Note a sentenza – Lavoro pubblico privatizzato e danni da mancata immissione in ruolo

di Alessandro Barretta* 

Analisi critica della sentenza emessa dalla Corte di Appello di Roma, Sezione Lavoro, il 26 maggio 2017, n. 2957/17, pubblicata il 6 giugno 2017, in riforma della sentenza del Tribunale di Roma, Sezione Lavoro, del 25 settembre 2013, n. 10242/13, pubblicata il 6 novembre 2013.

Indice:

  1. fatto e svolgimento del processo;
  2. motivi della decisione;
  3. i poteri conformativi del G.O. nei confronti della A. nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato: l’art. 63, secondo comma, d.lgs. 165/2001;
  4. il risarcimento del danno da perdita di chances: la prova a carico del richiedente;
  5. processo del lavoro: il divieto di nova in appello. Rilevabilità d’ufficio della decadenza istruttoria maturata. 

1 – Fatto e svolgimento del processo

Una ricercatrice dipendente di un noto ente pubblico, dopo essersi utilmente collocata nella graduatoria definitiva di ben due concorsi per la selezione a posti di Primo Ricercatore, si vedeva ingiustamente negare per circa due anni e mezzo il contratto sul preteso blocco delle assunzioni vigente all’epoca nel settore pubblico, mentre i suoi colleghi di concorso risultavano immediatamente immessi in ruolo a dispetto del blocco medesimo. La ritardata costituzione del rapporto di lavoro, quindi, non solo pregiudicava la lavoratrice nei confronti degli altri colleghi, che potevano vantare una superiore anzianità di servizio nel grado, ma le precludeva anche l’accesso al concorso a posti di Dirigenti di ricerca indetto nelle more della stipula del contratto di lavoro. Di tanto amareggiata, dunque, la stessa ricorreva al Tribunale del lavoro di Roma richiedendo, in sintesi, la retrodatazione degli effetti giuridici ed economici della nomina a Primo Ricercatore (quantomeno alla data di approvazione della graduatoria del primo concorso vinto), con ricostruzione della carriera anche ai fini contributivi e previdenziali ed attribuzione di tutte le differenze retributive medio tempore maturate; nonché il risarcimento del danno ingiusto da perdita di chances per non aver potuto partecipare al concorso dirigenziale, cui avrebbe avuto accesso se fosse stata tempestivamente inquadrata nel ruolo di Primo Ricercatore. Il Tribunale di Roma, ritenuta la condotta illecita di parte datoriale in spregio ai superiori principi costituzionali di Uguaglianza, Imparzialità, Buon andamento, e dunque illegittimo il ritardo nella costituzione del rapporto di lavoro dopo l’approvazione della graduatoria del primo concorso vinto dalla lavoratrice, accoglieva la domanda disponendo la retrodatazione degli effetti giuridici ed economici del contratto di lavoro alla data di approvazione della graduatoria medesima; attribuendo le differenze retributive maturate; disponendo la ricostruzione della carriera ai fini contributivi e previdenziali; liquidando equitativamente in suo favore anche il danno da perdita di chances per la mancata partecipazione al concorso a posti di Dirigente di ricerca, in cui si sarebbe con buone probabilità utilmente collocata. Avverso la sentenza di primo grado ricorreva in appello l’istituto, assumendo nella fattispecie il difetto di giurisdizione del Giudice Ordinario (G.O.) ed in subordine il travalicamento da parte del medesimo dei pretesi limiti interni nei confronti della autorità amministrativa, la cui potestà discrezionale non soffrirebbe eccezioni anche nei rapporti di lavoro privatizzati. 

