Sarà colpa della fuga dei cervelli?
di Maurizio Centra*
In macroeconomia con il termine prodotto interno loro (Pil) s’intende, come tutti sappiamo, la produzione totale di beni e servizi di un paese o di una regione in un determinato periodo di tempo, generalmente un anno, diminuita dei consumi intermedi ed aumentata delle imposte nette sui prodotti pagate dai consumatori (es. IVA). Semplificando, possiamo dire che il Pil corrisponda al valore complessivo dei beni e servizi prodotti dagli operatori economici attivi su un determinato territorio, anche non residenti, destinati al consumo finale, agli investimenti (pubblici e privati) nonché alle esportazioni, al netto delle importazioni. Il Pil è un misuratore economico ampiamente usato, ma non per questo è esente da critiche, ad esempio perché non ha correttivi etici, quindi aumenta anche se il paese produce armi letali o sostanze bandite dalla collettività internazionale, perché trascura il valore delle attività del settore no profit e del volontariato in genere ed inoltre perché non prende in considerazione il benessere della popolazione. Pur con i suoi limiti, il Pil è un indicatore affidabile dell’andamento economico di un paese, in quanto registra con buona approssimazione la crescita o la diminuzione del valore della produzione, sia in termini nominali sia in termini reali, ossia la netto delle variazioni dei prezzi dei beni prodotti.
Negli ultimi undici anni il Pil italiano ha avuto un andamento negativo, questo significa che il valore complessivo dei beni e servizi prodotti anno per anno è aumentato meno del necessario o è diminuito. Tenendo presente che secondo autorevoli economisti il Pil del nostro paese dovrebbe crescere almeno del 2% l’anno solo per conservare la posizione raggiunta dall’Italia tra le economie occidentali oltre che i livelli di benessere dei cittadini, il fatto che ciò non sia avvenuto fa capire che in questo periodo l’Italia nel complesso si è impoverita ed è stata distanziata dagli altri paesi dell’unione europea che hanno registrato performance migliori, come la Germania (vedi tabella seguente).
Analisi comparata dell’andamento del Pil (reale) in percentuale
Quando diminuisce la ricchezza prodotta in un paese, espressa – con tutti i suoi limiti – dal Pil, normalmente si riducono i redditi disponibili, i consumi, gli investimenti e le entrate tributarie, mentre aumenta la disoccupazione e la povertà. Come se non bastasse, quando ci sono difficoltà economiche generalizzate si sviluppano paure di ogni tipo, si teme il peggioramento delle condizioni di vita, diminuisce la natalità, non si programma a medio/lungo termine e si adottano comportamenti conservativi spesso immotivati. I giovani sono tra coloro che maggiormente subiscono gli effetti dei periodi di recessione economica o di crescita zero, dal momento che per loro si allungano i tempi di ingresso nel mondo del lavoro e si riducono le prospettive professionali, con conseguenti ricadute negative sullo stato d’animo e sulla credibilità nel Sistema Paese ai loro occhi.
É appena il caso di aggiungere che prima della crisi economica mondiale del 2008, che in realtà è iniziata negli Stati Uniti d’America nel 2007 con lo scoppio di una “bolla immobiliare” (c.d. crisi dei subprime) e si è poi estesa a tutto il mondo con effetti a catena sui mercati finanziari e delle materie prime, il Pil italiano aveva già rallentato la sua crescita, tanto che negli ultimi due anni che hanno preceduto la “grande crisi”, ossia il 2006 ed il 2007 il suo valore era meno della metà di quello tedesco.
A differenza di quanto è accaduto in Germania, l’Italia né prima né dopo la “grande crisi” ha fatto scelte di politica economica degne di questo nome, limitandosi a gestire le emergenze ed a rettificare alcune “variabili” ormai fuori controllo come la spesa pensionistica, non senza ostilità da parte di coloro che ne hanno subito le conseguenze immediate.
La diminuzione delle chance lavorative nel nostro paese, non solo per la crisi economica ma anche per l’innalzamento dell’età della pensione, ha aumentato la propensione dei giovani italiani a cercare occupazione all’estero, in questo supportati dalle famiglie d’origine che per loro in Italia prevedono solo voucher e lavori precari per molti anni. Se è vero che la fiducia nel futuro non si può somministrare come un farmaco, è altrettanto vero che alcune considerazioni sullo stato del Paese e sulle sue prospettive di sviluppo andrebbero fatte con ponderazione, prima di convincersi che “in Italia non c’è futuro”.
