Benessere organizzativo: la felicità in azienda

di Simone Romano* 

Parlare di felicità in azienda non è un azzardo né una provocazione, ma per poterlo fare con rigore scientifico occorre partire dal concetto di benessere organizzativo. A tal fine abbiamo coinvolto il dott. Gerardo Petruzziello, Psicologo professionista, oggi borsista all’Università di Bologna presso il gruppo di ricerca di Psicologia del Lavoro nel Dipartimento di Scienze dell’educazione, che abbiamo coinvolto nel seguente confronto, sotto forma di intervista.

Di cosa ci parli oggi?

Vi parlerò di benessere organizzativo, di qualità della vita delle persone e del loro funzionamento al lavoro. Diciamo subito che rispetto al benessere organizzativo non esiste un costrutto unico, bensì è l’espressione di più variabili/fattori che determinano una condizione del vivere della persona al lavoro, che ha sempre delle implicazioni nella vita privata.

Cosa vuol dire in particolare benessere organizzativo?

Il benessere organizzativo è oggi più che mai visto come l’insieme di tutte le attività e azioni che un datore di lavoro può intraprendere per migliorare l’esperienza lavorativa del suo personale.

Quali sono i fattori che possono influenzare il benessere organizzativo?

Sono molteplici, e concorrono in questa cosa tutti gli aspetti della vita lavorativa di un individuo. Prendendo ad esempio un modello teorico possiamo far riferimento a quello di Kirkpatrick di domande e risorse, che si basa sul presupposto secondo cui ogni fattore può essere di rischio o motivante per le persone. Tale modello riprende un po’ tutte le teorizzazioni più classiche su questo tema e le riporta in un quadro dunque completo e da cui poter partire per rintracciare gli elementi che determinano la condizione o meno di benessere all’interno dell’organizzazione lavorativa. Ad oggi l’orientamento è passato dal prevenire/ curare un disagio che emerge a seguito di una condizione negativa, ad esempio il burn out, al creare condizioni motivanti che possano portare le persone ad investire nel proprio lavoro. Lo stesso modello presenta le risorse come quei fattori che portano le persone a provare un senso di motivazione e coinvolgimento verso il proprio lavoro, chiamato engagement. Uno stato mentale positivo in cui le persone sentono una maggiore soddisfazione, che li porta a identificarsi con i valori della propria azienda – commitment – e che risultano “prese” dal loro lavoro, ovviamente con valenza positiva.

Come voi approcciate all’azienda per portare i vostri servizi?

Il primo approccio è fondamentale, da subito è necessario far passare l’importanza di avere persone che “stanno bene”, motivate. Essendo noi un team di ricerca presentiamo le nostre evidenze scientifiche attraverso studi e risultati dei nostri precedenti interventi, ad esempio sottolineando l’effetto della motivazione del dipendente sulla performance del lavoratore. Secondo aspetto fondamentale è far comprendere che gli interventi a favore del benessere organizzativo debbano essere un elemento fondamentale da curare, allo stesso modo di quelli che sono gli interventi a favore di soluzioni tecnologiche/strutturali/ economiche. Il primo passo per entrare in contatto con l’azienda è la proposta di adeguarsi alla norma che regola la valutazione sullo stress-lavoro correlato (decreto legislativo n. 81/2008), un primo aggancio per far entrare le persone in dinamiche positive di benessere organizzativo. Altro aspetto fondamentale è lavorare insieme al committente per far in modo che questi non siano solo interventi spot, bensì che sia necessario strutturare un ciclo di interventi sistematici che determinano una condizione di benessere organizzativo, un presidio costante sulla qualità della vita all’interno del proprio contesto lavorativo per vedere risultati concreti.

Da cosa dipende l’emergere dei fattori di rischio?

Chiaramente dipendono da una serie di variabili, oggi le attività lavorative sono liquide, dinamiche. Per esempio lo scarso coinvolgimento dei dipendenti in attività di formazione può portare a situazioni in cui un lavoratore può sentirsi poco competente tecnicamente a seguito di processi di cambiamento/innovazione (anche tecnologica), perdendo, di conseguenza, in motivazione e facendo emergere più facilmente aspetti che determinano un disagio al lavoro. Il mondo del lavoro cambia molto velocemente, anche l’ingresso di un nuovo software, l’uscita dall’azienda di un elemento importante della società e molti altri aspetti possono determinare l’insorgenza prima di stress, malessere, fino alle condizioni più gravi che possono portare ad alto turnover aziendale, burn out, workaholism, etc.