2 – Motivi della decisione

La Corte di Appello di Roma, con la sentenza che si annota, riformava inopinatamente la sentenza emessa in prime cure sulla base del seguente contraddittorio iter logico-argomentativo: ritenuta, da un lato, sussistente la giurisdizione del G.O. e dunque la propria legittimazione a decidere la causa, vertendo la stessa sul diritto all’assunzione conseguente all’espletamento vittorioso della procedura concorsuale, sul corretto rilievo che tanto dispone l’art. 63, primo comma, d.lgs. 165/2001; e confermato, dall’altro, lo scrutinio di illiceità del comportamento dell’istituto nella ritardata assunzione, ritenuto un arbitrio ingiustificato ed ingiustificabile; il giudicante tuttavia non portava ad effetto il ragionamento, arrestandosi contraddittoriamente sulla soglia di un preteso limite invalicabile del G.O. nei confronti della pubblica amministrazione: “L’atto di assunzione è comunque discrezionale e pertanto al giudice ordinario non è consentito di sostituirsi alla pubblica amministrazione nella stipulazione del contratto, né tantomeno gli è consentito di disporre la retrodatazione degli effetti. Conseguentemente, il motivo di appello deve essere accolto solamente nella parte in cui l’appellante ha lamentato la violazione da parte del giudice ordinario della discrezionalità amministrativa ed è stata disposta la retrodatazione degli effetti giuridici ed economici.” Su tale erroneo ed illegittimo assunto (come tra poco si vedrà), quindi, la Corte di Appello capitolina annullava la retrodatazione del contratto e riconosceva alla lavoratrice esclusivamente il risarcimento del danno quantificato nelle differenze retributive maturate nel periodo intercorrente tra la data di approvazione della graduatoria e quella di sottoscrizione del contratto medesimo. Inoltre, andando in contrario avviso al primo giudice, negava anche il risarcimento della perdita di chances ritenendo la domanda della lavoratrice sfornita di prova in punto, e quanto ciò richiamando due recenti decisioni della Cassazione sull’onere della prova del suddetto danno, il cui senso (come subito si vedrà) era travisato, ed argomentando sulla base di un documento (la graduatoria del concorso a posti di Dirigente di ricerca) prodotto da parte datoriale per la prima volta nel giudizio di appello, ancorché fosse di formazione anteriore all’introduzione del giudizio di primo grado, in spregio del divieto di ius novorum di cui all’art. 437 c.p.c., la cui violazione è rilevabile d’ufficio.

3 – I poteri conformativi del G.O. nei confronti della P.A. nel rapporto di lavoro pubblico privatizzato

Tanto premesso, non può condividersi l’avviso della corte capitolina in punto dei pretesi limiti della giurisdizione ordinaria nei confronti della pubblica amministrazione, poiché lo stesso art. 63 d.lgs. 165/2001, richiamato nella sentenza qui criticamente annotata, statuisce al suo secondo comma quanto segue: “2. Il giudice (ordinario) adotta, nei confronti delle pubbliche amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati. Le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro.” Il commento, verrebbe da dire, appare finanche superfluo: in claris non fit interpretatio. Il giudice ordinario, a norma dell’art. 63 del nuovo Testo unico sul lavoro pubblico, cui sono devolute tutte le controversie relative al rapporto di lavoro successive all’approvazione della graduatoria concorsuale, ivi incluse quelle concernenti il diritto all’assunzione, come nella fattispecie che ci occupa, ha nei confronti della pubblica amministrazione (P.A.) esattamente gli stessi poteri che avrebbe il giudice amministrativo, non soffrendo alcuna limitazione in corrispondenza della pretesa discrezionalità della P.A., o meglio ancora esercita nei confronti del datore pubblico gli stessi poteri conformativi che eserciterebbe nei confronti del datore privato, perché, è questo il punto, “con l’approvazione della graduatoria si esaurisce l’ambito riservato al procedimento amministrativo e all’attività autoritativa dell’amministrazione, subentrando una fase in cui i comportamenti dell’amministrazione vanno ricondotti all’ambito privatistico, espressione del potere negoziale della P.A. nella veste di datrice di lavoro, da valutarsi alla stregua dei principi civilistici in ordine all’inadempimento delle obbligazioni (art. 1218 cod. civ.), anche secondo i parametri della correttezza e della buona fede.” (Cass. Civ., S.U., 23/09/2013, n. 21671).

Nella fattispecie in esame, pertanto, la Corte capitolina avrebbe dovuto confermare, anziché riformare, il capo della sentenza del Tribunale che correttamente aveva retrodatato gli effetti giuridici ed economici del contratto in conseguenza dell’accertato illecito commesso dal datore di lavoro.

