La disciplina del lavoro della gente di mare: Marittimo spagnolo trasferisce la residenza fiscale in italia

di Paolo Soro* 

Dopo un nostro precedente contributo pubblicato lo scorso anno su questa stessa rivista (n. 4/2019), ritorniamo a parlare di marittimi, portando all’attenzione un nuovo caso pratico abbastanza anomalo, atteso che concerne un cittadino spagnolo che intende trasferire la sua residenza fiscale in Italia. Con l’occasione, inoltre, facciamo il punto su una normativa abbastanza complessa con cui abbiamo sempre più spesso a che fare nel nostro quotidiano.

Avuto riguardo alla normativa tributaria italiana, dobbiamo riconoscere che sono davvero rarissimi i casi in cui uno straniero possa riscontrare una qualche convenienza nello spostare la propria residenza fiscale in Italia (a parte, ovvio, interessi personali, affetti familiari e simili). Ci sovviene giusto la flat-tax da 100.000 euro per i “paperoni”, o l’imposta sulle successioni e donazioni, o alcune specifiche tipologie di redditi, come appunto quelle dei marittimi imbarcati su navi battenti bandiera di un Paese estero.

Nella fattispecie qui oggetto di analisi, abbiamo a che fare con un soggetto fiscalmente residente in Spagna nel 2019, il quale, a partire dal 2020, si trasferirà in Italia, continuando peraltro nel suo impiego di marittimo alle dipendenze di una società con sede nelle BVI, in regime di imbarco su nave battente bandiera USA, di proprietà di una seconda società avente sempre sede legale negli Stati Uniti.

Ebbene, incominciamo subito col semplificare il complesso inquadramento in parola. Invero, come avremo meglio modo di precisare in seguito, tutte queste informazioni sulle differenti nazioni interessate dallo schema de quo, non rilevano affatto al fine di individuare l’applicazione di una corretta tassazione domestica per il caso di specie. Una volta analizzato il contratto di lavoro, infatti, laddove il nostro scopo sia quello di verificare quanto disposto dall’anzidetta previsione nazionale, occorrerà limitarci a conoscere:

  • la nazionalità del marittimo;
  • il Paese di bandiera della

Ma partiamo subito col contratto di lavoro, elemento, questo, senza dubbio di fondamentale importanza. Detto contratto stabilisce che il marittimo resterà imbarcato per oltre la metà dell’anno.

Sul punto, è opportuno chiarire subito cosa s’intenda in concreto per “restare imbarcato”. Vuol forse significare che il marittimo rimane fisicamente presente a bordo della nave per tutto l’indicato periodo? Ovviamente no!

Giova al riguardo ricordare che l’Agenzia delle entrate (Circolare n. 207/2000) ha fatto due importanti precisazioni:

  • innanzitutto, per quanto concerne il computo dei giornidieffettiva permanenza del lavoratore all’estero, il periodo da considerare non necessariamente deve risultare continuativo: è sufficiente che il lavoratore presti la propria opera all’estero per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi. Appare opportuno chiarire che il Legislatore, con l’espressione “nell’arco di dodici mesi”, non ha inteso fare riferimento al periodo d’imposta, ma alla permanenza del lavoratore all’estero stabilita nello specifico contratto di lavoro, che può anche prevedere un periodo a cavallo di due anni solari;
  • in secondo luogo, per l’effettivo conteggio dei giorni di permanenza del lavoratore all’estero, rilevano, in ogni caso, nel computo del limite dei 183 giorni, il periodo di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi, indipendentemente dal luogo in cui sono trascorsi (quindi, anche a terra, presso la propria dimora).

Orbene, nella concreta fattispecie, il contratto prevede lo svolgimento dell’attività di lavoro dipendente, come marittimo a bordo della citata nave, per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di 12 mesi, in relazione al quale sono riconosciuti periodi di ferie, riposo e festività, distribuiti durante tutta la durata contrattuale per un totale di due mesi, ogni due mesi di lavoro ininterrotti a bordo della nave.

