Norme europee e la loro difficile applicazione nel sistema del diritto nazionale

di Vincenzo Ferrante*

Si sentono spesso citare, dagli uffici amministrativi o giudiziari, sentenze e norme delle istituzioni europee, senza che però sia chiaro che efficacia debba attribuirsi a queste nel nostro sistema.In passato, il sistema delle fonti era abbastanza chiaro e suscettibile di essere rappresentato in maniera stabile: alla legge nazionale spettava il ruolo di unica fonte del diritto, salvo che, a seguito di un intervento della Corte costituzionale, questa la legge fosse dichiarata illegittima e quindi cancellata dall’ordinamento. In verità, anche in questa fase, non mancavano problemi, poiché era chiaro che la pronunzia della Corte costituzionale non consisteva in una dichiarazione di nullità ab origine (e quindi con effetti ex tunc), ma in un annullamento (con efficacia ex nunc, cioè dal giorno successivo alla sen- tenza). La conseguenza era che alcuni rap- porti potevano oramai considerarsi esauriti (si pensi ad un provvedimento non impugnato dell’autorità amministrativa) e quindi non beneficiavano della dichiarazione di in- costituzionalità (e per questo motivo, si consigliava talora di impugnare comunque l’atto amministrativo, anche quando era noto che la legge era contraria al cittadino o al contribuente). In secondo luogo, poteva capitare (e capitava sempre più spesso negli ultimi trent’anni) che la Corte costituzionale non dichiarasse l’illegittimità della norma, ma che suggerisse ai giudici come interpretarla al fine di renderla compatibile con la costituzione (c.d. sentenze “interpretative di rigetto”). In quest’ultimo caso, però, si trattava di pronunzie che non avevano un effetto generale e che potevano dar luogo a provvedi- menti di segno diverso ad iniziativa di giudici, che ritenevano di non poter applicare la pronunzia della Corte costituzionale, per es., perché relativa ad ipotesi differenti da quelle loro sottoposte.

La situazione, ultimamente, si è ancora di più complicata a ragione delle norme della Unione (un tempo “Comunità”) europea, l’adesione alla quale comporta per il nostro Paese (e per tutti gli altri 27 Stati membri) di doversi conformare al sistema giuridico proprio dell’istituzione sovrannazionale, rispettandone di conseguenza le “leggi”.

Queste ultime sono costituite, in linea generale, da due diversi tipi di provvedimento normativo: i regolamenti e le direttive.

I regolamenti contengono norme dettagliate e di immediata applicazione per tutti i citta- dini e le amministrazioni nazionali (recano per es. le indicazioni tecniche in ordine alla etichettatura di un cibo conservato o alle caratteristiche di certi impianti). A riguardo si pongono questioni molto semplici: i rego- lamenti prevalgono sulle norme nazionali, sia antecedenti che posteriori, di modo che di essi anche l’amministrazione è obbligata a fare applicazione (anche in assenza di un atto nazionale che li “recepisca”). Anzi la mancata applicazione non può dipendere da una circolare o da un atto interno, perché il singolo dipendente pubblico è onerato della conoscenza dei regolamenti e deve farne applicazione, anche a danno delle leggi ita- liane. Le direttive, invece, non vincolano direttamente gli stati e i loro cittadini, ma richiedono un adattamento, attraverso la legislazione nazionale a ciò espressamente dedicata (in qualche caso, basta un atto ministeriale o un altro provvedimento normativo minore). Esse prevedono un contenuto di massima, che talora può anche essere molto dettagliato, e stabiliscono un termine per la loro “trasposizione” all’interno degli ordinamenti dei singoli stati membri (si va da pochi mesi a tre anni).

Si è a lungo discusso se riconoscere alle direttive un effetto “diretto”, al pari dei regolamenti, rendendole vincolanti per i cittadini. La risposta è stata che mentre allo Stato si può imputare una cattiva volontà nella mancata trasposizione (c.d. principio dell’estoppel), ai cittadini non si può ascrivere questa colpa. Ne discende che mentre le direttive, oramai venute a scadenza, prive di condizioni di applicabilità e sufficientemente dettagliate da individuare diritti in capo ai singoli, possono essere applicate dai giudici nazionali a danno di tutte le istituzioni statali (e anche nei confronti delle ASL o dei Comuni, che nessun colpa hanno, se non quella di essere articolazioni dello Stato: effetto “verticale”), nullo è il loro effetto nei rap- porti fra cittadini privati, fin tanto che il Parlamento non si decida a trasporle correttamente. Per fare un esempio, quindi, se non è stata ancora trasposta la direttiva che impone alle imprese di riconoscere quattro setti- mane di ferie pagate, il lavoratore non può chiedere al Tribunale del Lavoro la condanna del proprio datore, se non dal giorno dopo a quello in cui, con legge ordinaria, non viene modificato l’ordinamento (c.d. man- canza dell’effetto “orizzontale”).