Facciamo un esempio, io sono un datore di lavoro e, incuriosito dai vostri servizi, vorrei fare un intervento di tipo esplorativo, come posso muovermi?

Il primo passo, una volta contattati i consulenti, sarà quello di costituire un gruppo di ricerca composto dal datore di lavoro o un suo rappresentante, il responsabile del servizio prevenzione e protezione (Rspp), i responsabili aziendali che, per funzioni o incarico, sono a diretto contatto con i lavoratori (es. capi reparto, responsabili HR, responsabili di stabilimento, etc.), i rappresentanti sindacali aziendali, ove esistenti, e gli esperti esterni. Una volta strutturato il gruppo si definiscono programma e strategia da seguire. Come professionisti possiamo proporre una serie di strumenti per le fasi di analisi, a seconda degli obiettivi del gruppo. Gli aspetti da tenere in considerazione sono anche i costi e di conseguenza i relativi strumenti da utilizzare. In fase di analisi ci si affida a questionari, focus group, procedure di assessment, in fase di intervento la formazione e altri che vedremo in seguito. Trasversalmente al percorso e ai costi è importante riuscire a lavorare, inoltre, su tempistiche più strette che permettano di avere dei risultati più rapidamente ed intervenire, poi, con efficacia sui disagi qualora emergessero.

Quindi quali sono gli strumenti per diagnosticare, in fase di analisi, gli aspetti che portano ad una condizione di disagio all’interno della mia azienda?

È necessario definire cosa si vuole cercare. Il committente, chiaramente, ha qualche indizio che lo spinge a contattare gli esperti esterni. È possibile avvalersi di test standardizzati – prodotti da processi di validazioni scientifiche che hanno un costo maggiore, una maggiore affidabilità e possono essere somministrati da uno psicologo – o di test costruiti ad hoc dal gruppo di ricerca – più economici, creati partendo dalla letteratura scientifica in merito alle modalità di analisi dei fattori che vogliamo indagare – a seconda di ciò che può essere più efficace per il contesto aziendale da analizzare, dalle risorse economiche che il committente intende investire e dalle tempistiche a disposizione per strutturare e fare l’intero intervento. Tra i test standardizzati (in lingua italiana) possiamo citare il MDoq10, che indaga 10 aspetti del contesto organizzativo dalle relazioni ai compiti, il Job Content Questionnaire, che si basa sul modello di Karasek, il QUBO, composto di 180 item, che misura i fattori di rischio (carico di lavoro, chiarezza dei compiti, comunicazione organizzativa, ruoli, cultura, engagement, burn out etc.), ognuno dei quali può mettere in risalto indici/ fattori diversi che condizionano il benessere organizzativo. La scelta su quale strumento utilizzare dipende da ciò che vogliamo misurare ed “eliminare”. Una volta fatta l’analisi di tipo quantitativo grazie all’uso di tali strumenti si può tuttavia creare una situazione in cui i risultati non ci raccontano la vera causa. Per esempio: una volta fatto un questionario notiamo come assenteismo e turnover hanno dei parametri positivi, tuttavia si manifesta ancora una situazione di disagio al lavoro nel reparto in cui tali indici sono bassi, aspetto che può significare come persone demotivate, stressate, poco coinvolte nella propria professione pur di non perdere il lavoro continuano a restare in una situazione di disagio, elemento che però non rispecchia né una situazione positiva, né la reale condizione di salute dell’azienda.

Può non bastare avere dei dati quantitativi per far emergere le reali cause: cosa posso fare per andare oltre il “visibile”?