Delineato in maniera più snella il quadro sostanziale della vicenda, resta la necessità per il marittimo spagnolo di conoscere a quale “sorte tributaria” andrà incontro, una volta trasferita la propria residenza fiscale in Italia. Dunque, prima ancora di affrontare il discorso impositivo, occorre accertarsi che sia soddisfatta la premessa: verificare, cioè, la corretta acquisizione della residenza fiscale italiana.

La nozione che ci interessa è contenuta nell’articolo 2, comma 2, del d.p.r. 917/1986 (TUIR), in base al quale si considerano residenti:

“Le persone che per la maggior parte del periodo d’imposta

  • sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente o
  • hanno nel territorio dello Stato il domicilio o
  • la residenza

ai sensi del Codice civile”.

 

Quella “o” – lo ricordiamo – sta a significare che le citate tre condizioni sono fra di loro alternative, essendo sufficiente che si sia verificato uno solo dei predetti requisiti affinché una persona fisica venga considerata fiscalmente residente in Italia. Viceversa, soltanto quando i tre presupposti della residenza risultino contestualmente tutti assenti nel periodo d’imposta di riferimento, una persona fisica può essere ritenuta “non- residente” nel nostro Paese.

In sostanza, la circostanza che una persona non sia iscritta nelle anagrafi della popolazione residente, non esclude, di per sé, il fatto, da verificare, che la medesima persona sia residente nel nostro Paese in virtù del domicilio (il luogo in cui ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi), o della residenza (il luogo in cui ha la dimora abituale), entrambi come definiti dall’articolo 43 del Codice civile.

Dando per assodato che il marittimo spagnolo abbia regolarmente acquisito la residenza fiscale in Italia a decorrere dall’anno fiscale 2020, il nostro compito, come suoi professionisti locali, sarà quello di accertare il corretto trattamento tributario dei redditi da lui prodotti: in quale Paese dichiarare tali introiti e a quale tipo di imposizione assoggettarli. Per una volta, il nostro compito non sarà quindi quello di guidare il datore di lavoro nelle sue scelte contrattuali, contributive, previdenziali e assicurative, ma quello di assistere il lavoratore in materia fiscale.

 

Trattandosi di un marittimo imbarcato su una nave battente bandiera straniera (nonché alle dipendenze di un datore di lavoro straniero), come noto, il Paese nel quale egli risulta fiscalmente residente potrebbe risultare ininfluente agli effetti dei suoi obblighi tributari con espresso riguardo agli introiti esteri percepiti, fatta salva la potenziale applicazione del World Wide Principle Taxation.

Un primo approfondimento riguarderà – com’è d’uopo – il trattato contro le doppie imposizioni che si applica ai residenti italiani che lavorano negli Stati Uniti. La nazionalità del datore di lavoro è ininfluente ai fini del luogo dove si svolge la prestazione. Parimenti ininfluente in proposito è pure la nazionalità dell’armatore. Rileva, invece, lo Stato della bandiera della nave, la quale identifica il territorio della stessa, ossia il Paese in cui viene per l’appunto svolto il rapporto di lavoro.

Purtroppo, però, nella particolare situazione, le previsioni convenzionali in questione non garantiscono un adeguato margine di sicurezza. Il trattato in parola, infatti, per quanto qui di nostro interesse, prevede che: “Nonostante le precedenti disposizioni del presente articolo, le remunerazioni percepite in corrispettivo di un lavoro subordinato regolarmente svolto a bordo di navi o aeromobili utilizzati da un’impresa di uno Stato contraente in traffico internazionale, sono imponibili in detto Stato.”

Dato il tenore letterale della disposizione, la stessa non impedisce che il soggetto possa venire tassato sia in Italia che negli USA, poiché, a parere dell’Agenzia delle entrate, nei casi in cui la norma non esprima un carattere di esclusività (esempio: “…sono imponibili soltanto in detto Stato”), entrambi gli Stati hanno il potere di tassarne i redditi.

