambio sia lucrativo, poiché è indifferente il risultato dell’operazione economica (sul punto specifico, appare doveroso precisare che il caso deciso in siffatta circostanza dalla Corte UE concerneva ben altra tipologia).

La circostanza che un’operazione economica sia svolta a un prezzo uguale, superiore o inferiore al prezzo di costo – continua la Cassazione – diviene così di per sé ininfluente ai fini della qualificazione di tale operazione come «negozio a titolo oneroso», a meno che lo scarto tra i costi sostenuti e la somma ricevuta come corrispettivo sia particolarmente rilevante (Corte UE: Causa C-520/14). Onde per cui, si deve esaminare l’insieme delle circostanze in cui detta operazione è stata realizzata.

Applicando tali principi di diritto comunitario al caso in esame, i Giudici di legittimità ritengono che non pare in particolare rilevante la circostanza che le spese sostenute dalla controllata siano corrispondenti all’ammontare delle retribuzioni e degli oneri per i lavoratori dipendenti distaccati dalla controllante (soggetto terzo).

Orbene, sempre a parere del Supremo Collegio, il fatto che l’attività in questione sia di natura economica sembra evincersi dalla necessaria sussistenza di uno specifico interesse del datore di lavoro distaccante, che la Giurisprudenza di legittimità ha ravvisato in quello volto a garantire la maggiore funzionalità dell’organizzazione comune a controllante e controllata. “Che, poi, detta attività economica si sia tradotta in una prestazione di servizi svolta a titolo oneroso, potrebbe ricavarsi dall’ammontare della somma corrisposta dalla distaccataria, pari all’importo delle spese e degli oneri da sostenere per i lavoratori, in quanto tale, non insignificante.”

Francamente, quest’ultimo passaggio della motivazione appare illogico e non condivisibile. Se una prestazione è svolta a titolo oneroso, il corrispettivo ricevuto non può mai essere esattamente pari alle sole spese vive anticipate; in detta ipotesi, infatti, c’è solo un rimborso e nessun guadagno. La circostanza, poi, afferente l’entità delle somme da rimborsare, è del tutto irrilevante. Anche 10 euro, fini a sé stessi, possono rappresentare un corrispettivo se non sono versati per rimborsare costi documentati, sostenuti previamente; così come, all’opposto, 10 milioni di euro, se esclusivamente pari alle spese vive in precedenza sostenute, certamente non possono costituire mai alcun guadagno atto a configurare una prestazione di servizi svolta a titolo oneroso.

Continuando, i Giudici di piazza Cavour ritengono che la norma nazionale sembra innestare un’ingiustificata disparità di trattamento, ai fini IVA, tra i diversi strumenti mediante i quali si attua la «messa a disposizione di personale», che potrebbe incidere sul principio di neutralità fiscale, espressione, appunto, del principio generale della parità di trattamento, in virtù del quale merci o prestazioni del medesimo tipo, in potenziale concorrenza tra loro, vanno trattate, quanto all’IVA, in maniera uniforme.

E concludono:

“Anche la somministrazione di manodopera è uno strumento che consente la messa a disposizione di personale, che si differenzia dal distacco per la natura dell’interesse, ravvisabile in quello lucrativo del somministratore; e, in base alla stessa ricostruzione offerta dalla Giurisprudenza di questa Corte, essa dà sempre luogo a una prestazione imponibile, in relazione alla quale l’ammontare del rimborso incide soltanto sulla base imponibile.”

Inutile dire che pure tale asserzione, francamente, appare assai poco condivisibile. La somministrazione e il distacco attengono a rapporti contrattuali completamente difformi fra loro (e certo non alternativi, o in concorrenza), che nulla hanno reciprocamente a che vedere (per ragioni, per condizioni, per circostanze operative, per attuazione e svolgimento pratico, per risultati cui pervengono, etc.). Non è dato di comprendere sul fondamento di quale oscuro motivo si potrebbe mai ipotizzare in proposito un rischio di disparità di trattamento tale da incidere sul principio di neutralità fiscale. Se così fosse, lo stesso principio verrebbe quotidianamente violato in un’infinità di altre vicende, per le quali, viceversa, simili dubbi non hanno mai sfiorato nessuno. Seguendo tale poco convincente ragionamento, a esempio, il problema si porrebbe anche per trasferte, trasferimenti, trasfertisti, e via discorrendo.

In ogni caso, al momento non resta che attendere il responso dell’adita Corte Europea, sperando che il suo giudicato porti auspicabili e – a questo punto – più che necessarie conferme, tenuto altresì conto delle potenziali ulteriori implicazioni che le regole afferenti il transfer pricing potrebbero arrecare, in aggiunta, nelle fattispecie di distacco transnazionale infragruppo.

Odcec Roma

 

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