Evoluzione della normativa sulla responsabilità solidale negli appalti

di Marco D’Orsogna Bucci* 

Il decreto legge 17 marzo 2017, n. 25 “Disposizioni urgenti per l’abrogazione delle disposizioni in materia di lavoro accessorio nonchè per la modifica delle disposizioni sulla responsabilità’ solidale in materia di appalti”, convertito dalla legge 20 aprile 2017, n. 49, è noto a tutti per aver soppresso la disciplina sul lavoro accessorio e sarà ricordato anche per essere stato approvato dal Consiglio dei Ministri e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il medesimo giorno, forse per evitare scene inconsuete di datori di lavoro in fila presso i tabaccai per acquistare gli ultimi buoni lavoro o voucher della storia della Repubblica Italiana. Ironia a parte, non può sfuggire inoltre che il medesimo decreto legge abbia abrogato specifiche previsioni dell’art. 29 del decreto legislativo 276/2003 riguardanti la responsabilità solidale negli appalti.

Facciamo alcuni passi indietro nel tempo per ripercorrere le modifiche che si sono avvicendate negli anni in materia di responsabilità solidale negli appalti, modifiche che rappresentano l’evoluzione del mercato del lavoro e della sua regolamentazione ma anche la schizofrenia normativa in materia.

Il contratto di appalto ha rappresentato fin dagli anni ‘60 del secolo scorso lo strumento per regolamentare i fenomeni di decentramento produttivo e/o esternalizzazione. Spesso le motivazioni alla base del decentramento non erano di natura organizzativa o produttiva, ma in molti casi si intendeva eludere norme inderogabili in materia di lavoro subordinato, anche e soprattutto al fine di ottenere considerevoli risparmi sul costo del lavoro. È in questo ambito che proprio in quegli anni trova collocazione una delle norme più rigide volte ad evitare fenomeni elusivi in materia di lavoro, il divieto di interposizione fittizia della manodopera, disciplinato dalla legge 1369/1960, norma che resta efficace sino all’entrata in vigore del più recente decreto legislativo 276/2003, noto come Legge Biagi. I successivi anni ’80 sono stati contraddistinti da una incisiva innovazione tecnologica dei processi produttivi oltre che da una fase di decentramento produttivo e di esternalizzazione molto più genuina della precedente. Con riferimento ai processi di decentramento produttivo, il legislatore italiano è sempre stato molto sensibile alle conseguenze in capo ai diritti dei prestatori di lavoro subordinato, tra l’altro in anni in cui nella nostra normativa non faceva ancora ingresso la disciplina del lavoro somministrato e il mercato del lavoro non si contraddistingueva certo per flessibilità.

La nozione di contratto di appalto consegnataci dall’art. 1655 del codice civile è la seguente: “l’appalto è il contratto con il quale una parte assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro”. Naturalmente non è questa la sede per addentrarci nella disamina del concetto di “organizzazione dei mezzi necessari” oppure della “gestione a proprio rischio”, concetti ampiamente trattati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Focalizzeremo l’attenzione sulla evoluzione della responsabilità solidale tra committente e appaltatore fino alla modifica dei giorni nostri operata dal decreto legge 25/2017.

