La prova del fatto al fine del licenziamento per giustificato motivo oggettivo

di Alfonso Corvino*

L’analisi della fattispecie del licenziamento per giustificato motivo soggettivo, ed in particolare della formalità legate alla prova del fatto, non possono prescindere da un breve disamina sulla natura del licenziamento in questione e sulle caratteristiche che lo differenziano dal licenziamento per giusta causa e da quello per giustificato motivo oggettivo.
Le radici storico-giuridiche del licenziamento individuale risalgono alla Legge 604/1966, poi seguita dallo Statuto dei lavoratori e dalla Legge 108/1990, mentre le modifiche più recenti sono intervenute con la c.d. Riforma Fornero (Legge 92/2012) ed il Jobs Act (D.Lgs 23/2015) che, come si vedrà oltre, hanno parzialmente modificato e riformato la disciplina dei licenziamenti ed il regime sanzionatorio ad essa applicabile.
Negli anni è rimasto, però, immutabile l’obbligo in capo al datore di lavoro di dover fondare il licenziamento di un proprio dipendente su di una giusta causa o un giustificato motivo; obbligo che non ricade sul lavoratore che, invece, rimane libero di recedere dal rapporto di lavoro in qualunque momento e senza dover addurre alcuna giustificazione a tal fine.
Da un punto di vista squisitamente formale il licenziamento per giusta causa si differenzia da quelli per giustificato motivo oggettivo e soggettivo per le modalità di recesso da parte del datore di lavoro, infatti, in questi ultimi vige l’obbligatorietà del preavviso, non necessario in caso di allontanamento per giusta causa del dipendente.
Da un punto di vista sostanziale, invece, il licenziamento per giustificato motivo soggettivo e quello per giusta causa sono accomunati dalla motivazione disciplinare della loro irrogazione, mentre il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è determinato da ragioni economiche riguardanti l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro ed il regolare funzionamento dell’attività stessa.
Il licenziamento per giustificato motivo soggettivo è dunque un licenziamento disciplinare che si differenzia dal licenziamento per giusta causa anzitutto per la modalità di irrogazione dello stesso. Infatti, la giusta causa comporta che il datore di lavoro possa licenziare il proprio dipendente senza preavviso alcuno, mentre per poter correttamente procedere con il licenziamento per giustificato motivo soggettivo è necessario che questi sia raggiunto da formale avvertimento.
L’art. 3 della L. 604/1966 individua la definizione del giustificato motivo soggettivo in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore. Deve, pertanto, trattarsi di un comportamento non talmente grave da giustificare il recesso ad nutum da parte del datore di lavoro ma, comunque, sufficientemente grave da aver minato la fiducia che questi aveva riposto nella persona del lavoratore.
Tra i motivi che più spesso, nella prassi, portano a licenziamenti per giustificato motivo soggettivo possiamo sicuramente menzionare, a titolo esemplificativo, l’insubordinazione del dipendente verso i propri superiori, l’assenza ingiustificata del dipendente dal luogo di lavoro ed, in alcuni casi, anche lo scarso rendimento o il comportamento negligente del lavoratore.
La procedura da seguire per evitare il rischio dell’impugnazione del licenziamento da parte del lavoratore è disciplinata dall’art. 7 della L. 300/1970. Il primo requisito è costituito dall’obbligo dal datore di lavoro di rispettare il termine di preavviso indicato nei contratti collettivi applicabili a ciascuna categoria.
Il secondo requisito è rappresentato dalla forma scritta del licenziamento. Il datore di lavoro è tenuto, infatti, a consegnare al lavoratore un documento con il quale gli intima il licenziamento e, contemporaneamente, gli faccia comprendere le ragioni della decisione presa, di modo che il lavoratore possa, se del caso, addurre delle giustificazioni a suo favore o negare gli addebiti ad esso rivolti. Qualora il lavoratore dovesse contestare i motivi del licenziamento, il datore di lavoro dovrà, ovviamente, prendere in considerazione le ragioni del proprio dipendente e decidere se confermare o revocare il provvedimento assunto.