4 – Il risarcimento del danno da perdita di chances: la prova a carico del richiedente

Non condivisibile, peraltro, appare neppure la decisione della Corte di merito di riformare il capo della sentenza di prime cure relativo al risarcimento del danno da perdita di chance. Come noto, quest’ultima fattispecie di formazione giurisprudenziale non integra né un’ipotesi di sottrazione di un’utilità già consolidata al patrimonio del danneggiato, né un’ipotesi di utilità certa anche se solo nel breve o medio termine. Chi vede sfumare una chance perde non già un incremento patrimoniale, ma la speranza di quell’incremento: non si tratta una deminutio patrimonii, ma di una deminutio spei.

Ciò posto, una recente pronuncia della Suprema Corte ha fatto il punto in subiecta materia (Cass. Civ., sez. III, 14/03/2017, n. 6488/17) e ha confermato come oggetto della perdita di chance sia la concreta ed effettiva perdita di un’occasione favorevole di conseguire un determinato bene o vantaggio, in quanto tale costituente un’entità patrimoniale a sé stante, giuridicamente ed economicamente suscettibile di autonoma valutazione. Si pensi all’impossibilità di partecipare ad un concorso, ad esempio, perché il giorno dell’esame si rimanga vittima di un incidente stradale, ovvero perché al candidato non venga consegnata la lettera di convocazione, ovvero ancora perché le lesioni subite nel medesimo incidente non consentano più di praticare un determinato lavoro con i relativi avanzamenti di carriera. Ebbene, la chance perduta deve in questo caso individuarsi nella certezza di non poter partecipare al concorso: il bene della vita perduto, che deve essere risarcito, è la possibilità di partecipare al concorso, e non già la certezza di vincere uno dei posti messi a concorso. Questa è la chance: la partecipazione al concorso offre di per sé stessa delle opportunità favorevoli che diversamente non si avrebbe la possibilità di conseguire. D’altra parte, ciò ben si comprende sol che si consideri che la partecipazione e la collocazione in graduatoria realizza immediatamente le seguenti opportunità per il lavoratore a prescindere dalla concreta attribuzione di uno dei posti vacanti messi a concorso: a) un’idoneità che attribuisce punti ed è quindi spendibile in una futura selezione; b) la possibilità di assunzione per effetto di scorrimento delle graduatorie; c) la possibilità di assunzione, di nuovo, in ruoli corrispondenti di altre amministrazioni per effetto della mobilità nel lavoro pubblico “contrattualizzato”.

Quanto ai criteri probatori, ci rammenta la Suprema Corte, è onere del lavoratore danneggiato dare la dimostrazione della realizzazione in concreto delle chance di ottenere il risultato auspicato e invece reso impossibile da una data condotta illecita. La prova, essendone oggetto l’avveramento del fatto sperato mai avvenuto, tuttavia, può evidentemente essere fornita facendo ricorso alle presunzioni ed al criterio probabilistico. 

Nella fattispecie che ci occupa, dunque, la lavoratrice avrebbe dovuto provare, e tanto in effetti provava, che laddove avesse potuto partecipare al concorso a posti di dirigente di ricerca, avrebbe avuto buone possibilità di vincerlo: come sancito dalla Cassazione, infatti, “la perditadi chance è risarcibile indipendentemente dalla dimostrazione che la concreta utilizzazione della chance (partecipazione al concorso) avrebbe presuntivamente o probabilmente determinato la consecuzione del vantaggio (assunzione nel ruolo superiore), essendo sufficiente anche la sola possibilità di tale consecuzione” (Cass.n. 23846/2008, est. Frasca). L’idoneità della chance a determinare presuntivamente o probabilmente ovvero solo possibilmente la detta conseguenza è, viceversa, rilevante ai fini della concreta individuazione e quantificazione del danno, da effettuarsi eventualmente in via equitativa, posto che nel primo caso il valore della chance è certamente maggiore che nel secondo e, quindi, lo è il danno per la sua perdita. 