La responsabilità solidale del committente fin dalla legge 1369/1960 era volta a tutelare il lavoratore in vari ambiti, tra i quali quello del credito. Tale legge introdusse nel nostro ordinamento divieti piuttosto ferrei in materia e, successivamente, fu superata da norme che contemperavano da una parte la tutela del lavoratore impegnato nell’appalto e dall’altra le esigenze di flessibilità che il mercato del lavoro richiedeva. La legge 1369/1960 stabiliva il divieto generale di interposizione che interessava tutte quelle situazioni di affidamento dell’esecuzione di mere prestazioni di manodopera, in qualsiasi forma e per qualunque attività, a prescindere dalla tipologia dell’intermediario. Molto rilevante era anche il sistema delle presunzioni, in particolare l’impiego di mezzi, capitali, attrezzature di proprietà dell’appaltante da parte dell’appaltatore. In tale situazione e in occasione di appalti non genuini risultava piuttosto agevole l’azione da parte del lavoratore volta a ottenere la qualificazione del proprio rapporto di lavoro in capo al committente appaltante, in quanto proprio in virtù della norma, quanto costituito tra lavoratore e interposto (appaltatore) era comunque riferibile al soggetto interponente (committente). La legge 1369/1960 introdusse anche un principio rilevante in ambito di appalto genuino interno, cioè relativamente ad appalti posti in essere con effettiva organizzazione dell’appaltatore all’interno del ciclo produttivo del committente. In tale ambito fu previsto il diritto alla parità di trattamento economico e normativo per i dipendenti dell’appaltatore rispetto ai lavoratori dell’imprenditore appaltante/committente, nonché la responsabilità solidale del committente per tali trattamenti e per la contribuzione previdenziale ed assistenziale. Gli artt. 3 e 4 della legge 1369/1960 vedranno la loro fine, senza tuttavia effetto retroattivo, se non negli aspetti sanzionatori di natura penale, con il decreto legislativo 276/2003 che nel confermare all’art. 29 comma 3-bis la possibilità per il lavoratore dell’appaltatore operante in appalto non genuino di richiedere la costituzione del rapporto di lavoro in capo all’appaltante e/o committente purché imprenditore, ha introdotto in materia di responsabilità una rilevante modifica rispetto alla norma precedente. Con il decreto legge 276/2003 è venuta meno la tutela della parità di trattamento economico e normativa tra dipendenti dell’appaltatore e lavoratori dell’appaltante in un ambito di appalto genuino interno, mentre è restata immutata la responsabilità solidale del committente per i trattamenti retributivi e contributivi dei lavoratori dell’appaltatore nonché di eventuali subappaltatori. Tale responsabilità poteva richiedersi mediante azione che, fino all’entrata in vigore dell’art. 29, secondo comma, del decreto legislativo 276/2003, avrebbe potuto esercitarsi entro un anno dalla cessazione dell’appalto, successivamente entro il più ampio termine di due anni dalla cessazione dell’appalto.

Dopo appena un triennio di vigenza, il principio di responsabilità solidale del committente con l’appaltatore è stato esteso anche al versamento delle ritenute fiscali sulle retribuzioni da corrispondersi ai lavoratori impiegati nell’appalto, dall’art. 35, comma 34, del decreto legge 223/2006, convertito dalla legge 248/2006, norma nata al fine di contrastare l’evasione e l’elusione fiscale. La medesima norma ha introdotto altresì una specifica sanzione amministrativa (di importo compreso tra 5.000 e 200.000 euro) a carico del committente che procedeva al pagamento del corrispettivo all’appaltatore quando quest’ultimo non avesse effettuato il corretto pagamento delle ritenute fiscali e della contribuzione previdenziale, assistenziale e assicurativa concernenti il proprio personale. Pochissimi anni dopo, il decreto legge 97/2008, abrogando i commi da 29 a 34 dell’art. 35 della legge 248/2006, ha prodotto una duplice responsabilità solidale:

  • quella tra appaltatore e subappaltatore, riferita alla retribuzione, alla contribuzione e alle ritenute fiscali, con termine decadenziale per l’esercizio dell’azione coincidente con quello ordinario della prescrizione;
  • quella tra committente e appaltatore, limitata al solo ambito retributivo e contributivo, con termine biennale dalla cessazione del contratto per l’esercizio dell’azione da parte del lavoratore impiegato nell’appalto (si precisa, tuttavia, che la responsabilità solidale del committente sulle ritenute fiscali è restata in vigore nel periodo intercorrente tra l’entrata in vigore del decreto legge 223/2006 e quella del decreto legge 97/2008, quindi nel periodo compreso tra 12 agosto 2006 e il 2 giugno 2008).

Fermo restando le tutele susseguitesi nel tempo e finora descritte è opportuno precisare che in parallelo continuava ad operare l’art. 1676 del codice civile che consentiva l’azione da parte dei lavoratori impegnati in un appalto per “conseguire quanto loro dovuto fino alla concorrenza del debito che il committente ha verso l’appaltatore nel tempo in cui essi propongono la domanda”. Nel 2012 la responsabilità solidale tra appaltatore e subappaltatore si è arricchita di un ulteriore tassello. L’art. 13 ter del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalle legge 7 agosto 2012, n. 134 modifica infatti ulteriormente la disciplina del succitato art. 35 della legge 248/2006. Per effetto della nuova normativa si stabilisce che l’appaltatore risponde in solido con il subappaltatore oltre che del versamento delle ritenute fiscali sui redditi da lavoro dipendente anche dell’imposta sul valore aggiunto (Iva) dovuta dal subappaltatore in relazione alle prestazioni effettuate nell’ambito del rapporto di subappalto. Il committente invece, pur non essendo chiamato a rispondere dei mancati versamenti all’erario in materia di ritenute e Iva, resta tuttavia obbligato ad una rigida azione di controllo sulle attività di appaltatori e subappaltatori pena il pagamento della sanzione amministrativa compresa tra 5.000 e 200.000 euro introdotta dalla precedente legge 248/2006.