I social media e gli altri strumenti che utilizzano internet per creare contatti e favorire la comunicazione tra le persone hanno ridotto le distanze, non nel senso geografico ovviamente, tra Roma e Parigi intercorrono sempre 1.500 chilometri circa, ma in senso sociale. Oggi per un italiano è più facile di quanto fosse anche solo pochi anni fa trovare un lavoro ad Amsterdam e trasferirsi lì per alcuni mesi in attesa di un diverso impiego a Bruxelles. Questo è sicuramente un fatto positivo e più le persone circolano tra i paesi dell’Unione Europea, meglio se per lavorare o studiare (vedi il programma di istruzione Erasmus), più sarà facile costruire il cittadino europeo!
Quello che non tutti sanno è il fatto che i neo laureati italiani sono ricercati proprio nei paesi europei concorrenti del nostro sui mercati internazionali. In pratica, Gran Bretagna, Germania, Francia e Spagna sono, in ambito continentale, le principali mete lavorative dei nostri figli e nipoti quando decidono di lasciare l’Italia. La prima considerazione che ne scaturisce è che, probabilmente, il tanto vituperato sistema di istruzione italiano non é poi tanto male se imprese straniere di prim’ordine rivolgono ai nostri concittadini le loro attenzioni. Ci sono ad esempio degli studi di ingegneria ed architettura inglesi e francesi che selezionano i potenziali collaboratori prima ancora della laurea, spesso durante il soggiorno nel loro paese per le iniziative Erasmus.
La Germania vanta un sistema di istruzione all’avanguardia, eppure le sue imprese automobilistiche assumono sistematicamente ingegneri e designer italiani e quando le assunzioni non sono sufficienti a disporre di talune competenze, stipulano accordi di collaborazione con società, studi di ingegneria o imprese italiane, che spesso sono il preludio a rapporti più stretti che sfociano nell’acquisizione. Ma la Germania ha un Pil più che doppio di quello dell’Italia e questo, tra l’altro, ha consentito al paese di contenere la pressione tributaria e la disoccupazione entro limiti fisiologici ed alle sue imprese di ottimizzare l’impiego dei fattori produttivi, ad esempio de-localizzando le attività a minor valore aggiunto ed acquisendo risorse umane e know how là dove si trovano!
Nonostante le difficoltà economiche e sociali che sta vivendo, l’Italia dunque aiuta concretamente gli altri paesi europei mettendo loro a disposizione risorse umane formate in modo più che sufficiente ed a basso costo, anche perché accade sovente che i nostri neo laureati siano pagati all’estero meno dei loro analoghi colleghi locali e che l’assunzione sia preceduta da un periodo di stage (3/6 mesi) che prevede solo un rimborso spese. Ma si sa i giovani e le loro famiglie sono disposti a fare dei sacrifici per trovare lavoro all’estero sempre perché “in Italia non c’è futuro”.
L’Italia è un paese dalle mille risorse, che ha bisogno di alcuni interventi di “manutenzione straordinaria” per mettere in sicurezza il suo straordinario territorio, tutelare l’immenso patrimonio artistico ed architettonico che possiede, garantire la legalità, far ripartire l’economia e far crescere l’occupazione. In effetti recentemente qualcosa si è iniziato a fare e tra gli interventi di cui si avvertiva la necessità c’è stata la riforma del lavoro del 2015 (Jobs act), che non è perfetta e probabilmente non sarà neppure l’ultima, ma che ha dato maggiore certezza agli operatori e riportato il rapporto di lavoro a tempo indeterminato al “centro della scena”, sebbene con maggiori possibilità di recesso rispetto al passato. Anche se la crisi economica del paese non è ancora terminata, la riforma del lavoro del 2015 ed i provvedimenti collaterali, come la riduzione dei contributi dovuti dal datore di lavoro per i neo assunti disoccupati da almeno sei mesi, hanno già dato risultati apprezzabili, come dimostra la riduzione del tasso di disoccupazione dal 13% del primo trimestre 2015 al 12,1% del primo trimestre 2016 (fonte Istat).
