Il licenziamento economico secondo la Cassazione n. 25201/2016: requisiti di legittimità e spazi di sindacabilità giudiziale

di Giovanni Chiri* 

La pubblicazione della sentenza della Corte di Cassazione 7 dicembre 2016 n. 25201 in materia di licenziamento per ragioni tecniche, organizzative, produttive, ha suscitato molto interesse in quanto da più parti è stata acclamata come la definitiva legittimazione del licenziamento avente come unico scopo un incremento di profitto per l’impresa.

La sentenza in questione è caratterizzata da un’approfondita argomentazione che, dall’analisi di due correnti giurisprudenziali contrastanti, giunge a delineare i requisiti di legittimità del licenziamento economico e i limiti alla sindacabilità giudiziale delle ragioni addotte dal datore di lavoro.

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Il caso oggetto della decisione in analisi riguardava un licenziamento per GMO motivato dall’esigenza tecnica di semplificare la catena di comando attraverso la soppressione della posizione lavorativa occupata dal lavoratore licenziato.

La Corte di Appello di Firenze aveva ritenuto illegittimo il licenziamento intimato affermando che in giudizio il datore di lavoro debba provare o l’esistenza di situazioni sfavorevoli e non meramente contingenti che influiscono in modo decisivo sull’attività produttiva, oppure la necessità di sostenere notevoli spese di carattere straordinario. In mancanza di tale prova, qualsiasi riassetto dell’impresa «risulta motivato soltanto dalla riduzione dei costi e, quindi, dal mero incremento di profitto» e deve pertanto ritenersi illegittimo, con conseguente illegittimità del licenziamento che ne è conseguito.

Come accennato, la decisione della Cassazione chiamata a pronunciarsi sul caso riscontra l’esistenza di due differenti orientamenti giurisprudenziali sulla questione in oggetto. Il primo – adottato dalla decisione impugnata – afferma che il licenziamento per GMO è giustificato dalla necessità di far fronte a situazioni sfavorevoli e non può essere meramente strumentale a un incremento di profitto. Ciò significa che la sussistenza di tali situazioni sfavorevoli è elevata a requisito di legittimità intrinseco al licenziamento e come tale deve essere provata dal datore di lavoro e accertata dal giudice.

L’imprenditore sarebbe infatti legittimato a modificare l’organizzazione dell’impresa solo per far fronte a situazioni negative e non anche per il conseguimento di obiettivi di efficientamento della propria organizzazione e aumento della competitività dell’impresa.

Il secondo orientamento, invece, ritiene che le ragioni inerenti all’attività produttiva possano consistere anche in riorganizzazioni aziendali, senza che rilevi la finalità perseguita dal datore di lavoro. Se così non fosse, vi sarebbe un contrasto con il principio di libertà di iniziativa economica privata sancito dall’art. 41 Costituzione.

La Cassazione accoglie questa seconda tesi sulla base di un’interpretazione letterale dell’art. 3 legge 604/1966, analizzata nel quadro degli ordinamenti giuridici italiani e dell’Unione Europea. La Suprema Corte afferma che la situazione sfavorevole di mercato non è prevista dalla suddetta norma quale requisito di legittimità del licenziamento e pertanto darvi rilievo costituisce un illegittimo sindacato da parte del giudice nel merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive di competenza esclusiva del datore di lavoro.

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La sentenza citata costituisce un ottimo punto di riferimento per l’analisi della fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo economico.

Al fine di stabilirne le caratteristiche, si possono individuare tre elementi: le motivazioni o finalità che inducono il datore di lavoro ad attuare una riorganizzazione dell’impresa, le ragioni tecniche organizzative o produttive di tale operazione e, infine, il nesso di causalità che dalla riorganizzazione aziendale fa discendere la soppressione del posto di lavoro occupato dal lavoratore licenziato. Sebbene questi elementi siano legati da un nesso di consequenzialità logica, non tutti hanno rilevanza giuridica.

La definizione legale di GMO di licenziamento è contenuta nell’art. 3 legge 604/1966: «il licenziamento per giustificato motivo … è determinato … da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».