La solidarietà fiscale ha avuto tuttavia vita relativamente breve. L’art. 28, comma 1, del decreto legislativo 175/2014, noto come Decreto semplificazioni, ha abrogato i commi da 28 a 28-ter dell’art. 35 della legge 248/2006, facendo venir meno quindi la solidarietà tra appaltatore e subappaltatore in materia di ritenute fiscali e Iva, oltre alle sanzioni connesse.

In ordine di tempo, l’ultima modifica in materia di responsabilità solidale è quella del decreto legge 25/2017, che è intervenuto sull’art. 29, comma 2 del decreto legislativo 276/2003. Questo articolo, già modificato dall’art. 4, comma 31, della legge 92/2012, prevedeva che nell’ambito di una azione di responsabilità solidale promossa dal lavoratore di un appalto verso il committente, quest’ultimo potesse eccepire nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Il giudice pertanto, una volta accertata la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, poteva permettere l’azione esecutiva nei confronti del committente (purché imprenditore o datore di lavoro) solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori. La normativa, così come vigente ante decreto legge 25/2017, mirava a tutelare il personale impiegato negli appalti, ma anche a far sì che l’imprenditore committente scegliesse appaltatori seri e solvibili. Le modifiche erano giunte, come visto in precedenza, al termine di una fase piuttosto confusionaria avutasi sino al 2012, con evidente penalizzazione del committente in fase processuale, conseguenza dell’azione di rivalsa dei lavoratori degli appaltatori o subappaltatori. Era comprensibile che in assenza di legislazione il soggetto debole della catena (lavoratore) per far valere i propri diritti economici si rivolgesse al soggetto forte (committente) bypassando completamente il proprio datore di lavoro (appaltatore). La legge 92/2012, nota come Riforma Fornero, all’art. 4 comma 31, introdusse il principio della preventiva escussione prevedendo l’obbligo per il lavoratore di chiamare in giudizio congiuntamente il suo datore di lavoro e il committente, consentendo tuttavia a quest’ultimo, in caso di processo conclusosi con condanna in solido, di chiedere che il lavoratore agisse prima nei confronti del suo originario datore di lavoro (appaltatore o subappaltatore) e solo in caso di insolvenza nei suoi confronti. Sempre la Riforma Fornero concesse alla contrattazione collettiva di primo livello di derogare alla responsabilità solidale prevedendo metodi e procedure di controllo alternativi in sostituzione alla responsabilità solidale. L’art. 29 del decreto legislativo 276/2003, al comma 2, nella sua versione precedente all’abrogazione da parte del decreto legge 25/2017 prevedeva:

  1. Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento. Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento può esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali. 

Il primo periodo del suddetto comma 2 (introdotto con la legge 92/2012), lasciava tuttavia il dubbio su quale dovesse essere il Contratto collettivo nazionale di lavoro (CCNL) al quale fare riferimento per la deroga, se quello del committente o dell’appaltatore. Solo nel 2015, con l’Interpello n. 9/2015, il Ministero del Lavoro, su istanza dell’ARIS la quale chiedeva se l’espressione “Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali” si riferisse alla contrattazione collettiva sottoscritta da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore di appartenenza dell’appaltatore ovvero di quello del committente, chiarì la sua posizione. La risposta Ministeriale fu quella più ovvia e cioè costituendo la responsabilità solidale un istituto a tutela dei lavoratori impiegati dall’appaltatore e/o subappaltatore, il CCNL idoneo a derogare le norme sulla stessa responsabilità fosse proprio quello applicato ai lavoratori oggetto di tutela. Questa norma è stata anche oggetto del referendum promosso dal sindacato CGIL, che puntava alla sostanziale abrogazione delle modifiche all’art. 29, comma 2, del decreto legge 276/2003 introdotte dalla Riforma Fornero, al fine di eliminare la possibilità di deroga alla responsabilità solidale da parte di un CCNL e il principio del beneficium excussionis ritornando alla situazione di tutela per il lavoratore ante 2012, sfavorevolmente sbilanciata nei confronti del committente.

