Il potere disciplinare del datore di lavoro

di Michele Maria Madonna* 

Il potere disciplinare del datore di lavoro trova la sua fonte nell’art. 2086 del c.c. che recita: ‘’l’imprenditore è il capo dell’impresa e da lui dipendono gerarchicamente i suoi collaboratori” (art 2094-2095,2145). Ne consegue che il datore di lavoro ha il potere di impartire direttive, alle quali il lavoratore deve prestare obbedienza, osservando diligenza nell’eseguire il lavoro, e fedeltà, astenendosi da condotte che possono arrecare pregiudizio all’organizzazione o nocumento alla produzione. Il potere direttivo rimarrebbe privo di valore concreto se non ci fosse un potere disciplina- re o sanzionatorio, previsto dall’art.2106, che disciplina la possibilità di sanzionare entro limiti ben definiti, previsti oltre che dal codice anche da clausole dei contratti collettivi di lavoro, la mancata diligenza e i singoli inadempimenti del dipendente rispetto agli obblighi contrattuali. I limiti imposti dalla legge al datore di lavoro sono: la sussistenza del fatto, la proporzionalità della sanzione, che sono limiti sostanziali, e la procedura da seguire. Circa il primo limite l’onere della prova è a carico del datore di lavoro; se il la- voratore ritiene che il fatto non gli sia imputabile, allora deve dimostrare le ragioni della sua non imputabilità (es. forza maggiore, caso fortuito, ecc). Il secondo limite contempla la presenza di una proporzionalità tra infrazione e sanzione. Infatti con l’art.2106 c.c. si vieta al datore di lavoro di applicare sanzioni non proporzionali all’addebito contestato (es. non può applicare sanzioni superiori a quelle previste dalla contrattazione collettiva). Circa il limite procedurale l’art.7 dello statuto dei lavoratori (legge 300 del 1970) ha introdotto alcuni requisiti di procedura per il corretto esercizio del potere disciplinare; infatti esso impone al datore di lavoro di predisporre un codice disciplinare che stabilisca le procedure di contestazione ed individui le infrazioni e le relative sanzioni. Tale codice deve essere portato a conoscenza di tutti i lavoratori con tutti i mezzi idonei, compresa l’affissione in luoghi accessibili a tutti. Tuttavia la mancata pubblicità non comporta sempre la nullità della sanzione. Infatti la sen- tenza della Corte costituzionale n. 11250 del 10 maggio 2010 ha precisato che si prescinde dalla pubblicità se le violazioni riguarda- no doveri imposti dal datore di lavoro o riguardano l’aspetto deontologico, come i comportamenti illeciti. Inoltre il datore di lavoro deve contestare per iscritto l’addebito al prestatore e deve rispettare l’immediatezza, rispettando i termini previsti dal contratto, la specificità, riportando i fatti in modo preciso, la immutabilità, non consentendo successiva- mente di cambiare versione dei fatti, e inoltre deve consentire il diritto di difesa da parte del prestatore. La sanzione può essere impugnata dal lavoratore:

  • davanti al giudice del lavoro;
  • davanti a collegi arbitrali;
  • davanti ai collegi di conciliazione e arbitrato costituiti in seno alle direzioni provinciali del lavoro.
    Del proporzionalismo fra infrazione e sanzione è pacifica la competenza del giudice; questi deve valutare affinché il licenziamento sia l’estrema ratio. Una giurisprudenza consolidata individua nella giusta causa di licenziamento quei comportamenti tali da compromettere l’elemento fiduciario alla base del contratto e del rapporto di lavoro e tali da non consentirne la prosecuzione nemmeno per un periodo limitato della prestazione lavorativa. Il ‘’Jobs act’’, ovvero d.lgs. n 23 del 7/3/2015, ha regolato le norme sui licenziamenti individuali definendo per le va- rie ipotesi di licenziamento illegittimo diverse forme di tutela per il lavoratore. In particolare tale normativa richiede il reintegro del lavoratore solo nei casi di licenziamento discriminatorio (intimato per motivi di credo politico, religioso, appartenenza sindacale, per questioni razziali o sessuali) o di licenziamento nullo (intimato in violazione dei divieti per causa di matrimonio, per fruizione dei congedi di maternità, paternità e parentali), lasciando all’indennizzo economico gli altri casi. Negli articoli 2104 e 2106 del codice civile sono insiti, già nella loro formulazione, i rischi del potere disciplinare allorché si parla di obbedienza e fedeltà dovuta al datore di lavoro e della facoltà, da parte di quest’ultimo, di adottare sanzioni nei confronti del dipendente. Gli abusi causati dalla cattiva applicazione del potere disciplinare sui lavoratori riguardano, in Italia, oltre un milione e mezzo di persone (fonte Istat). I casi più frequenti di abusi si sono verificati a carico delle donne lavoratrici (oltre il 50%), in particolare verso quelle che svolgono un’attività da impiegato. Le modalità di abuso sulle donne cambiano a seconda del contesto lavorativo. Nella piccola impresa esse spesso sono costrette a subire le attenzioni del proprio datore di la- voro a volte in silenzio, temendo di perdere il posto soprattutto se alle spalle esiste una famiglia monoreddito, per cui subirebbero comunque un grave contraccolpo economico (e i mariti non sempre comprenderebbero sospettando sempre un concorso di colpa del proprio coniuge). Nella grande industria o nel pubblico impiego è il dirigente ad esercitare pressioni psicologiche o delle vere e proprie avances verso le dipendenti. Nell’u- no e nell’altro caso trattasi di vero e proprio mobbing, che difficilmente viene fuori tranne in casi sporadici in cui il dipendente si ribella e denuncia ponendo a rischio la perdita del proprio posto di lavoro e producendo un giudizio che, con la magistratura attuale, dura anni e dove spesso le prove, che sono a carico del lavoratore, non sono sempre facili da produrre. La pubblica amministrazione presenta i più alti tassi di abusi, spesso fatti di sottili minacce larvate, di mancate gratifiche o di mancato avanzamento di carriera, che hanno un costo molto elevato non solo per il datore di lavoro ma per l’intero Sistema paese.

    * Odcec Napoli

 

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