Far ripartire l’economia rappresenta indubbiamente la sfida più impegnativa per il nostro paese ed è anche quella che deve essere vinta ad ogni costo, perché la ripresa economica determina l’aumento del Pil e quindi una serie di effetti positivi a “catena” come l’aumento dell’occupazione, dei consumi e degli investimenti. Anche le entrate tributare crescono con l’aumento del Pil e, di conseguenza, il Governo può fare scelte di politica economica realmente efficaci, realizzare le grandi infrastrutture di cui ha bisogno il paese ed anche ridurre la pressione tributaria. Nell’attesa che gli interventi di “manutenzione straordinaria” si realizzino, ci sono interi settori del nostro paese che si sono già conquistati una notevole credibilità internazionale e producono reddito, grazie a soluzioni innovative frutto di studi e ricerche di cui non si parla frequentemente. Basti pensare alle ricadute economiche del lavoro di biologi e ricercatori italiani che da anni si confrontano con successo con i loro colleghi che operano in paesi molto più ricchi del nostro. Non è un caso se il primato mondiale nell’utilizzo delle cellule staminali nel sangue risale al 1992 e spetta ad un gruppo di ricercatori del San Raffaele di Milano e se, grazie proprio a quell’esperienza, 24 anni dopo la Commissione europea ha autorizzato il primo farmaco per la terapia genetica ex vivo. Sempre al San Raffaele, con il sostegno della Fondazione Telethon, le ricerche hanno portato ad una terapia genetica per la cura della patologia Ada-Scid, che priva quasi del tutto delle difese immunitarie i bambini colpiti. Sebbene i diritti di sfruttamento del risultato della ricerca siano stati ceduti ad un gruppo inglese, il prodotto che ne è derivato sarà realizzato da una società italiana di biotecnologie mediche con sede a Milano, proprio all’interno del Parco scientifico biomedico San Raffaele. Questo è uno dei tanti esempi di un paese vitale ed in grado di contribuire al progresso scientifico. Restando nell’ambito della biologia, un’altro centro di eccellenza è rappresentato dall’Università di Roma Tor Vergata, che ha condotto ricerche all’avanguardia e raggiunto accordi con importanti imprese internazionali, alle quali fornisce assistenza nell’attività di ricerca per l’innovazione dei prodotti. Tra queste imprese figura anche il leader mondiale della genomica, che ha assunto a tempo indeterminato otto biologi per affiancarli ai ricercatori universitari. Ma le iniziative dell’Università romana non finiscono qui, altre sono in cantiere nel campo della bioinformatica, per la gestione dei big data in biologia, e quanto é importante il connubio tra biologia ed informatica lo si può intuire dalle dimensioni del genoma umano, che è composto di tre miliardi di lettere del codice del Dna. Ebbene le prime cattedre di bioinformatica sono nate in Italia e stanno già formando gli specialisti del futuro, ossia coloro che sono in grado di leggere il Dna e stabilire se c’è o meno un rischio per la salute. Ma anche una delle principali imprese biofarmaceutiche quotate al Nasdaq, la Intercept, è nata grazie a progetti ed investimenti italiani ed oggi ha raggiunto una capitalizzazione di 3,7 miliardi di dollari. Si potrebbe continuare ricordando che dall’incontro tra il mondo accademico e quello degli affari sono nate, con il sistema dello spin off, tante imprese innovative nei più svariati settori, che hanno concretizzato le idee nate nei laboratori di ricerca o nei dipartimenti delle più prestigiose università italiane. Le imprese di questo tipo in attività nel mese di maggio 2016 in tutt’Italia ammontano a 1.278, di cui 300 operano nel settore dell’information technology, 216 nel settore dell’energia e 202 nel settore dell’automazione industriale. A tutto ciò si aggiunga che, dopo anni di “latitanza”, alcuni grandi gruppi internazionali hanno ripreso ad investire in Italia, la Cisco, ad esempio, dopo l’esperienza positiva fatta all’Expo di Milano, ha deciso di investire 100 milioni di euro in Italia con conseguenti ricadute occupazionali, puntando sul potenziale di crescita del mercato digitale e dell’internet delle cose (Iot) nel nostro paese.
La fuga dei cervelli, come è stata impropriamente chiamata la necessità di molti laureati italiani (non solo neo) di cercare all’estero una degna occupazione, è un fenomeno destinato a ridursi in modo spontaneo se saremo in grado di avviare processi di crescita reale dell’economia nazionale (quindi del Pil), supportati da iniziative concrete sui fronti della legalità e della riduzione della spesa pubblica. Nel contempo, ai giovani di oggi si potrebbe suggerire di studiare anche la storia minore del nostro paese, della quale sono stati artefici i loro nonni e/o bisnonni, che ha visto intere generazioni affrontare e superare sfide che sembravano impossibili, contando quasi solo sul loro entusiasmo e lo spirito di gruppo. Ed a quelli che dovessero optare per un’iniziativa imprenditoriale o professionale nel nostro paese, ricordiamo che dall’ultimo rapporto annuale dell’Istat è emerso che le piccole imprese con titolari giovani creano più posti di lavoro, infatti nell’ultimo anno la performance occupazionale delle microimprese guidate da imprenditori sotto i 30 anni di età è stata migliore di quella delle imprese gestite da persone di età superiore.
*ODCEC Roma
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