In caso di conferma del licenziamento, il lavoratore, se dovesse ritenere ingiustificate le motivazioni addotte, deve impugnare entro 60 giorni dalla sua trasmissione il licenziamento, inviando al proprio datore di lavoro una comunicazione con la quale rende nota la sua intenzione di contestare quanto intimatogli. Nei successivi 180 giorni, poi, dovrà seguire ricorso di impugnativa da depositare presso la cancelleria del Tribunale del Lavoro, con possibile invito a comporre la lite dinanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro o dinanzi ad un arbitro terzo ed imparziale.
Pare ovvio che i motivi che portano al licenziamento in questione possano essere molto variegati e, quasi sempre, costituiti da valutazioni sulla condotta del lavoratore. Per questo motivo diventa indispensabile per il datore di lavoro individuare correttamente i limiti entro i quali possa dirsi integrato il giustificato motivo soggettivo, ciò in quanto, qualora venisse accertata l’insussistenza delle ragioni della decisione assunta, il licenziamento sarebbe dichiarato illegittimo dal Giudice adito, con tutte le conseguenze del caso a carico del datore di lavoro.
A tal proposito è anche il caso di segnalare che il datore di lavoro (anche se sarebbe forse meglio rivolgere l’invito ai colleghi commercialisti) deve avere particolare riguardo alla formulazione dei motivi che hanno condotto al licenziamento, in quanto gli addebiti contestati al lavoratore rimangano “cristallizzati” alla lettera di licenziamento. Ciò significa che, in caso di impugnazione giudiziale del licenziamento, il datore di lavoro non sarà più ammesso ad allegare fatti o condotte che non aveva provveduto ad indicare in quella lettera, con l’evidente rischio di non essere in grado di provare la sussistenza del motivo del provvedimento preso.
Per quel che riguarda la spartizione dell’onere della prova, l’art. 5 della L. 604/1966 pone a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo del licenziamento, non discostandosi dalla regola generale dell’art. 2697 c.c. Sul lavoratore, invece, incombe solo l’onere di provare il rapporto di lavoro ed il licenziamento. Neanche la giurisprudenza di legittimità ha dubbi sul fatto che l’onere di provare il fatto che ha condotto al licenziamento spetti al datore di lavoro. Significativa sul punto è una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione Lavoro Civile, sentenza del 14 luglio 2016, n.14375, che altro non fa che confermare un indirizzo ormai da tempo consolidato.
In realtà qualcuno si è, negli anni, domandato se tale obbligo in capo al datore di lavoro non avesse, di fatto, istituito una vera e propria inversione dell’onere della prova tipica del processo civile.
La dottrina giuslavoristica è stata, ancora una volta, costante nel sostenere che onerare il datore di lavoro della prova della sussistenza dei requisiti del licenziamento (ex art. 5, L. 604/1966), non comporta alcuna inversione dell’onus probandi. Si tratterebbe, invece, di chiedergli semplicemente l’allegazione, tra l’altro in piena coerenza con l’art. 2697 c.c., del fatto costitutivo della fattispecie genetica della facoltà di licenziare, ovvero, del fatto impeditivo dell’azione di annullamento del recesso intrapresa dal lavoratore (Tribunale di Padova, Sentenza n. 965/2001).
Pare, quindi, acclarato che, per non incorrere in una declaratoria di illegittimità del licenziamento, diventa importante, se non imprescindibile, provare puntualmente il fatto materiale (condotta del lavoratore) che ha portato all’intimazione del licenziamento.
Vediamo allora con quali mezzi il datore di lavoro potrà provare in giudizio l’inadempimento del proprio dipendente.
Circa l’aspetto squisitamente processuale, si può affermare con tranquillità che dinanzi al Giudice del lavoro, con riguardo ai mezzi di prova ammissibili, vigono gli stessi diritti e le stesse limitazioni vigenti nel procedimento civile ordinario.
