La libertà non teme le regole, neppure negli scambi internazionali

di Paolo Soro* 

Tra le prime iniziative del nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America (USA), Donald John Trump, molte sono rivolte alla tutela degli interessi economici del suo Paese in ambito internazionale.Di recente, i media di tutto il mondo hanno dato notizia della decisione di Trump in merito al ritiro degli USA dal Trans Pacific Partnership (TPP), ossia dall’accordo sottoscritto nel 2015 che non è stato mai ratificato, né dal Congresso USA né dagli altri governi firmatari. Ragion per cui, Trump, con tale decisione, ha assecondato la reale volontà del Congresso USA e, nel contempo, proseguito l’azione di “smantellamento” del lavoro del suo predecessore (Barack Obama). Senonché, complice forse la cattiva conoscenza dell’inglese della nostra classe politica e anche di alcuni giornalisti, il messaggio che è arrivato all’opinione pubblica italiana è stato quello della rinuncia di Trump al partenariato transatlantico tra USA e Unione Europea (EU), afferente il ben differente TTIP. In realtà, il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) e il Trans Pacific Partnership (TPP) hanno in comune solo una cosa: il fatto che sono entrambi due accordi di collaborazione (partnership) concernenti gli scambi commerciali internazionali.

Con la sigla TTIP, si intende riferirsi al Trattato Transatlantico per il Commercio e gli Investimenti tra gli Stati Uniti e l’Unione Europea. Si tratta di un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziazione che, nelle lodevoli intenzioni indicate nel portale Web dell’UE, avrebbe i seguenti obiettivi:

(i) un migliore accesso al mercato statunitense – l’UE mira a ridurre o eliminare i dazi doganali agli Stati Uniti, il che comporterà grandi risparmi per i consumatori e le imprese in Europa. Il TTIP, inoltre, agevolerà le imprese europee, in particolare quelle più piccole, che si ritrovano di fronte a norme complicate quando intendono esportare;

(ii) lavorare insieme per ridurre la burocrazia e i costi – l’UE e gli USA condividono spesso livelli di sicurezza e di qualità, a esempio per quanto riguarda le automobili, l’ingegneria, i dispositivi medici, etc., mentre procedure tecniche diverse possono rivelarsi costose, soprattutto per le imprese più piccole. Una più stretta collaborazione tra le autorità di regolamentazione agevolerebbe il commercio, mantenendo al contempo i rigorosi livelli di tutela dell’UE per i cittadini e per l’ambiente. Incoraggiare le autorità di regolamentazione a condividere le loro competenze aiuterebbe inoltre ad affrontare le nuove sfide sul piano della regolamentazione in settori quali le automobili elettriche o le nanotecnologie;

(iii) rendere le esportazioni, le importazioni e gli investimenti equi e semplici – questo accordo sarà il più avanzato di sempre per quanto riguarda le norme per la protezione dell’ambiente e quelle sul lavoro. L’UE intende cooperare con gli Stati Uniti su queste importanti questioni globali, mettere in comune la nostra influenza sulla scena internazionale, e indurre altri ad agire responsabilmente lungo le intere catene internazionali di produzione. 

A parte il fatto che non si riesce a comprendere bene come tanti auspicati vantaggi potrebbero riferirsi alle piccole e medie imprese (PMI) piuttosto che alle grandi imprese (specie internazionali), si tratterebbe in ogni caso di traguardi davvero pregevoli, tanto da apparire difficili da raggiungere, posto che in proposito non si riesce a trovare pieno accordo tra i Paesi dell’Unione Europea. Oltre tutto a livello fiscale gli USA hanno ampiamente dimostrato di non volere ratificare il modello convenzionale dell’Organizzazione per la cooperazione e per lo sviluppo economico (OCSE), pretendono il rispetto del Foreign Account Tax Compliance Act (FATCA) e non aderiscono al Common Reporting Standard (CRS), che costituisce lo standard OCSE per lo scambio automatico tra le Autorità Fiscali dei Paesi aderenti (attualmente oltre 90) di informazioni fornite dalle Istituzioni Finanziarie; sistema – da esempio – che è attivo in Italia dal 1 gennaio 2016.

Si tenga inoltre presente che i Paesi dell’UE hanno già adottato le normative dell’ONU in materia di lavoro (ILO – International Labour Organization), mentre gli USA hanno ratificato solo due delle otto norme fondamentali. Quindi si rischierebbe di minacciare i diritti fondamentali dei lavoratori. L’eliminazione delle barriere che frenano i flussi di merci renderebbe più facile per le imprese scegliere dove localizzare la produzione in funzione dei costi. Alla faccia di qualsivoglia Nexus Approach raccomandato dall’OCSE nel noto Piano BEPS. L’agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non fosse più protetta dai dazi doganali, soprattutto se venisse dato il via libera alle colture OGM (organismi geneticamente modificati). Il trattato potrebbe avere conseguenze negative non solo per le imprese di minori dimensioni, ma per tutte quelle che già ora non sono in grado di competere con le multinazionali. Potrebbero esserci anche rischi per i consumatori, posto che i principi su cui sono basate le leggi europee sono diversi da quelli degli USA, sia in tema di sicurezza alimentare sia di policy farmacologica.

I negoziati del TTIP sono, poi, orientati alla privatizzazione di tutti i servizi pubblici, in base ad un’ardita interpretazione del neo liberismo di matrice statunitense, ma la storia – anche recente – ci ha insegnato che la privatizzazione incondizionata è deleteria per qualunque economia e, a conti fatti, non arreca neppure alcun miglioramento concreto alla qualità dei beni e dei servizi offerti ai cittadini e alle imprese. Tralasciamo ogni considerazione sul discorso Internet perché imporrebbe un allargamento del ragionamento ben oltre i limiti di una riflessione di matrice economica.

