La durata del patto di prova e l’inderogabilità della norma imperativa da parte della contrattazione collettiva

di Giada Rossi* 

Il riferimento principe per la determinazione della durata del patto di prova in occasione dell’assunzione di un lavoratore è solitamente rappresentato dal contratto collettivo applicato dalla datrice di lavoro, che di norma ne precisa i limiti temporali, prevedendo distinzioni a seconda della categoria legale e del livello di inquadramento.

L’art. 2096 c.c., disposizione codicistica regolatrice del patto di prova, ne delimita invero i caratteri generali, anche frutto delle elaborazioni giurisprudenziali, ma nulla prevede in relazione alla durata dello stesso. Le suddette previsioni, unitamente agli insegnamenti della Suprema Corte, si rilevano nella prassi per lo più sufficienti onde correttamente formulare una clausola contrattuale in tema di prova, tanto dal punto di vista sostanziale che nei tratti formali.

Nel lavoro impiegatizio, tuttavia, non può trascurarsi la portata del Regio Decreto Legge del 13 novembre 1924 n. 1825, convertito in Legge 18 marzo 1926 n. 562, il cui art. 4 prevede una durata massima del periodo di prova pari a mesi sei per institori, procuratori, rappresentanti a stipendio fisso, direttori tecnici o amministrativi ed impiegati di grado e funzioni equivalenti; a mesi tre per tutte le altre categorie di impiegati.

L’attualità della norma citata è confermata anche da recenti pronunce di merito e legittimità, in ultimo dalla sentenza n. 222/2018 del 28 novembre 2018 del Tribunale di Trento, che nel solco dei precedenti giurisprudenziali della Suprema Corte, offre un’analisi puntuale della disposizione in commento e della cornice normativa in cui è inserita.

In accordo con la Giurisprudenza consolidata, e a dispetto di orientamenti minoritari, per lo più dottrinali, il r.d.l. 1825 dell’anno 1924 è da ritenersi tuttora in vigore, non essendo stato abrogato o comunque superato dai successivi interventi legislativi.

E’ infatti esclusa la portata abrogativa dell’art. 2096 c.c., trattandosi di norma di carattere generale, che non esaurisce l’intera regolamentazione del patto di prova, e che pertanto deve ritenersi integrativa della normativa già in vigore.

Parimenti è da respingere l’interpretazione che sostiene una revisione alla disciplina della durata del contratto in prova ad opera della più recente l. 604/1966, il cui art. 10 prevede l’applicazione della normativa sui licenziamenti individuali a tutti i lavoratori dipendenti e, per coloro assunti in prova, dal momento in cui l’assunzione diviene definitiva e, in ogni caso, decorsi sei mesi dall’instaurazione del rapporto di lavoro.

Ne discende invero un’integrazione alla disciplina del termine massimo del periodo di prova, a prescindere dalla categoria, pari a mesi 6, ma certamente è da escludersi che essa renda inoperante la previgente disciplina di cui al r.d.l. 1825/1924.

Nella perdurante vigenza del citato regio decreto-legge, si deve dunque convenire che il limite pari a mesi sei, così come richiamato da quest’ultimo, sia applicabile ai soli impiegati con funzioni direttive, intendendosi per tali anche coloro che, pur sprovvisti del potere di rappresentanza in senso tecnico del datore di lavoro, siano preposti a un singolo ramo o servizio dell’organizzazione aziendale, con relativa supremazia gerarchica, ancorché circoscritta a quel ramo o servizio, e con una certa libertà di apprezzamento e latitudine di iniziativa, nell’esplicazione di un’attività di immediata collaborazione col titolare dell’impresa o con i dirigenti di essa, sia pure nell’attuazione delle direttive generali da questo impartite e senza i poteri discrezionali propri dei dirigenti (Trib. Trento n. 222/2018); agli impiegati di concetto ordinari nonché agli impiegati d’ordine continuerà ad applicarsi il limite della durata del periodo di prova pari a mesi tre, con conseguente nullità della pattuizione di una maggior durata.

E qualora fosse la contrattazione collettiva ad estendere la durata del patto di prova oltre i tre mesi per gli impiegati non direttivi?

Nell’ambito giuslavoristico vige il principio del favor lavoratoris, ovverosia della derogabilità delle previsioni di legge o di contratto solo in caso di previsioni più favorevoli al lavoratore.