Alla luce della giurisprudenza di legittimità, dunque, errava la Corte di merito nel ritenere la domanda della lavoratrice sfornita di prova in punto, poiché proprio il punteggio assegnato dal giudicante, sulla scorta di un documento introdotto da parte datoriale in violazione del divieto di ius novorum in appello (cfr. paragrafo seguente), dimostrava che la stessa aveva ottime possibilità di essere nominata dirigente di ricerca, se non nell’immediato,quanto meno in un futuro molto prossimo, per effetto dello scorrimento della graduatoria ovvero della mobilità. La questione, dunque, semmai si sarebbe dovuta spostare dall’an al quantum del risarcimento, posto che, come già detto, alla concreta liquidazione del danno si procede attraverso un criterio prognostico fondato sulla possibilità del risultato utile assumendo, come parametro di valutazione, il vantaggio economico complessivamente realizzabile dal danneggiato, diminuito di un coefficiente di riduzione proporzionato al grado di possibilità di conseguirlo, ricavabile dagli elementi della singola fattispecie dedotta in giudizio; e laddove tale meccanismo non sia possibile, con applicazione del criterio equitativo ex art. 1226 del codice civile sempreché risulti provato il danno risarcibile, pure in base ai ricordati calcoli di probabilità. Tuttavia, nella fattispecie oggetto della sentenza in commento, soccorreva la congruità della liquidazione effettuata dal primo giudice, che aveva fissato il risarcimento della perdita di chances appunto nel 50% delle differenze retributive mancate, in tal misura valutando le probabilità della lavoratrice di accedere al ruolo superiore: si trattava di una decisione equilibrata, giusta, coerente con il quadro probatorio fornito dalla ricorrente, che andava tenuta ferma dai giudici dell’impugnazione.

5 – Processo del lavoro: il divieto di nova in appello. Rilevabilità d’ufficio della decadenza istruttoria maturata

Da ultimo, la sentenza della Corte capitolina appare censurabile anche sotto diverso profilo: essa infatti ha giudicato, in punto di danno da perdita di chance, sulla base di un documento (la graduatoria del concorso a posti di dirigente bandito nel 2008) che, ancorché di formazione anteriore ovverosia nella disponibilità di parte datoriale in epoca precedente all’introduzione del giudizio di primo grado, veniva da questa prodotto soltanto in grado di appello in violazione del divieto di ius novorum ex art. 437 del codice di procedura civile.

 Giova precisare al riguardo che la questione della mancata partecipazione della lavoratrice al concorso dirigenziale era stata ampiamente discussa tra le parti sin dal principio, negli atti introduttivi del primo grado di giudizio, sicché la produzione in appello del documento de quo risultava inammissibile alla stregua dei limiti fissati dalla giurisprudenza di legittimità ai c.d. nova in appello: infatti, la sua produzione non era giustificabile, in ipotesi, né sulla base della formazione successiva del documento, ché questa era appunto anteriore e l’appellante non aveva fornito dimostrazione di non avere potuto produrlo in precedenza per cause ad esso non imputabili; né sulla base di uno sviluppo processuale non prevedibile in prime cure, ché come già detto la questione era stata prospettata dalla lavoratrice immediatamente nel ricorso introduttivo ed analogamente contrastata da parte datoriale nella memoria di costituzione in giudizio senza farvi alcuna menzione del documento di cui disponeva e che pertanto avrebbe dovuto allora, e soltanto allora, legittimamente allegare (Cass. civ., Sez. Lav., 23/01/2003, n. 775; id. 09/03/2009, n. 5642; id. 25/05/2010, n. 12793). Parte datoriale, dunque, eraincorsa indecadenza, insanabile e rilevabile d’ufficio, non ovviabile neppure con i poteri istruttori officiosi del giudice dell’impugnazione (Cass. civ., Sez. Lav., 09/03/2001, n. 3516). Si veda, in tale senso, Cass. civ., Sez. 3, 25/11/2005 n. 24900, secondo la quale “la decadenza prevista dall’art. 414, n. 5, e 416, terzo comma, cod. proc. civ. ha carattere assoluto ed inderogabile e deve essere rilevata d’ufficio dal giudice indipendentemente dal silenzio serbato dalla controparte o dalla circostanza che la medesima abbia accettato il contraddittorio, atteso che nel rito del lavoro la disciplina dettata per il giudizio risponde ad esigenze di ordine pubblico attinenti al funzionamento stesso del processo, in aderenza ai principi di immediatezza, oralità e concentrazione che lo informano”. Del resto, le prove d’ufficio, sia ex art. 421, che ex art. 437 del codice di procedura civile, possono riguardare soltanto fatti tempestivamente allegati dalle parti (Cass., Sez. Un., 20/04/2005, n. 8202; Cass., Sez. Un., 24/03/2006, n. 6572; Cass., 1/07/2010, n. 15653; Cass., 2/02/2009, n.2577), e non sarebbe stato questo il caso posto che parte datoriale nel primo grado di giudizio non aveva allegato alcuna specifica prova contraria alla deduzione della ricorrente in punto di danno da perdita di chance, limitandosi soltanto ad una contestazione labiale e generica.

