I dipendenti che volano sul nido del cuculo. Prima sentenza contro i furbetti della Naspi

di Oriana Costantini * 

Tra le tante domande e i numerosi quesiti che si pongono gli imprenditori – e con loro moltissimi professionisti della consulenza giuslavoristica – c’è questa:

-“Come si può evitare di procedere con un licenziamento per giusta causa e come poter eliminare l’obbligo di versamento del ticket Naspi, quando la volontà di interruzione del rapporto di lavoro è interamente del lavoratore?”- 

Attualmente, un sempre più crescente numero di lavoratori, avendo intenzione di interrompere il proprio rapporto di lavoro, ma consci del fatto che rassegnare le proprie dimissioni e formalizzarle li porterebbe alla perdita dell’indennità di disoccupazione e alla poca appetibilità sul mercato del lavoro in quanto esclusi da molte agevolazioni, mettono in atto una serie di comportamenti scorretti e disonesti, quali, ad esempio, abbandonare il posto di lavoro e assentarsi ad oltranza, che costringono il datore di lavoro a dover procedere con il licenziamento per giusta causa, che comporta l’attivazione della procedura disciplinare prevista dall’art. 7 legge 20 maggio 1970, n. 300 “Norme sulla tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà sindacale e dell’attività sindacale, nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento”, Statuto dei lavoratori, il pagamento del contributo ingresso Naspi, l’indennità di disoccupazione.

Il licenziamento per giusta causa è un licenziamento di tipo disciplinare, che avviene in tronco e senza preavviso, ed è l’unico strumento che al momento può essere utilizzato nei casi come quelli sopra elencati, per poter procedere all’interruzione del rapporto di lavoro e che fa scattare l’obbligo per il datore di lavoro di versare il contributo di ingresso alla Naspi.

In passato, una pratica assai diffusa era quella delle dimissioni in bianco, che consisteva nel far firmare al lavoratore le proprie dimissioni in anticipo, al momento dell’assunzione, inserendo poi l’eventuale data a fronte di una malattia, un infortunio, un comportamento sgradito o, cosa ancora più grave, una gravidanza. Per limitare questo tipo di pratica venne introdotta una nuova regolamentazione, con l’art. 26 del decreto legislativo 14 settembre 2015 che prevede che ‘’le dimissioni e la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro sono fatte, a pena di inefficacia, esclusivamente con modalità telematiche su appositi moduli resi disponibili dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali‘’ e che ‘’entro sette giorni dalla data di trasmissione del modulo di cui al comma 1 il lavoratore ha la facoltà di revocare le dimissioni e la risoluzione consensuale con le medesime modalità.’’ 

Una prima risposta al quesito iniziale, che lascia intravedere un barlume di speranza, ci viene dalla sentenza n. 106 del 30 settembre 2020 del Tribunale di udine, che ha ritenuto illegittimo il comportamento di un lavoratore che si era dimesso a “voce’’, aveva abbandonato il posto di lavoro, non presentandosi più nei giorni successivi, e non aveva provveduto alla comunicazione telematica delle dimissioni. Il datore di lavoro, a seguito di una serie di assenze ingiustificate si era poi ritrovato costretto a procedere con il licenziamento dopo aver regolarmente effettuato la contestazione ai sensi dell’art. 7 della legge n. 300/1970.

Il Tribunale, nel corso del dibattimento, si è convinto che il lavoratore volesse soltanto ottenere l’indennità di disoccupazione e che le assenze ingiustificate erano il solo mezzo per costringere il datore di lavoro ad adottare un provvedimento di licenziamento, e, pertanto, ha ritenuto giusta e legittima la richiesta del datore di lavoro ad ottenere il rimborso del ticket pari ad € 1.469,00.

La volontà risolutiva del rapporto di lavoro è stata posta, interamente, a carico del lavoratore.

Questo, però, può essere definito, con grandissimo rammarico, un caso isolato, in quanto non vi è in corso nessuna modifica normativa atta a tutelare i datori di lavoro, i quali, se vogliono rivendicare il rimborso di quanto pagato a fronte di un recesso forzato, a cui sono stati indotti, possono soltanto ricorrere in giudizio e dimostrare in quella sede il comportamento non legittimo del lavoratore.

Una delle possibili vie d’uscita da una situazione che sembra non averne potrebbe essere l’introduzione di una norma secondo cui se il lavoratore non dovesse provvedere alla convalida telematica delle dimissioni entro una certa data, il rapporto dovrebbe considerarsi risolto, sempre che il comportamento adottato stia a dimostrare la volontà esplicita di recedere dal rapporto, configurandosi, di conseguenza, come dimissioni di fatto, secondo l’indirizzo sostenuto dalla Corte di Cassazione, con la sentenza n. 25583 del 10 ottobre 2019.

Ancora una volta ci si ritrova a confrontarsi con una normativa che nella sua evoluzione, cercando di tutelare in tutti i modi la parte del rapporto  di lavoro  considerata “debole”, ha talvolta trascurato di fornire ai datori di lavoro, e con loro ai professionisti, gli strumenti di tutela da poter utilizzare in casi come questi.

*Praticante Odcec Napoli

 

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