La nuova disciplina delle mansioni

di Gaetano Giannì*

Il contesto normativo ante d.lgs. 81/2015 

L’art. 3 del d.lgs. 81/2015, emesso nell’ambito della vasta legislazione delegata denominata jobs act, ha attuato una profonda innovazione nella dinamica dei rapporti di lavoro.

Da oltre quarant’anni, da quando cioè l’art. 13 della legge 300 del 1970 (Statuto dei lavoratori) modificando l’art. 2103 del codice civile, aveva delineato l’attuale fisionomia della disciplina delle mansioni, non erano più intervenuti mutamenti sostanziali nella disciplina delle mansioni che il datore poteva esigere dal prestatore di lavoro. La normativa sulle mansioni, in tutto questo tempo, è stata ispirata al criterio della mono professionalità, e predisposta a salvaguardia della tutela del bagaglio professionale del lavoratore. In un sistema produttivo meno complesso di quello odierno, la carriera si sviluppava verticalmente, nell’ambito possibilmente della stessa unità organizzativa di assunzione. La rigidità della tutela era rafforzata dalla previsione dell’ultimo comma dell’art. 2103 del codice civile, che sanzionava con la nullità ogni patto contrario, per cui nemmeno con l’accordo tra datore e prestatore, ancor- ché sottoscritto in sede sindacale, era possibile impiegare il lavoratore in mansioni inferiori a quelle previste dal contratto di lavoro, ovvero successivamente acquisite. Lo spazio di esercizio dello ius variandi risultava molto ridotto. Il datore di lavoro poteva assegnare il lavoratore a mansioni diverse, ma doveva rispettare il requisito della “equivalenza”, che la giurisprudenza ha sempre interpretato come necessità di mantenere, se non accrescere, il “contenuto professionale” delle dell’attività svolta dal lavoratore. Solo a tale condizione il datore di lavoro poteva legittimamente assegnare nuove mansioni al lavoratore, allorché queste richiedessero un contenuto o un profilo professionale almeno equivalente a quello esistente prima della variazione. Solo di recente, con il consolidamento della elaborazione giurisprudenziale della conservazione del posto di lavoro quale bene supremo del lavoratore, e correlativamente del licenziamento come provvedimento da adottare come extrema ratio, è stato reso lecito il cd. patto di demansionamento, ossia quell’accordo tra datore e lavoratore avente ad oggetto l’assegnazione a mansioni di contenuto professionale inferiore. La validità di tale patto era tuttavia subordinata alla sussistenza di un concreto pericolo per il lavoratore di perdere il posto di lavoro, per crisi aziendale o soppressione della posizione lavorativa, o per problemi riguardanti l’idoneità fisica necessaria allo svolgimento delle proprie mansioni. Semplificando, si può dire che in tale assetto normativo la variazione orizzontale delle mansioni del lavoratore era fortemente limitata, ed ancorata al rispetto del bagaglio professionale del lavoratore, mentre quella verso il basso era del tutto interdetta al potere unilaterale del datore di lavoro; l’assegnazione legittima a mansioni inferiori poteva pattuirsi, in via del tutto eccezionale ed in deroga al divieto assoluto previsto dall’ultimo comma dell’art. 2113 del codice civile, solo in caso di comprovato rischio di perdita del posto di lavoro.

Ma il mantenimento di un apparato di tutele così rigido non era più compatibile con le esigenze di competitività e di dinamicità del modello produttivo imprenditoriale odierno.

Formulazione e tecnica normativa

Si è voluto dare uno sguardo alla disciplina delle mansioni vigente fino all’approvazione del d.lgs. 81/2015, ben nota agli operatori del settore, per rimarcare le notevoli differenze che il nuovo ordinamento introduce nella materia. Prima di esaminare nel dettaglio le novità recate dal decreto legislativo in parola, sia consentito manifestare un apprezzamento per la tecnica legislativa messa in campo dal legislatore delegato. Il d.lgs. 81/2015, così pure come il precedente d.lgs. 23/2015, sul contratto a tutele crescenti, sono stati scritti utilizzando notevoli criteri di semplificazione. Tutte le norme modificate sono state riscritte, anche quando le modifiche riguardavano solo una minima parte delle norme modificate. Inoltre, nella riscrittura delle norme il legislatore ha cercato di utilizzare un linguaggio semplice, chiaro, senza tuttavia concedere nulla sotto il profilo della precisione giuridica della tecnica normativa. Infine, last but not least, la riforma sembra orientata a migliorare la certezza del diritto, poiché la verifica giudiziale della legittimità dello ius variandi ha come criterio di riferimento il “livello contrattuale”, ossia un dato meno sfuggente e più oggettivo del “contenuto professionale delle mansioni”. L’auspicio è, ovviamente, che questi obiettivi di semplificazione normativa e di certezza del diritto vengano percorsi sempre più diffusamente anche in futuro e siano concretamente raggiunti nell’applicazione giudiziaria delle norme.

