Rassegna di Giurisprudenza

di Bernardina Calafiori* e Francesco Marasco** 

Cass. Civ., Sez. lav., 12 settembre 2018, n. 22177: Rapporto di lavoro – Riposi giornalieri – Rapporto di lavoro subordinato – Indennità di maternità – Rapporto di lavoro autonomo – Cumulo– Ammissibilità. 

Deve ritenersi ammissibile la fruizione, da parte del padre-lavoratore dipendente, dei riposi giornalieri ex art. 40 del d.lgs. n. 151/2001, all’interno dello stesso arco temporale in cui la madre-lavoratrice autonoma fruisce dell’indennità di maternità sancita dall’art. 66 del d.lgs. n. 151/2001. 

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava la possibilità di cumulare tra loro il beneficio dei c.d. “riposi giornalieri” del padre-lavoratore dipendente, disciplinato dall’art. 40 del d.lgs. n. 151/2001, ed il beneficio della c.d. “indennità di maternità” della madre- lavoratrice autonoma, disciplinata dall’art. 66 del medesimo decreto legislativo.

Il Giudice di prime cure accoglieva il ricorso del padre-lavoratore dipendente avverso il provvedimento dell’INPS che negava tale cumulo.

Al padre-lavoratore dipendente veniva pertanto riconosciuto, in via giudiziale, il diritto di usufruire dei riposi giornalieri per 2 ore al giorno, sino al compimento di un anno di età da parte della figlia, e ciò nel medesimo periodo in cui la di lui moglie – lavoratrice autonoma – già usufruiva del trattamento economico di maternità.

La suddetta statuizione veniva confermata dalla Corte di Appello di Torino. In particolare, i Giudici di secondo grado rilevavano che la diversità della condizione della madre-lavoratrice autonoma, rispetto a quella della madre-lavoratrice dipendente, giustificava la previsione di un’incondizionata possibilità per il padre di fruire dei permessi nell’interesse stesso del bambino, e ciò anche se la madre stesse fruendo, nel frattempo, dell’indennità di maternità.

La Corte di Cassazione confermava, a propria volta, le conclusioni dei Giudici di merito, rilevando che l’alternatività tra i riposi giornalieri del padre lavoratore e l’indennità di maternità – e, quindi, l’impossibilità di un loro cumulo – è prevista solo in relazione all’ipotesi della “madre lavoratrice dipendente che non se ne avvalga [n.d.r. dei riposi].

Non si riscontra viceversa una siffatta previsione con riferimento alla diversa ipotesi della madre-lavoratrice autonoma. Sul punto, del resto, l’art. 40 ult. cit. si limita a sancire che il padre-lavoratore possa fruire dei riposi giornalieri “nel caso in cui la madre non sia lavoratrice dipendente”.

Ond’è che, stante la diversa – ampia – formulazione invocabile nell’ipotesi in commento, secondo il Supremo Collegio il padre-lavoratore dipendente può fruire dei riposi giornalieri anche nello stesso periodo in cui la madre-lavoratrice autonoma stia già beneficiando dell’indennità di maternità.

Il provvedimento si distingue, certamente, per la sua portata innovativa. Ciò che merita di essere segnalata è, in particolare, la corretta e compiuta ricostruzione della condizione della lavoratrice autonoma posta a base dell’intera motivazione, invero molto diversa da quella della lavoratrice dipendente (soprattutto sotto il profilo delle tutele economiche) e che solo di recente parrebbe aver trovato una sua “sistemazione”, sia pure con intenti “programmatici”, all’interno del c.d. “Statuto dei Lavoratori Autonomi” (legge 22 maggio 2017, n. 81).

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Cass. Civ., Sez. lav., 10 settembre 2018, n. 21965: Licenziamento – Giusta causa di recesso – Utilizzo di espressioni offensive – Chat privata o chiusa – Libertà di opinione – Segretezza della corrispondenza – Illegittimo.

 È illegittimo il licenziamento per giusta causa comminato al dipendente che abbia impiegato e diffuso espressioni sconvenienti contro il proprio datore di lavoro all’interno di una “chat privata” (c.d. “gruppo Facebook”) cui potevano accedere solo determinati partecipanti, in quanto i messaggi ivi scambiati non sono destinati ad uso esterno e, come tali, sono coperti da segretezza.

 Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava la legittimità, o no, del licenziamento irrogato ad un dipendente che, nell’ambito di una conversazione avvenuta all’interno di un c.d. “gruppo Facebook”, cui partecipavano altri dipendenti ed alcuni sindacalisti, aveva utilizzato alcune espressioni offensive all’indirizzo dell’amministratore della società datrice di lavoro ed additato quest’ultima di avere metodi “schiavisti”.

La vicenda, a quanto consta, trarrebbe origine dal fatto che una dipendente – partecipante al predetto “gruppo Facebook” – avrebbe riferito di essere stata “invitata” dall’amministratore della società a revocare la sua iscrizione a quel sindacato. Di qui la reazione del dipendente destinatario del licenziamento – partecipante anch’egli al predetto “gruppo Facebook” – che veniva fotografato da una “schermata” poi consegnata da un anonimo alla società stessa.

Il suddetto dipendente chiedeva al Giudice del Lavoro l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento, con ogni conseguenza di legge.

Il Primo Giudice rigettava le domande del lavoratore, ritenendo che il licenziamento de quo fosse legittimo.