Come è noto, l’emanazione della legge n. 604/1966 ha segnato il passaggio dal recesso datoriale a causale libera, disciplinato dall’art. 2118 c.c., al recesso vincolato da una  causale oggettiva (o soggettiva) espressamente individuata da una norma di legge.

La ragione di questa evoluzione normativa è l’entrata in vigore della Costituzione Italiana nel 1948 che, in materia di diritto del lavoro, ha previsto un sistema fondato sugli artt. 4, 35 e 41 Cost. nel quale la determinazione dei livelli di tutela del diritto al lavoro e dei limiti alla libertà di iniziativa economica privata è affidata alla discrezionalità del legislatore. All’interno di questa cornice normativa, il legislatore deve stabilire se e in che misura sia opportuno limitare il potere di recesso datoriale, operando un bilanciamento tra i contrapposti interessi.

Tale prerogativa del legislatore nazionale attualmente resiste anche di fronte all’ordinamento dell’Unione Europea. Sebbene il diritto del lavoratore alla tutela contro ogni licenziamento ingiustificato sia sancito dall’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (avente il medesimo valore giuridico dei Trattati), ad oggi la relativa competenza normativa non è stata esercitata in concreto e quindi rimane in capo ai legislatori nazionali il potere di determinare le modalità di concreta attuazione di tale diritto.

Se, quindi, è il legislatore a stabilire i limiti del recesso datoriale dal rapporto di lavoro, tali limiti sono esclusivamente quelli contenuti nella norma di legge.

Coerentemente con tale struttura, l’art. 30 legge 183/2010 dispone che in materia di diritto del lavoro, in presenza di clausole generali, il controllo giudiziale debba essere limitato esclusivamente all’accertamento del presupposto di legittimità e non possa essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro. Il giudice che estenda la propria valutazione al merito delle scelte datoriali espone la propria decisione all’impugnazione per violazione di legge.

Dunque, il presupposto di legittimità del licenziamento per GMO è la sussistenza di «ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa».

A ben vedere, tali ragioni possono essere individuate nella riorganizzazione dell’impresa, intendendosi – secondo quanto indicato dalla giurisprudenza – una modifica della struttura aziendale che comporti la soppressione di una o più determinate posizioni lavorative, a prescindere dall’eliminazione o meno dell’attività in concreto svolta dal lavoratore licenziato. È il caso, ad esempio, della soppressione di una posizione all’interno della struttura aziendale per il definitivo superamento di una determinata funzione oppure perché le mansioni precedentemente svolte dal lavoratore vengono redistribuite tra altri dipendenti, esternalizzate a soggetti terzi o sottoposte a processi di innovazione tecnologica.

Le motivazioni e le finalità che muovono l’imprenditore ad attuare una riorganizzazione della propria impresa sono invece ininfluenti ai fini della legittimità del licenziamento e possono essere di ogni genere: un calo di fatturato, una riduzione dei costi o la necessità di sostenere notevoli spese impreviste. Ma anche: la volontà di attuare una gestione economica più efficace dell’impresa, di aumentarne la competitività, di incrementarne l’efficienza, di favorirne l’innovazione tecnologica, di accrescerne la redditività, con conseguente aumento del profitto.

Sembra allora che la richiesta di sussistenza di situazioni sfavorevoli per l’impresa sia frutto di una confusione concettuale tra motivazioni o finalità del licenziamento e sue ragioni, che equipara le prime alle seconde, elevandole al rango di presupposti di legittimità del licenziamento nonostante il legislatore non abbia ritenuto di attribuire ad esse alcun valore all’interno della fattispecie legale.

Questa è la ragione per la quale al giudice è precluso il sindacato sulle motivazioni che muovono il datore di lavoro: non costituiscono presupposti di legittimità del licenziamento e sono quindi ininfluenti ai fini della decisione.