Lo ius variandi “orizzontale”

Premesso ciò, già al primo impatto il nuovo art. 2103 del codice civile, riscritto come si è detto dal d.lgs. 81/2015, rimanda subito alla portata fortemente innovativa della novella. Il primo comma rimodula lo ius variandi orizzontale, estendendolo a tal al punto da doversi ormai reputarlo liberalizzato. Nell’ambito dello stesso livello di inquadramento contrattuale, con il rispetto imprescindibile quindi delle tabelle retributive di riferimento, il datore di lavoro può esercitare lo ius variandi in modo libero e discrezionale.

La differenza tra l’imposizione di esercitare lo ius variandi nell’ambito del medesimo livello contrattuale anziché nell’ambito di mansioni aventi tra loro un medesimo contenuto professionale appare notevole. E non solo perché, come è noto, nell’ambito di un dato livello di inquadramento convivono figure professionali diverse. Ma soprattutto perché la norma non pone praticamente limiti allo spostamento orizzontale nell’ambito del medesimo livello. Per cui diviene legittimo, solo a titolo di esempio, lo spostamento di un lavoratore dall’area commerciale o tecnica a quella amministrativa e viceversa.

In realtà, un limite è stato disposto: lo ius variandi del datore di lavoro non può condurre il lavoratore a svolgere mansioni di una “categoria legale” inferiore, pure se del medesimo livello. La disposizione ci introduce alla valorizzazione che l’art. 3 del d.lgs. 81/2015 fa delle “categorie legali”, che sembravano ormai destinate ad una inesorabile consunzione. Si tratta della nota distinzione operata dall’art. 2095 del codice civile, per cui i “prestatori di lavoro subordinato si distinguono in dirigenti, quadri, impiegati e operai”.

Il primo comma dell’art. 3 del d.lgs. 81/2015, sembra quindi disporre che, se in uno stesso livello di inquadramento contrattuale convivono per esempio figure impiegatizie e mansioni da operai (oppure mansioni da quadro e da impiegati), lo ius variandi non può estendersi fino a rendere legittima l’assegnazione di mansioni proprie della “categoria legale” inferiore. Occorre dire che il richiamo alle categorie legali operato dalla norma in parola, riproposto anche in altri commi del nuovo art. 2103 del codice civile, potrà dare adito a difficoltà interpretative, attesa che ormai in molti contratti collettivi, la distinzione tra mansioni da operaio e mansioni da impiegato non è agevole. Ben si comprende comunque come sul tema delle mansioni si sia accresciuta notevolmente l’importanza della contrattazione collettiva, anche aziendale. Con la definizione dei livelli, infatti, le parti contrattuali disegneranno i limiti di esercizio dello ius variandi del datore di lavoro.

Lo ius variandi nel rapporto di lavoro dirigenziale

La nuova disciplina delle mansioni ha prodotto uno strano effetto nell’ambito del rapporto di lavoro dirigenziale. Infatti la norma in esame si applica anche ai dirigenti. Tuttavia, come è noto, generalmente i contratti collettivi per i dirigenti non contengono distinzioni di ruoli basati sui livelli di inquadramento. Allo stato quindi la norma in esame sembra legittimare uno ius variandi illimitato per i ruoli dirigenziali. La circostanza è significativa se si pensa come, dal ruolo di direttore generale in giù, sia molto differenziata la varietà degli incarichi dirigenziali esistenti in una organizzazione aziendale. E’ difficile attualmente prevedere se ciò avrà un peso anche sull’applicazione di quelle norme dei contratti collettivi che attribuiscono benefici economici al dirigente cui siano state modificate le mansioni.