Ora, indipendentemente da come deciderà di agire l’IRS (Internal Revenue Service) a “stelle e strisce”, a noi preme viceversa controllare a quali conseguenze andrà incontro il nostro cliente spagnolo in ossequio alla legge “tricolore”.

Ebbene, con riferimento all’ordinamento nazionale, di regola, coloro che sono fiscalmente residenti in Italia vengono tassati secondo il principio della tassazione mondiale su tutti i redditi ovunque prodotti, fatto salvo il credito per le imposte eventualmente già versate a titolo definitivo all’estero. Dopo di che, con specifico riguardo al reddito di lavoro dipendente svolto all’estero, interviene l’art. 51, comma 8-bis, del TUIR, precisando che:

“In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale.”

 

Le retribuzioni convenzionali, peraltro, si possono applicare solo al verificarsi delle seguenti condizioni:

  • il lavoratore dipendente è fiscalmente residente in Italia;
  • il lavoro dipendente svolto all’estero in via continuativa è equiparabile a uno dei profili individuati nel citato decreto ministeriale sulle retribuzioni convenzionali;
  • il lavoro è l’oggetto esclusivo del rapporto;
  • il lavoro è stato svolto all’estero per un periodo superiore a 183 giorni anche non consecutivi, nell’arco di dodici mesi.

 

A fronte di tale normativa di carattere generale, l’art. 5 del decreto legge 317/1987 stabilisce una specifica eccezione relativamente ai lavoratori marittimi italiani imbarcati su navi battenti bandiera estera. In base a detta ultima norma, le disposizioni concernenti i lavoratori italiani all’estero (inclusa l’adozione delle retribuzioni convenzionali) non si applicano alla categoria dei “marittimi”. A evitare, poi, qualsiasi differente applicazione di detta previsione, è intervenuta pure la legge 16 marzo 2001, n. 88 (Nuove disposizioni in materia di investimenti nelle imprese marittime), la quale ha fornito la seguente interpretazione autentica:

“Il comma 8-bis dell’articolo 48 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, introdotto dall’articolo 36, comma 1, della legge 21 novembre 2000, n. 342, deve interpretarsi nel senso che per i lavoratori marittimi italiani imbarcati su navi battenti bandiera estera, per i quali, ai sensi dell’articolo 4, comma 1, e dell’articolo 5, comma 3, del decreto legge 31 luglio 1987, n. 317, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 1987,n. 398, non è applicabile il calcolo sulla base della retribuzione convenzionale, continua a essere escluso dalla base imponibile fiscale il reddito derivante dall’attività prestata su tali navi per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi.”

 

In ossequio a tale previsione, quindi, i redditi corrisposti a marittimi di nazionalità italiana, che lavorano su navi battenti bandiera estera per più di 183 giorni in un arco temporale di dodici mesi (anche a cavallo di due periodi d’imposta), non dovranno essere assoggettati a imposizione nel nostro Paese, a prescindere dalla residenza dei medesimi marittimi e dal luogo di prestazione dell’attività lavorativa, con il conseguente venir meno dell’obbligo di dichiarazione di tali redditi da parte del contribuente (Agenzia delle entrate – Circolare 55/E del 2002).

Riepilogando, possiamo allora individuare i seguenti tre punti fermi:

  • Ai marittimi italiani che svolgono lavoro dipendente all’estero non sono in alcun caso applicabili le retribuzioni
  • Il Legislatore nazionale pone l’accento esclusivamente sulla circostanza che l’attività sia prestata a bordo di navi battenti bandiera straniera per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco dei 12 mesi.
  • Non viene data alcuna rilevanza a elementi quali: la residenza del datore di lavoro; quella del dipendente; il luogo geografico di svolgimento effettivo della prestazione lavorativa (e, dunque: la posizione della nave, la sua navigazione nelle tratte interne o internazionali – la norma omette anche la precisazione “traffico internazionale”, viceversa prevista nel Modello Convenzionale OCSE).