La situazione politica venutasi a creare dopo il referendum del 4 Dicembre 2016 sulla modifica della Costituzione e la successiva ammissione del quesito referendario promosso dalla CGIL, ha fatto sì che il Governo decidesse di eliminare dall’ordinamento le norme oggetto dei quesiti referendari. Ciò ha determinato l’abrogazione dell’intera normativa sul lavoro accessorio e l’abrogazione di parte del primo periodo dell’art. 29 comma 2, nonché dei successivi secondo, terzo e quarto periodo sempre del medesimo comma.

Fermo restando che l’auspicio degli addetti ai lavori sia quello che l’art. 2 del decreto legge 25/2017 possa essere il punto di partenza di una riforma della materia della responsabilità solidale negli appalti, è altrettanto lecito chiedersi se lo stesso possa evitare altre ipotesi di deroga al regime della responsabilità solidale. In tale situazione, seppur limitata agli accordi di secondo livello, sembrerebbe restare in piedi la possibilità di regolamentare la responsabilità solidale anche in deroga attraverso la contrattazione di prossimità. Con il decreto 25/2017 infatti non è stata modificata la normativa dei contratti di prossimità, disciplina tra l’altro invisa in particolare modo proprio all’associazione sindacale promotrice del referendum abrogativo. L’art. 8 della legge 148/2011 prevede infatti che accordi di secondo livello “sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l’accordo interconfederale del 28 giugno 2011”, al fine di perseguire specifiche finalità, volte alla “maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività”, possano derogare a norme di legge e di contratto collettivo tra cui anche, specificandolo, il regime della solidarietà degli appalti. I commi 2 e 2 bis dell’art. 8 della legge 148/2011 prevedono: comma 2 “Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento:

a)…omissis…;

b)…omissis…;

c) ai contratti …omissis…, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro;)

d)…omissis…..;

e)…omissis…..;

comma 2-bis Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. 

È proprio la specialità della norma, non toccata dal quesito referendario, ma nemmeno dalla precedente legge 92/2012, che consente la deroga alla legge solo per specifiche e ben individuate finalità, che potrebbe far propendere per un suo valido ed efficace utilizzo al fine anche di reintrodurre il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore da parte del committente e/o regolamentare in modo specifico, ancorché limitandola, la responsabilità solidale. Tuttavia, altrettanto valida e personalmente condivisibile è la tesi per cui già dalla modifica dell’art. 29 del decreto legislativo 276/2003 ad opera della legge 92/2012 si fosse in qualche modo implicitamente depotenziata la seconda parte della lettera c), comma 2, dell’art. 8 della legge 148/2011, concernente la derogabilità al regime di solidarietà negli appalti. In sostanza se l’art. 29 comma 2 era (ed è tuttora) norma di carattere generale in materia di responsabilità solidale negli appalti e se la stessa norma consentiva solo alla contrattazione collettiva nazionale la possibilità di deroga purché la stessa contrattazione provvedesse ad “individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti”, non avrebbe verosimilmente consentito spazi ulteriori per la contrattazione di secondo livello che invece non prevedeva le medesime cautele quanto a metodi e procedure di controllo. Andando oltre anche il dubbio dottrinale sull’implicita abrogazione della seconda parte della lettera c), comma 2, dell’art. 8 della legge 148/2011, concernente la derogabilità al regime di solidarietà negli appalti, attraverso l’art. 4, comma 31 della legge 92/2012, se teoricamente non sarebbe così difficile immaginare un accordo di secondo livello finalizzato alla gestione di crisi aziendali, che andasse a modulare in forma differente la responsabilità solidale negli appalti, nella pratica, ad oggi, viene spontaneo chiedersi quanta volontà possa riscontrarsi tra le associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ad utilizzare uno strumento di autoregolamentazione così incisivo quale la contrattazione di prossimità in una materia così insidiosa.

* Odcec Lanciano (Chieti)

 

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