E’ stato affermato che in tema di patto di provadifficilmentesipossaaprioristicamente individuare la previsione “più favorevole”. Va infatti sottolineato come la libera recedibilità, entro i confini temporali della prova, sia diritto di ambedue le parti, quindi tuteli gli interessi non solo datoriali, ma anche del lavoratore; del pari, non può trascurarsi l’evoluzione del sistema legislativo rispetto agli anni del dopoguerra, caratterizzati dalla libera licenziabilità, che si è via via orientato, in un’ottica protezionistica della parte debole (il lavoratore), verso la stabilità del rapporto di impiego; ed ancora si può menzionare, per attività di particolare complessità, l’opportunità di estensione del patto di prova al fine di consentire la completa valutazione delle attitudini e competenze del lavoratore, sì da favorirne l’assunzione in capo all’impresa.

Le valutazioni sopra riferite non possono comunque ritenersi convincenti e, in applicazione del generale principio della gerarchia delle fonti, la Suprema Corte, ex multis nell’articolata motivazione della pronuncia n. 21874/2015, ancora richiamata dalla recente sentenza del Tribunale di Trento, ribadisce come il r.d.l. 1825/1924, avente natura di norma imperativa, non possa essere derogato ad opera della contrattazione collettiva.

Basti in tema richiamare la pronuncia degli Ermellini n. 3625 risalente all’anno 1975, ove era stato precisato che, in caso di contrasto tra clausole contrattuali recepite nel decreto delegato, che rende efficace erga omnes un contratto collettivo di lavoro, e norme imperative di legge, spetta al Giudice ordinario la disapplicazione delle clausole del primo; a fortiori deve giungersi ad una declaratoria di nullità in caso di incompatibilità di una previsione di un contratto collettivo di diritto comune con una norma imperativa.

Va comunque segnalata, seppur isolata, la pronuncia della stessa Corte n. 22758/2014 che, in obiter dictum, afferma la derogabilità dell’art. 4 r.d.l. 1825/1924 ad opera della contrattazione collettiva, non fornendo tuttavia motivazioni sul punto.

Giova piuttosto rammentare come le norme giuslavoristiche a tutela del lavoratore, in quanto parte debole, abbiano per consolidata Giurisprudenza natura imperativa, salvo che vi sia espressa previsione della loro natura dispositiva.

In sintesi, pur riconoscendo in capo alla contrattazione collettiva una funzione integratrice in tema di inquadramento, deve abbracciarsi l’orientamento consolidato, di merito e di legittimità, secondo il quale la previsione di un contratto collettivo in contrasto con l’art. 4 del r.d.l. 1825/1924 per l’estensione della durata del patto di prova, dovrà essere dichiarata nulla ex art. 1418 c.c. Ne deriva che il patto di prova non potrà produrre effetti posteriormente alla scadenza del termine previsto dal r.d.l.

1825/1924 sicché, in caso di intervenuto recesso da parte del datore di lavoro per “mancato superamento del periodo di prova”, si configurerà un recesso privo di idonea ragione giustificatrice, con piena applicazione delle tutele di legge previste per i licenziamenti illegittimi.

I contratti collettivi di diritto comune maggiormente diffusi possono oggi dirsi rispettosi delle previsioni di legge, seppur non manchino, anche nei recenti rinnovi, contratti potenzialmente esposti a censure. Può menzionarsi a titolo esemplificativo il CCNL Agricoltura – Impiegati del 3.8.2016, che prevede un periodo di prova pari a mesi quattro per gli impiegati inquadrati nella categoria 3, i quali non solo sono sprovvisti di qualsivoglia potere direttivo, ma addirittura svolgono, in esecuzione delle disposizioni loro impartite e quindi senza autonomia di concezione e potere di iniziativa, mansioni nel ramo tecnico, amministrativo, commerciale, logistico in relazione alla loro specifica competenza professionale e che rispondono ai superiori, da cui dipendono, della esatta esecuzione dei compiti loro affidati.

Bibliografia

Amoroso – V. Di Cerbo – A. Maresca – Diritto del Lavoro Vol. I (Le fonti del Diritto Italiano) – Giuffrè Editore, Milano, 2017; Carinci – De Luca Tamajo – Tosi – Treu, Diritto del lavoro, il rapporto di lavoro subordinato, Torino, 1998; L. Bonaretti, Il patto di prova nel rapporto di lavoro privato, Milano, 1987; Oronzo Mazzotta, Diritto del Lavoro – il rapporto di lavoro – Trattato di diritto privato a cura di Giovanni Iudica e Paolo Zatti, Giuffrè Editore, 2016; Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, anno 1985, fascicolo 4, pag.699 ss.

*Avvocato in Milano

 

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