Agendo diversamente, il giudice trascende i limiti della propria competenza ingerendosi in quella riservata al legislatore, unico soggetto deputato a determinare il bilanciamento tra i contrapposti interessi di tutela del posto di lavoro del singolo lavoratore e di libertà di iniziativa economica dell’imprenditore.

In definitiva, la verifica giudiziale è rivolta alla sussistenza delle ragioni tecniche, organizzative, produttive, ma non può estendersi né alle motivazioni del datore di lavoro né alle finalità che esso intende perseguire tramite la riorganizzazione operata.

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Qual è quindi lo spazio di sindacabilità del licenziamento per GMO attribuito al giudice?

La giurisprudenza è concorde nell’affermare che la legittimità del licenziamento economico richiede la sussistenza di un’effettiva soppressione del posto di lavoro conseguente a una riorganizzazione e del nesso di causalità tra la ragione organizzativa e il licenziamento in concreto intimato.

La soppressione del posto di lavoro è effettiva quando non è pretestuosa né temporanea.

Essa presuppone un mutamento della struttura organizzativa dell’impresa tale da comportare un venir meno definitivo della posizione lavorativa eliminata – ma non necessariamente anche della specifica attività svolta dal lavoratore. Diversamente, la ragione addotta sarebbe un semplice pretesto per un licenziamento dovuto a ragioni del tutto differenti, presumibilmente riconducibili a causali soggettive.

Se infatti successivamente all’intimazione del licenziamento del dipendente il datore di lavoro procedesse ad assumere un altro lavoratore in sua sostituzione nella medesima posizione, ciò significherebbe che la riorganizzazione in realtà non avrebbe affatto richiesto la soppressione di quel posto di lavoro. Di conseguenza, il licenziamento non potrebbe essere ricondotto alla causale del GMO economico.

Il legittimo sindacato del giudice si estende poi alla verifica di sussistenza del nesso di causalità tra la ragione organizzativa e il licenziamento intimato. Tale nesso è ravvisabile nel caso concreto quando la soppressione di quella specifica posizione lavorativa sia coerente  con la ragione organizzativa addotta.

Se, ad esempio, la modifica strutturale che il datore di lavoro intende effettuare riguarda la razionalizzazione del settore amministrativo dell’impresa, il licenziamento non potrà colpire il lavoratore addetto alla produzione o più in generale un lavoratore estraneo al settore amministrativo.

La verifica che il giudice dovrà operare avrà quindi ad oggetto l’esistenza dei presupposti di legittimità dell’effettiva e veritiera soppressione del posto di lavoro derivante dalla riorganizzazione in essere e del collegamento causale tra ragione tecnica, organizzativa, produttiva e conseguente licenziamento.

In tema di spazi di sindacabilità giudiziale del licenziamento occorre però un’ulteriore precisazione. La sentenza della Cassazione n. 25201/2016 sopra citata ha affermato che, qualora nella comunicazione di licenziamento il datore di lavoro espressamente faccia riferimento a elementi ulteriori, quali una crisi aziendale in essere o il calo di fatturato, il giudice potrà estendere l’accertamento a tali circostanze senza che questo implichi un sindacato sul merito delle scelte imprenditoriali.

In questo caso infatti l’indagine riguarda comunque l’esistenza o meno del fatto indicato come causa del recesso e, in mancanza, l’accertamento dell’insussistenza della ragioni poste a fondamento del licenziamento in quanto non effettive.

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L’analisi compiuta porta a ritenere che il datore di lavoro, eventualmente con l’ausilio del professionista di fiducia, debba prestare particolare attenzione nel momento in cui intenda procedere a un licenziamento per GMO economico.

Ogni possibile cautela deve essere adottata nel momento chiave della procedura di licenziamento: la comunicazione scritta, motivata e immutabile delle ragioni del licenziamento (v. art. 2 legge 604/1966; ma anche art. 7 legge 604/1966 in caso di datore di lavoro avente i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 c. 8 legge 300/1970).

Il procedimento si articola in due passaggi fondamentali.