Per indagare le cause dello scarso benessere organizzativo le analisi quantitative possono non bastare e in tali casi sarebbe opportuno ascoltare e raccogliere le esperienze delle persone, anche attraverso focus group, che permetteno di apprendere dalle vive parole delle persone coinvolte quali sono i fattori più critici. Il rischio da gestire è che il gruppo di persone prenda l’occasione per “dirne di ogni” per cui è importante creare un filo conduttore, facendo passare il messaggio che l’obiettivo è migliorare le condizioni all’interno dell’organizzazione (non si cercano colpevoli o colpe ma le cause del disagio). Questa tecnica permette di creare una maggiore consapevolezza all’interno del gruppo, delle motivazioni e degli obiettivi che, insieme, si vogliono raggiungere, riuscendo – quando utilizzata da esperti – a superare quelle resistenze al cambiamento, al nuovo che caratterizzano qualsiasi forma di azione che mina lo status quo di un’organizzazione. Dunque risulta fondamentale far sì che le persone conoscano ciò che fanno, il perché e lo condividano realmente con tutti gli attori in causa. Questa azione permette di spezzare le resistenze e di agire in maniera trasparente ed orientata allo scopo per cui tutti insieme investono tempo, risorse mentali ed economiche.

Una volta fatta l’analisi qualitativa, insieme ai risultati della prima parte di analisi quantitativa, il committente come si muove di conseguenza?

Il primo passo è presentare i risultati della fase di analisi, cercando di coinvolgere non solo il committente, bensì tutto il personale. Lo richiedono i lavoratori ed è direttamente collegato al loro coinvolgimento nell’intervento a cui prendono parte. Fatto ciò, gli esperti propongono gli interventi ritenuti più efficaci per migliorare la condizione di benessere nell’organizzazione. Se, ad esempio, è necessario intervenire sul bagaglio di competenze di un lavoratore o di un gruppo, si promuovono azioni di formazione, hard per quel che concerne sviluppare la percezione della persona di sentirsi efficace ad esempio nell’utilizzo di strumenti tecnici etc., ovvero soft laddove l’aspetto da migliorare può essere, ad esempio, il lavoro di gruppo, la comunicazione intra/inter aziendale. Questi interventi sono chiamati costruzione delle risorse, perché permettono alle persone di bilanciare le richieste del contesto. Se, ad esempio, è necessario intervenire sul contenuto del lavoro (pensiamo al caso in cui un lavoratore/reparto lamenta un carico di lavoro cognitivo eccessivo), possono essere utili azioni di job redesign, ossia di ristrutturazione delle pratiche al fine di rendere la condizione del lavoratore – e la performance che ne deriva – maggiormente efficiente sia dal punto di vista della salute del dipendente sia della sua soddisfazione. In tali casi è fondamentale la collaborazione con altre figure specialistiche, che affianchino il gruppo di ricerca nell’intervento. Se ad esempio il fattore di rischio è rappresentato da una confusione di ruoli, come nel caso in cui ad un dipendente arrivino più richieste contrastanti da figure più apicali, può essere utile un intervento sull’organigramma per rivedere le funzioni, evitando di creare processi e procedure inefficienti che minano l’integrità dell’organizzazione. Le soluzioni sono molteplici, per questo occorre fare molta attenzione alle caratteristiche esplicite e implicite di ogni professione coinvolta dall’intervento, al fine di non trascurare aspetti che possano far sorgere nuovi/ diversi fattori di rischio.

Come posso misurare le conseguenze, l’impatto e i risultati di tale intervento? Quali sono le tempistiche?

La scelta degli indici rispecchia l’obiettivo iniziale, se si cerca di migliorare la performance lavorativa si dovrà valutare tale fattore dopo un periodo che può variare da pochi giorni ad alcuni mesi dopo la fine dell’intervento, attraverso indici, numeri (pratiche evase, pezzi prodotti, tempi di produzione etc.) o come comportamenti “agiti”. È un po’ come ripetere la diagnosi fatta in fase di analisi e rimisurarla per capire se è cambiato qualcosa e come.

Come si “lascia” il committente alla fine di tale intervento?

Il senso della costruzione del benessere organizzativo è che il consulente e il committente creino un rapporto di gestione di tali aspetti aziendali in maniera ciclica e continua, riuscendo così ad anticipare eventuali situazioni critiche creando un modello sistematico di valutazione e intervento per promuovere e sviluppare il benessere organizzativo.

* Dottore in psicologia delle organizzazioni e dei servizi

 

 

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