Inps e la prova con “atti aventi data certa” della collaborazione coordinata e continuativa

di Stefano Ferri* 

La prova con atti aventi data certa nei confronti dell’Inps è tema che spesso ha affaticato gli interpreti: recentemente due sentenze sulla medesima fattispecie, la prima del Tribunale di Reggio Emilia in funzione di Giudice del Lavoro e la seconda della Corte d’Appello di Bologna, hanno affrontato e risolto con chiarissime motivazioni la tematica.

Riassumo la fattispecie: ad inizio 2016 un collaboratore ha presentato domanda di pensione anticipata e contestuale domanda di riscatto dei periodi di collaborazione coordinata e continuativa precedenti il 31/03/1996. L’Inps però, esaminate entrambe le istanze, ha comunicato il rigetto di quest’ultima domanda (e di conseguenza dell’altra) non ammettendo al riscatto dei periodi non coperti da gestione separata. Tale rigetto, sempre secondo l’Istituto è motivato ai sensi e per gli effetti dell’articolo 51 della legge 488 del 1999, che, al comma 2, testualmente prevede: “Per i lavoratori iscritti alla Gestione di cui all’articolo 2, comma 26, della legge 8 agosto 1995, n. 335, è prevista la facoltà di riscattare annualità di lavoro prestato attraverso rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, risultanti da atti aventi data certa, svolti in periodi precedenti alla data di entrata in vigore dell’assoggettamento all’obbligo contributivo di cui alla predetta legge. Tale facoltà di riscatto è posta a carico dell’interessato e può essere fatta valere fino ad un massimo di cinque annualità. Con successivo decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto con i Ministri del tesoro, del bilancio e della programmazione economica e delle finanze, è stabilita la disciplina della facoltà di riscatto, in coerenza con la disciplina di cui al decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 564, tenendo conto della parametrazione con le retribuzioni del periodo considerato e valutando quale aliquota di riferimento l’aliquota contributiva in vigore al momento della domanda.”

Ad avviso dell’Istituto l’attività  svolta dal ricorrente negli anni di cui chiede il riscatto non sarebbe da inquadrare come collaborazione coordinata e continuativa, ma come libero professionista; e anche il tentativo di questi di ricorrere all’autotutela per indurre l’Inps a rivedere la propria decisione non sortiva effetto, confermando l’Istituto il provvedimento, come si legge sullo stesso “in quanto per gli anni 1995 e 1996, dalla documentazione presentata a corredo dell’istanza di cui trattasi, non è data prova certa che le attività svolte fossero riconducibili a quelle di collaborazione coordinata e continuativa.”. 

In sostanza l’Inps basava il rigetto principalmente sulla mancanza, a suo dire, degli “atti aventi data certa” richiesti dal citato articolo 51.

È ovviamente seguito ricorso al Giudice del Lavoro del Tribunale di Reggio Emilia, che lo ha accolto in quanto, come chiaramente esposto nella Sentenza (n. 15/2019 del 23/01/2019), il ricorrente ha prodotto “una corposa documentazione risalente all’epoca che risulta convincente della bontà delle proprie tesi”.

Innanzitutto è univoco il contratto stipulato all’epoca, che all’oggetto espone “conferimento di incarico di collaborazione coordinata e continuativa”: e anche il contenuto dello stesso è coerente con l’oggetto e presenta un importo elevato, tanto da far ritenere che la collaborazione prevista fosse costante e richiedesse un impegno di tempo e di energie notevole e tale da mettere in secondo piano le eventuali ulteriori attività lavorative. A conferma della collaborazione vi è anche la nomina del ricorrente nel consiglio di amministrazione di una società a responsabilità limitata con unico socio che coincide con il committente del contratto. Inoltre la stessa contabilità prodotta ha comprovato la natura del contratto: l’attività era svolta per la quasi totalità per il committente, poche erano le fatture emesse in favore di soggetti privati, evidentemente per prestazioni residuali ed isolate.

Questa impostazione è stata confermata recentemente dalla Corte d’Appello di Bologna (Sentenza n. 2/2020 del 22/01/2020), che ha rigettato l’appello dell’Istituto, con motivazioni che raggiungono un equilibrio tra esigenze dell’Inps, che istituzionalmente rifugge la costituzione di posizioni previdenziali fittizie, e il concreto esercizio del diritto di azione dell’assicurato, che ovviamente risulterebbe insanabilmente pregiudicato qualora il relativo onere probatorio risultasse, in concreto, non assolvibile; il tutto anche tenuto conto della giurisprudenza in tal senso della Corte Costituzionale, in particolare la ben nota Sentenza n. 568/89 (“L’eccessiva difficoltà della prova e la conseguente impossibilità del riconoscimento del diritto importano violazione del precetto costituzionale dell’art. 24. Infatti, si è più volte affermato che esso risulta violato quando si sia imposto un onere tale o vengono prescelte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio, da parte di qualunque interessato, del diritto.”).

Inoltre il Giudice d’appello, come già sostanzialmente rimarcato da quello di primo grado, rileva che subspecie iuris le dichiarazioni IVA dell’epoca del richiesto riscatto (ed ora in atti), mai contestate, rappresentano, con riferimento alla fattispecie, “atti aventi data certa”, anche perché coerenti con il registro IVA e le fatture prodotte dal ricorrente.

La Corte ribadisce inoltre che dal contratto emerge “un facere riconducibile all’art. 409, n. 3 cpc e sprovvisto, prima dell’intervento del legislatore del 1995, (legge n. 335), di un proprio regime assicurativo obbligatorio.”.

E su questa linea non può che accogliere l’osservazione del ricorrente che rimarca e sottolinea che la contribuzione versata successivamente ai periodi in questione per circa vent’anni per la medesima attività non è mai stata né contestata né rigettata, anzi al contrario è stata accreditata nella relativa posizione assicurativa obbligatoria individuale in essere presso l’Inps stesso.

Ritengo che anche al di là della fattispecie in questione, che conosco avendo difeso il ricorrente in entrambi i gradi di giudizio e che presenta vari altri aspetti di interesse, le due  citate  sentenze  abbiano  correttamente interpretato e reso assolvibile in concreto l’onere della prova a carico del contribuente nei confronti dell’Istituto; questi infatti esigeva una “certezza” che di fatto rendeva impossibile l’accesso al riscatto dei periodi non coperti da contribuzione, visto che all’epoca non vi era alcun obbligo di attribuire data certa ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa.

* Odcec Reggio Emilia

 

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