La decadenza in cui era incorsa parte datoriale era, pertanto, insanabile e doveva essere rilevata d’ufficio dalla Corte capitolina, la quale, fondando la propria decisione proprio sul documento da quella tardivamente introdotto, ha fatto evidente malgoverno dei principi di ordine pubblico di immediatezza, oralità e concentrazione, che informano il processo del lavoro in considerazione dei valori costituzionali ivi tutelati. Diversamente opinando, se si dovesse ammettere la produzione in appello di prove precostituite prive del carattere di novità, si finirebbe per consentire alla parte di aggirare la disposizione di cui all’art. 414 n. 5, del codice di procedura civile, trasformando così il giudizio d’appello, da giudizio di riesame della decisione impugnata (revisio prioris instantiae), in mera prosecuzione del giudizio di primo grado se non finanche in un nuovo giudizio (judicium novum), con conseguente violazione della struttura e della logica del sistema che ispira la disciplina probatoria nel rito del lavoro (Cass. civ., Sez. Lavoro, 04/08/1994, n. 7233), le cui esigenze processuali, si vuol ribadire, sono improntate alla massima celerità in conformità allo spessore costituzionale dei diritti indisponibili in esso coinvolti. Coerentemente, quindi, la Corte Suprema ha ribadito il principio secondo cui Nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell’art. 416, terzo comma, cod. proc. civ., che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sul ricorrente per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977- e 437, secondo comma, cod. proc. civ., che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti – l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti medesimi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (come nei casi, ad es., susseguenti alla proposizione di domanda riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa di terzo), con completa equiparazione, ai fini dell’operatività delle preclusioni e dei termini decadenziali previsti dalla legge, tra prova precostituita (quale quella documentale) e prova costituenda (come quella testimoniale). (Nella specie, la Suprema Corte, alla stregua del principio affermato, ha accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza impugnata, con la quale era stata rigettata la domanda del ricorrente fondandosi, però, la decisione su prove documentali non tempestivamente e ritualmente indicate né depositate dalla convenuta, sul presupposto della non ritenuta assoggettabilità delle prove precostituite alle preclusioni ed ai termini decadenziali cui devono sottostare le prove costituende). (Cassa con rinvio, App. Bologna, 30/05/2003)” (Cass. civ. Sez. lavoro, 22/05/2006, n. 11922).

Si è detto ribadito, perché il suddetto principio era stato già sancito con l’arresto delle Sezioni Unite n. 9199 del 1990, successivamente confermato dalle Sezioni Unite n. 8202 del 2005 (che costituisce tuttora il caposaldo della evoluzione giurisprudenziale in materia), che avevano rimarcato come tale decadenza fosse rilevabile d’ufficio dal giudice, non condividendo le S.U. quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la tardività della produzione documentale in grado di appello, ove non eccedente l’inizio della discussione orale, fosse eccepibile soltanto dalla parte interessata (che avrebbe potuto rinunciare a farla valere, espressamente o in modo implicito), e quanto ciò sull’assorbente rilievo che la possibilità di produzione di nuovi documenti in appello contrasterebbe, inevitabilmente, con i principi di concentrazione ed immediatezza del rito del lavoro, e con il coordinamento testuale intercorrente tra gli artt. 434 e 436 c.p.c. e gli artt. 414 e 416 dello stesso codice.

Alla luce delle suesposte osservazioni, si ritiene che la decisione della Corte di merito in commento non resisterebbe ad uno scrutinio di legittimità da parte della Corte Suprema.

* Avvocato in Roma

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