La Corte d’Appello di Lecce riformava integralmente la sentenza di primo grado, sul presupposto che i) l’acquisizione della schermata “Facebook” da cui si sarebbe evinta l’incriminata conversazione sarebbe stata inidonea a costituire prova certa del comportamento addebitato al lavoratore e che ii) le espressioni sconvenienti utilizzate dal lavoratore avrebbero pur sempre costituito una forma di libertà d’opinione. La Corte di Cassazione confermava la pronuncia di secondo grado ritenendo, anzitutto, che la conversazione de qua era avvenuta all’interno di una “chat chiusa” o “privata” e tanto bastava per evincere la volontà dei partecipanti di non diffondere all’esterno le conversazioni ivi intrattenute. Ciò posto, qualora una comunicazione tra più persone avvenga in un ambito privato, cioè all’interno di una cerchia ben definita, ad essa si correda non solo un interesse contrario alla divulgazione dei fatti e delle notizie oggetto di comunicazione, ma anche l’esigenza di tutelare la segretezza della comunicazione stessa.

E non v’è dubbio, secondo i Giudici di legittimità, che i messaggi scambiati unicamente tra gli iscritti ad un determinato gruppo, o chat, debbano essere considerati inviolabili alla stregua della corrispondenza privata. Come pure non v’è dubbio, aggiungono i Giudici di legittimità, che il materiale acquisito da quei gruppi o chat sia inutilizzabile.

La sentenza conclude affermando che le espressioni impiegate dal lavoratore non integravano altro che un mero sfogo, come tale sprovvisto di qualsivoglia illiceità, anche in punto diffamazione, diversamente da quanto sostenuto dal datore di lavoro.

Il provvedimento de quo si inserisce in quel filone giurisprudenziale, piuttosto altalenante, relativo all’accertamento della fondatezza o meno di quei licenziamenti intimati per un uso scorretto delle nuove tecnologie di comunicazione, Facebook in primis.

All’interno di tale filone giurisprudenziale, è stato a volte ritenuto che la pubblicazione sui social network di una vignetta o commento satirico verso il datore di lavoro non costituisca ex se una condotta illecita, dovendosene valutare l’effettiva diffusione sul web (così Cass. Civ., Sez. Lav., 31 gennaio 2017, n. 2499), mentre altre volte l’analisi si è imperniata sull’idoneità, in astratto, del social network di raggiungere un numero indeterminato di persone (così Cass. Civ., Sez. Lav., 27 aprile 2018, n. 10280).

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Corte App. Caltanissetta, 26 luglio 2018, n. 183: Appalto di manodopera – Responsabilità solidale – Art. 29 d.lgs. n. 276/2003 – Indennità sostitutiva del preavviso – Obbligazione solidale del committente – Esclusione. 

Deve ritenersi che il regime di responsabilità solidale tra appaltatore e committente delineato dall’art. 29 del d.lgs. n. 276/2003 e ss. mm. ii. non si estenda sino a ricomprendere gli importi eventualmente dovuti a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, di modo che, in relazione a tali importi, non può essere ravvisata alcuna obbligazione solidale in capo al committente. 

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava la computabilità, oppure no, dell’importo da erogarsi a titolo di indennità sostitutiva del preavviso tra le somme per cui l’art. 29 del d.lgs. n. 276/2003 prevede un’obbligazione solidale in capo al committente.

Tale importo era stato rivendicato da un lavoratore in relazione ad alcune giornate di lavoro prestate in regime di appalto, unitamente alla retribuzione maturata – ma non corrisposta – nei mesi di gennaio e febbraio 2008 ed il Trattamento di Fine Rapporto (TFR). A sostegno di ciò, il lavoratore invocava il combinato disposto degli artt. 1676 Cod. Civ. e 29 del d.lgs. n. 276/2003.

Il Tribunale di Gela scomputava, con ordinanza, l’importo asseritamente dovuto a titolo di indennità sostitutiva del preavviso dalle domande formulate dal lavoratore a titolo di responsabilità solidale e si pronunciava, con sentenza, sulle restanti somme rivendicate, riconoscendone la debenza.

Il committente ricorreva in appello avverso tale sentenza, chiedendone l’integrale annullamento e/o la revoca. La Corte di merito, confermava, in sostanza, l’operato del Giudice di prime cure, rilevando per altro verso che l’indennità de qua ha natura risarcitoria, di modo che la stessa deve ritenersi sottratta al regime di cui all’art. 29 ult. cit. (nonché all’art. 1676 Cod. Civ.).

Sulla natura dell’indennità sostitutiva del preavviso in ipotesi di appalto si è espressa, di recente, la stessa Suprema Corte di Cassazione che, con un obiter dictum contenuto nella sentenza del 1° ottobre 2015, n. 19628, parrebbe lasciar intendere che la predetta indennità, diversamente da quanto sostenuto con il provvedimento in esame, abbia in realtà natura retributiva.

In quel caso, però, ogni discorso circa la natura dell’indennità sostitutiva cedeva a fronte del fatto che il lavoratore ricorrente non aveva dimostrato quale sarebbe stato il nesso causale tra il recesso – a fronte del quale sarebbe stata maturata l’indennità – e l’appalto dedotti in giudizio, di modo che non era chiaro come il regime di solidarietà si sarebbe esteso sino a ricomprendere la citata indennità sostitutiva.

È, peraltro, interessante rilevare che con la citata sentenza Cass. Civ. Sez. Lav., 1° ottobre 2015 n. 19628, il Supremo Collegio si era pronunziato proprio su un precedente della Corte d’Appello di Caltanissetta del tutto analogo a quello qui in commento. Sicché, pare possibile evincere che, per la Corte d’Appello di Caltanissetta, la natura risarcitoria dell’indennità sostitutiva del preavviso costituisca orientamento di merito costante.

* Avvocato, socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio (studiolegale@daverioflorio.com)

**Avvocato, Studio Legale Daverio & Florio

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