Sarà, dunque, ammissibile sia la prova documentale che quella orale per interpello o per testi. Sarà altresì ammissibile, seppure con limitazioni (autorizzazione, preventiva informazione, formazione, ecc.) di non poco conto ed alle quali occorre fare particolare attenzione, la prova attraverso i sistemi di video-sorveglianza presenti sul luogo di lavoro.
Così, un datore di lavoro che intenda, ad esempio, provare l’insubordinazione del proprio dipendente ben potrà chiedere che il giudice ammetta la testimonianza dei capi reparto, dei responsabili ed anche degli altri dipendenti che abbiano assistito agli episodi contestati.
Ai fini della prova dello scarso rendimento del lavoratore, invece, il datore di lavoro, dovrà provare non solo il mancato raggiungimento del risultato atteso, ma anche che esso sia derivato dal negligente inadempimento del lavoratore nella sua normale prestazione, oltre alla prova testimoniale, potrà fare ricorso, ad esempio, anche alla prova che derivi da “programmi di produzione” che dimostrino, attraverso metodi oggettivi, che tra i risultati di quel lavoratore e quelli raggiunti dagli altri, vi sia una “enorme sproporzione”, cioè uno scarto molto significativo, che dimostri in modo obiettivo ed inequivocabile la mancanza di diligenza (Cass., 1° dicembre 2010, sent. n. 24361).
Ancora, qualora il giustificato motivo soggettivo fosse costituito dal comportamento del lavoratore che, pur essendo giustificatamente assente a causa di malattia, sia risultato assente dal proprio domicilio durante le fasce orarie di controllo, il datore di lavoro potrà dare prova dell’inadempimento del dipendente per mezzo della comunicazione ricevuta dall’INPS, corroborata da ulteriori indizi di falsità dell’evento morboso.
Questi sono solo alcuni dei possibili casi che si possono presentare al datore di lavoro nella gestione della propria attività, ma che valgono a dimostrare che provare il giustificato motivo soggettivo nel licenziamento è onere gravoso, facilitato, tuttavia, dalla ampiezza dei mezzi istruttori che il datore di lavoro potrà utilizzare in sede di giudizio.
Qualora, all’esito del giudizio, risultasse che il fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo soggettivo è materialmente insussistente o giuridicamente irrilevante (si pensi al caso in cui il fatto sia fondato, ma privo del carattere della illiceità), il lavoratore potrà, a seconda delle dimensioni aziendali, godere delle tutele previste in suo favore dallo Statuto dei lavoratori e dall’art. 8 della L. 604/1966, così come innovate ed in parte riformate dalla Riforma Fornero e dal contratto a tutele crescenti normato dall’art. 3 e ss del D.Lgs 23/2015, che si sostanziano in un aumento progressivo dell’indennità risarcitoria in capo al datore di lavoro man mano che cresce l’anzianità di servizio del lavoratore dipendente.
In regime di Jobs Act, la tutela reale, ovverosia l’annullamento del licenziamento con condanna all’immediata reintegra del lavoratore e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, viene applicata esclusivamente alle fattispecie di licenziamento disciplinare nelle quali sia direttamente dimostrata in giudizio la non sussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore.
Ne deriva che tale tipo di tutela potrà essere applicata dall’organo giudicante solo nel caso in cui sia il lavoratore licenziato a dimostrare l’insussistenza del fatto materiale contestato, con una concreta inversione dell’onere probatorio rispetto alla giustificatezza del licenziamento intimato.
In conclusione, dalle brevi considerazioni sin qui condotte, possiamo evidenziare le criticità insite nell’intimazione di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo: il rispetto delle formalità previste per il caso di specie ed il necessario onere probatorio posto a carico del datore di lavoro sulla sussistenza ed illiceità del fatto commesso dal lavoratore dipendente assumono rilevanza sostanziale ed imprescindibile per evitare possibili declaratorie di illegittimità con condanna al risarcimento e/o alla reintegra del lavoratore licenziato.

*ODCEC Milano

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