La Corte di Giustizia europea (che ha sede in Lussemburgo) ha però precisato che il definitivo riconoscimento di una assenza di “effetto orizzontale” delle direttive dettaglia- te, incondizionate e non trasposte, lascia comunque al Giudice nazionale un obbligo di verificare la possibilità di una interpretazione c.d. “adeguatrice” del diritto nazionale, al fine di far valere il contenuto delle direttive attraverso l’evoluzione delle norme interne. Poiché la prassi che si è consolidata va nella direzione di procedere alla trasposi- zione delle direttive in ambito nazionale mediante un decreto legislativo che semplicemente ripropone le formule europee, senza nulla aggiungere, i giudici nazionali finiscono per ricondurre ogni questione inter- pretativa ad un conflitto fra disposizioni diverse, regolato tuttavia non già da principi di posteriorità nel tempo o di specialità, ma dal prevalere della norma europea, in quanto gerarchicamente più elevata.

Da qui il prevalere delle fonti internazionali (non solo le direttive dell’Unione europea, ma anche ad es. le disposizioni della Convenzione dei diritti dell’uomo) sulle norme del diritto interno, grazie ai richiami di cui agli artt. 10 e 11 Cost. ed ora grazie al significato attribuito dalla Corte costituzionale al novellato art. 117 Cost., che, nel riorganizza- re su base federale lo stato italiano, ha riba- dito la superiorità del diritto dell’Unione europea rispetto a quello “nazionale”.

Siffatta “supremazia”, di per sé naturale in quanto conseguente ad un impegno degli Stati membri diretto a garantire l’uniformità del diritto dei trattati, viene però sospinta talora dalla interpretazione delle corti di me- rito italiane sino a determinare l’abrogazione tacita non solo di norme di legge ordinaria, ma altresì delle stesse disposizioni costituzionali, secondo schemi logici nei quali l’esigenza di pronunziarsi in ordine alle domande di parte attrice finisce per fare velo alla questione in sé. Ed invero si deve rilevare a riguardo come la magistratura, malgrado qualche luminosa eccezione, non sempre appare a suo agio nel fronteggiare le categorie del diritto comunitario (ed ora dell’Unione), dimenticando talora il fatto che le nozioni di tutti gli atti internazionali multilaterali non possono essere lette in stretta correlazione col diritto interno, atteso che, a così ragionare, sarebbe impossibile il dialogo fra sistemi giuridici diversi.

Si tratta, spesso, di sentenze che necessaria- mente finiscono con il presentare ampi margini di discrezionalità, posto che l’applicazione delle disposizioni delle direttive impone un’azione di completamento dei principi generali europei, che viene per forza di cose attribuita al giudice nazionale: così quando il Tribunale di Verona è stato chiamato a decidere dell’età di pensionamento del personale di scena di sesso femminile (non solo le ballerine ma anche le comparse) ha dovuto correggere il disposto della norma positiva, integrandolo nel senso che esse potevano andare a riposo alla stessa età degli uomini, senza che alcuna legge prevedesse espressamente una regola siffatta.

Resta peraltro qui da aggiungere che, come è ben noto al giuslavorista, il rinvio alle fonti internazionali non è affatto dirimente, sia perché non è infrequente il caso di conflitto fra discipline di diversa provenienza (esemplare in tema di lavoro notturno femminile che hanno visto un contrasto fra norme OIL e norme della Comunità), sia perché viene talora a delinearsi un nuovo conflitto fra i giudici del merito, chiamati a dare applicazione diretta alle fonti internazionali senza la mediazione degli altri valori costituzionali, e la Corte costituzionale che, vice- versa, è per naturale tendenza indotta a privilegiare soluzioni dirette a dare applicazione a tutti i principi costituzionali. Insomma, un sistema complicato, che non conosce soluzioni chiare in nessuno dei paesi europei, e nel quale sono davvero in pochi a sapersi orientare con sicurezza.

* Professore ordinario nell’Università Cattolica di Milano

 

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