Assegnazione a mansioni “inferiori”

Una ulteriore notevole novità della novella dell’art. 2103 del codice civile riguarda la facoltà data al datore di lavoro di modificare in peius, unilateralmente, le mansioni del lavoratore. Tale potere tuttavia può essere esercitato entro stringenti limiti legali.

a) Innanzi tutto tale modifica unilaterale può legittimamente disporsi solamente nel caso di “modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore”. La “incidenza” della modifica organizzativa sulla posizione lavorativa può riguardare, a tenere conto adeguatamente della formulazione letterale della norma, sia il caso della modifica parziale delle mansioni previste, sia la soppressione della posizione lavorativa. Sicché in tale ultimo caso, ciò che prima poteva legittimare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ora attribuisce al datore di lavoro la facoltà aggiuntiva dell’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori. Sarà interessante verificare come la giurisprudenza concilierà l’una e l’altra facoltà del datore di lavoro. Non è da escludere che dalla norma in esame possa scaturire una sorta di esplicazione formale, ancorché parziale, di quell’obbligo di repêchage che la giurisprudenza ha elaborato come limite al licenziamento per motivi economici. In tal senso, quale condizione della legittimità del recesso per soppressione della posizione lavorativa, potrebbe essere richiesto al dato- re di lavoro di verificare unilateralmente ed eventualmente disporla, avendone il potere ai sensi del secondo comma, art. 3 del d.lgs. 81/2015, l’assegnazione del lavoratore a mansioni inferiori. Al di fuori di tale ipotesi, il datore di lavoro non ha facoltà di modificare in peius le mansioni del lavoratore, salvo nei casi “previsti dalla contrattazione collettiva” (co. 4, art. 2103, cod. civ. novellato). Indubbiamente quindi, la contrattazione collettiva può prevedere ulteriori casi di legittima modifica in pe- ius delle mansioni, tuttavia può farlo sempre nel rispetto dei requisiti di legittimità previsti dal nuovo art. 2103 del codice civile, quindi: necessità di comunicazione scritta, mantenimento del livello di inquadramento, divieto di adibire il lavoratore a mansioni corrispondenti a più di un livello inferiore, nonché ad una categoria legale inferiore, di cui si parlerà appresso. Sul punto deve ricordarsi la norma generale introdotta dall’art. 51, d.lgs. 81, con la quale il legislatore ha voluto chiarire che, salvo specifica e diversa previsione, i richiami contenuti nel decreto legislativo ai contratti collettivi si intendono riferiti ai “contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali” stipulati da Rsa o Rsu.

b)Come si è anticipato, la chiara lettera della norma precisa che l’assegnazione a mansioni inferiori può legittimamente disporsi nell’ambito di un solo livello di inquadramento, e non può mai comportare l’adibizione a mansioni proprie di una “categoria legale” Nella pratica, quindi, se il lavoratore svolge mansioni inquadrabili nel livello più basso di una categoria legale, per esempio quella impiegatizia, la facoltà di modifica in peius delle mansioni non è esercitabile.

c)Il terzo comma del nuovo art. 2103 cod. stabilisce che il mutamento di mansioni, ove necessario, deve essere accompagnato dall’assolvimento dell’obbligo formativo. Tale disposizione riguarda anche l’esercizio dello ius variandi orizzontale, di cui al primo comma del novellato art. 2103 del codice civile. La prescrizione ha fatto molto discutere, in questa prima fase di studio della normativa, atteso che la legge si premura di precisare, sul punto, che “il mancato adempimento” di tale obbligo formativo “non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. Senza entrare nel merito delle dispute sull’argomento, sembra a chi scrive si possa affermare che la disposizione dia quantomeno facoltà al lavoratore di rifiutarsi, ai sensi dell’art. 1460 del codice civile di svolgere la diverse mansioni assegnate se non è stato adempiuto dal datore di lavoro il corrispettivo obbligo formativo, obbligo che sussiste, così dice la legge, solamente “ove necessario”.