Ora, presumere la riuscita di un accordo “transatlantico” su queste basi sembra quasi utopistico. In ogni caso, le lodevoli intenzioni della UE sono state ben presto contraddette dagli atti negoziali, con la previsione di una policy tesa a favorire le lobby internazionali, a creare problematiche di dumping sociale, a eludere le principali regole interne in materia di sicurezza, di salute pubblica, di lavoro e di protezione ambientale. D’altronde, il fatto che l’artefice e maggiore sostenitore del trattato sia stato l’ex Presidente USA Obama, che i benefici del TTIP siano stati illustrati da un’azienda di ricerca finanziata dalle principali banche mondiali e che tutte le riunioni per concordarne il contenuto siano sempre state tenute rigorosamente “riservate” sono apparsi elementi critici, se non addirittura negativi, sui reali obiettivi del TTIP. Quando, poi, hanno incominciato a circolare i primi documenti, si sono evidenziate delle inconcepibili anomalie, tra cui, di certo la più macroscopica resta la progettata istituzione dell’ISDS (Investor State Dispute Settlement). Il documento consentirebbe alle imprese UE o USA di citare gli opposti governi, qualora questi introducessero democraticamente normative importanti per i propri cittadini, le quali andassero a ledere i loro interessi passati, presenti e futuri. Dette controversie inoltre non sarebbero giudicate da un qualche Tribunale sovranazionale, ma verrebbero affidate a una triade di arbitri privati, i quali deciderebbero senza formalità di rito, in forma inappellabile e in segreto.

A questo punto ci resta da capire che cos’è invece il Trans Pacific Partnership (TPP). Ebbene, il TPP è uno dei più grandi accordi commerciali mai sottoscritti a livello internazionale, firmato da dodici Paesi: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti d’America. La firma di questo trattato è stata considerata il fulcro della strategia di Barack Obama in Asia, orientata a rafforzare i rapporti commerciali con il Giappone, per contrastare l’espansione economica della Cina; la quale, infatti, risulta essere stata la grande assente tra i firmatari.

L’oggetto del TPP non si discosta da quello del predetto TTIP, questo è l’unico elemento in comune, e i Paesi che lo hanno sottoscritto volevano dare vita a un nuovo blocco economico nel Pacifico, attraverso la riduzione delle tariffe doganali. L’accordo prevedeva che cambiassero le regole sullo scambio di beni e servizi, i prezzi dei generi alimentari, il costo delle cure ospedaliere e gli standard per lo scambio dei dati. Il TPP avrebbe dovuto inoltre introdurre nuove regole sugli investimenti, sull’ambiente e sul lavoro. Nel complesso sarebbero state interessate più di diciottomila tariffe doganali. Perché, allora, nonostante cotante pregevoli intenzioni, il TPP non ha avuto effettiva attuazione? Andando a leggere le notizie concernenti il TPP, emerge che le trattative sul libero scambio sono state contestate perché condotte in segreto (sic), che l’accordo sia un po’ troppo di “manica larga” nei confronti dei grossi gruppi multinazionali, che il risultato delle intese ipotizzate si risolva in pratica in una regolamentazione fortemente “gratificante” per le lobby finanziarie e che il TPP permetterebbe alle aziende straniere di mettere in discussione le decisioni dei governi locali, chiedendo il giudizio di commissioni di arbitrato internazionale composte da professionisti privati, e la cui trattazione non sarebbe mai aperta al pubblico. Insomma, si ripete lo schema del TTIP anche nel TPP; certo, a parte il fatto che restano due accordi differenti e che concernono nazioni diverse. Tornando proprio alla confusione dettata dalla somiglianza delle due suddette sigle, a seguito della menzionata “storica” decisione di Trump, i commenti dei nostri acculturati politici non si sono fatti attendere, così non ci hanno risparmiato improvvide e improbabili considerazioni, il cui scopo è apparso chiaro: portare l’acqua al proprio mulino!

Per dovere di cronaca rileviamo che, contrariamente a qualsivoglia generalizzata propaganda politica, nonostante il TTIP continui a fare bella mostra di sé nel sito istituzionale della Commissione UE, la minaccia appare al momento scongiurata: Stati Uniti e UE non si sono accordati neanche su un singolo punto dei ventisette che sono in fase di discussione. Il Ministro dell’Economia e vicecancelliere della Germania, Sigmar Gabriel, già l’anno scorso, ha detto che i negoziati tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti sul TTIP, “sono di fatto falliti, anche se nessuno lo ammette” e, a maggior ragione oggi, dopo la decisione di Trump relativa al TPP, è difficile ipotizzare differenti scenari. Ciò con buona pace di coloro che rivendicano un non meglio individuato diritto alla “liberalizzazione” commerciale internazionale, che tale potrà esistere solo fino a quando permarranno precisi regolamenti, proprio a garanzia di tutti i cittadini e di ogni impresa (anche quelle micro, piccole e medie). Mai il termine “liberalizzazione” è stato usato in modo meno corretto, perché le regole sono indispensabili proprio per assicurare la Libertà (che è vera Libertà, solamente se è usufruibile da chiunque, nessuno escluso). Imporre delle normative corrette, è indubbiamente l’unico modo per far sì che ciascuno possa godere di quella libera iniziativa economica privata, ben tutelata – ad esempio – dall’art. 41 della nostra bistrattata Costituzione. Viceversa, eliminare del tutto vincoli e barriere (in una parola: le regole), nel nome di un falso diritto al libero scambio internazionale, comporterebbe solo facilitazioni per i più forti, con la conseguenza di ampliarne l’azione di prevaricazione sui più deboli, al di là delle buone intenzioni di molti, ma non di tutti.

* Odcec Roma

 

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