La prima verifica riguarda l’esistenza dei presupposti di legittimità del licenziamento per GMO. Occorre accertare se sia in atto una riorganizzazione dell’impresa che richieda l’effettiva soppressione definitiva della specifica posizione lavorativa occupata da quel lavoratore che si intende licenziare. Inoltre, è necessario che il licenziamento sia coerente e causalmente derivato dalla riorganizzazione in atto.

Verificata la presenza dei presupposti di legittimità del GMO, si procede all’elaborazione della comunicazione scritta del licenziamento.

Essa deve necessariamente contenere l’indicazione delle ragioni tecniche, organizzative, produttive che sono causa della soppressione del posto di lavoro e quindi del licenziamento.

Non è sufficiente la comunicazione della mera soppressione della posizione lavorativa in quanto, così facendo, il lavoratore non sarebbe in grado di conoscere le ragioni che giustificano il recesso e quindi di verificare la legittimità del licenziamento subito.

Se la soppressione del posto di lavoro fosse di per sé sola sufficiente a giustificare il licenziamento, il potere di recesso datoriale sarebbe illimitato e un datore di lavoro disonesto avrebbe gioco facile nell’utilizzo di questa fattispecie – abusandone – per liberarsi di lavoratori non graditi. Essendo invece il recesso datoriale sottoposto a causale, la soppressione del posto di lavoro deve costituire l’effetto derivante da una ragione tecnica, organizzativa o produttiva per poter rientrare nella fattispecie di licenziamento economico.

Risulta a questo punto fondamentale per il datore di lavoro, in un’ottica di «autotutela preventiva», redigere la comunicazione di recesso operando un accorto bilanciamento tra due esigenze.

Da un lato, l’adempimento dell’obbligo di effettiva comunicazione al lavoratore delle ragioni tecniche, organizzative, produttive del licenziamento.

Dall’altro, la necessità di evitare di fornire informazioni non necessarie che si rivelerebbero potenzialmente pregiudizievoli per gli interessi dell’impresa in quanto, andando a integrare il fatto posto alla base del licenziamento, comporterebbero un’estensione degli spazi di sindacato giudiziale al fine della verifica di veridicità e non pretestuosità delle ragioni addotte.

Infine, è opportuno ricordare un ulteriore presupposto del licenziamento per GMO che, sebbene non previsto dal legislatore, è riconosciuto dalla giurisprudenza: il repechage.

Il tema è articolato e richiederebbe un autonomo approfondimento. In questa sede sarà sufficiente ricordare che per la giurisprudenza il datore di lavoro deve fornire la prova dell’impossibilità di occupare il lavoratore in un’altra posizione all’interno della propria normale struttura organizzativa. Di conseguenza, la comunicazione scritta di recesso dovrà dare atto anche dell’impossibilità di un utile ricollocamento del lavoratore.

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In conclusione, la sentenza di Cassazione n.25201/2016 costituisce un punto di riferimento autorevole in materia di licenziamento economico, anche in considerazione del fatto che le successive pronunce della Suprema Corte si sono in sostanza adeguate ad essa (cfr. Cass. 05.04.2018 n. 8419, Cass. 12.04.2018 n. 9127, Cass. 11.05.2018 n. 11413, Cass. 03.12.2018 n. 31157, Cass. 04.12.2018 n. 31318, Cass. 18.02.2019 n. 4672).

Il merito che si può riconoscere alla sentenza in questione, però, non è tanto di aver avallato il licenziamento motivato dal mero aumento di profitto, quanto di aver fatto chiarezza sull’irrilevanza delle finalità e delle motivazioni che muovono il datore di lavoro, precisando quali siano i presupposti legali di legittimità del recesso datoriale e i conseguenti limiti di sindacabilità giudiziale. Di fronte alla necessità di intimare un licenziamento per GMO per ragioni tecniche, organizzative, produttive, occorre allora prestare particolare attenzione agli elementi costitutivi della fattispecie, tenendo a mente quale dovrebbe essere il valore attribuito alle motivazioni e finalità del licenziamento ai fini della sua legittimità: nessuno!

*Avvocato in Mantova

 

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