Infine, occorre tenere presente che esiste anche una sorta di clausola di salvaguardia all’interno del nostro ordinamento tributario (art. 169, TUIR):

“Le disposizioni del presente testo unico si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione.” 

Senonché, nella fattispecie qui oggetto di esame, non abbiamo a che fare con un cittadino italiano, ma con un cittadino spagnolo che ha “solo” la residenza fiscale in Italia. Il tenore letterale della sopra richiamata normativa domestica appare invero abbastanza chiaro (e non suscettibile di differente interpretazione), nell’individuare tra i destinatari, esclusivamente i marittimi di nazionalità italiana, e non tutti coloro che hanno la residenza fiscale in Italia.

Di primo acchito, dunque, la disposizione in parola non sembrerebbe applicabile tout court al nostro cliente spagnolo. Se, però, venisse data alla norma tale interpretazione letterale, la stessa violerebbe innegabilmente il principio di non discriminazione, il quale costituisce uno dei principi immanenti della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.

Art. 14 – CEDU:

“Il godimento dei diritti e delle libertà riconosciuti nella presente Convenzione deve essere assicurato senza nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”.

Non basta. L’art. 23, paragrafo 1, della Convenzione tra l’Italia e la Spagna per evitare le doppie imposizioni (ratificata con legge 29 settembre 1980, n. 663), prevede che:

“I nazionali di uno Stato contraente, siano essi residenti o non di uno degli Stati contraenti, non sono assoggettati nell’altro Stato contraente ad alcuna imposizione od obbligo a essa relativo, diversi o più onerosi di quelli cui sono o potranno essere assoggettati i nazionali di detto altro Stato che si trovino nella stessa situazione”.

Appare, quindi, evidente che il nostro cliente spagnolo, nel momento in cui divenisse fiscalmente residente in Italia, non potrebbe essere discriminato rispetto agli italiani che si trovano nelle medesime condizioni giuridiche stabilite dalla legge.

Infine, su tutto prevale l’art. 45 del TFUE: “La libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione è assicurata. Essa implica l’abolizione di qualsiasi discriminazione, fondata sulla nazionalità, tra i lavoratori degli Stati membri, per quanto riguarda l’impiego, la retribuzione e le altre condizioni di lavoro”.

Giova ricordare che l’art. 117 della nostra Costituzione prescrive che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto (primo) della Costituzione, nonché (secondo) dei vincoli derivanti dall’Ordinamento Comunitario e (terzo) dagli obblighi internazionali.

Nella specifica materia impositiva, poi, l’art. 75 del d.p.r. 600/1973 stabilisce che: “Nell’applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi, sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia.”

Ne consegue che la disposizione contenuta nella legge 88/2001 non può che essere interpretata alla luce del principio di non discriminazione e, pertanto, la locuzione “lavoratori marittimi italiani” va necessariamente riferita, non soltanto ai marittimi con nazionalità italiana, ma bensì anche a tutti i soggetti fiscalmente residenti nel territorio dello Stato italiano (quanto meno, laddove trattasi di cittadini comunitari o di cittadini tutelati da specifici trattati internazionali ratificati in Italia).

In conclusione, nei confronti dell’Erario italiano, il nostro cliente spagnolo che trasferisce la sua residenza fiscale in Italia, a fronte dei suoi redditi di marittimo imbarcato per più di 183 giorni nell’arco di 12 mesi su nave battente bandiera estera, non avrà alcun obbligo dichiarativo, né un eventuale correlato obbligo di pagamento delle imposte, trattandosi di una particolare fattispecie alla quale non risulta essere applicabile il calcolo sulla base delle c. d. “retribuzioni convenzionali”, e né, più in generale, il principio della tassazione su base mondiale.

* Odcec Roma

 

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