d)L’assegnazione a mansioni inferiori deve essere comunicata al lavoratore per iscritto, a pena di nullità. Anche tale disposizione costituisce una innovazione in materia, ove di regola il mero mutamento di mansioni fino ad oggi non necessitava di comunicazioni La prescrizione, accompagnata dalla dura sanzione della nullità, sembra inquadrarsi nell’ambito delle tutele formali volte a prevenire abusi da parte del datore di lavoro. Vi- sta in tale prospettiva la norma richiederebbe quindi non solo la comunicazione scritta del mutamento di mansioni in peius ma anche l’esplicazione, ancorché sintetica, dei motivi per i quali il mutamento è stato disposto, così da potersi controllare ex post la sussistenza dei motivi addotti, ed evitare che il datore di lavo- ro possa invece giustificare il provvedimento con ragioni fittizie o costruite successivamente alla sua adozione.

e)In ogni caso, l’adibizione a mansioni appartenenti ad un livello di inquadramento inferiore, comporta per il lavoratore “la conservazione del livello di inquadramento e del trattamento retributivo in godimento, fatta eccezione per gli elementi retributivi collegati a particolari modalità di svolgimento della precedente prestazione lavorativa” (co. 5, art. 3, d.lgs. 81/2015). La norma sembra chiara, nonostante qualche dubbio affiorato nei primi commenti. Il lavoratore mantiene non solo la retribuzione goduta prima dell’esercizio dello ius variandi, ma anche “il livello di inquadramento”. Il che vuol dire che i successivi aumenti contrattuali saranno computati con riferimento al livello inquadramento che il la- voratore aveva prima dell’esercizio dello ius variandi, e non a quello corrispondente alle nuove mansioni svolte. Sembra resistere pertanto il principio di irriducibilità della retribuzione a fronte di provvedimenti unilaterali del datore di lavoro. L’eccezione dell’ultimo inciso del comma in questione non costituisce invece una novità, ma ha fatto bene il legislatore a ribadirla. In pratica, si afferma che nel caso di mutamento di mansioni vengono meno gli elementi retributivi connessi essenzialmente al tipo di mansioni svolte. Così, ad esempio, se le nuove mansioni, a differenza delle precedenti, non comporteranno necessità di trasferte, o di “maneggio denaro”, il lavoratore, pur man- tenendo retribuzione e livello corrispondenti all’inquadramento di provenienza, non avrà più diritto a percepire l’indennità di trasferta o quella di cassa.

La modificazione pattizia delle mansioni

Se livello di inquadramento, categoria legale e retribuzione, costituiscono dei limiti al potere unilaterale dal datore di lavoro di modifica orizzontale o in peius delle mansioni, nell’innovativo contesto normativo riguardante la disciplina delle mansioni, la modifica pattizia delle mansioni non soffre tali limiti. Con accordo sottoscritto dal datore di lavoro e dal lavoratore quindi sarà possibile assegnare al lavoratore mansioni corrispondenti ad una categoria legale differente, anche con riduzione della retribuzione. La norma tuttavia non sembra autorizzare una riduzione della retribuzione che vada al di sotto del livello retributivo corrispondente alle mansioni effettivamente svolte dal lavoratore dopo il patto.

Si tratta comunque di una disposizione che rompe notevolmente con il passato, dominato, come si è detto, dal principio quasi assoluto (salvo le uniche eccezioni sopra ricordate) del- la nullità dei patti di demansionamento.

Tale principio tuttavia, come ricordato dall’ultimo comma del nuovo art. 2103 cod. civ., riacquista piena validità quando l’assegnazione a mansioni inferiori avvenga al di fuori dei limiti imposti dalla nuova disciplina, e dei quali sopra si è detto.

Il superamento del divieto di patto in materia è temperato dalla necessità che l’accordo sia ovviamente sottoscritto in sede protetta. Al riguardo si deve rilevare come la disposizione in parola aggiunga alle tradizionali sedi protette – ossia quelle previste dal quarto comma dell’art. 2113 del codice civile – anche le “commissioni di certificazione”; ed inoltre, l’assistenza del lavoratore in tali sedi protette, prima prerogativa del rappresentante sindaca- le scelto dal lavoratore, ora può essere fornita in alternativa anche da “un avvocato o da un consulente del lavoro”.

Il legislatore inoltre ha stabilito che i patti di demansionamento siano stipulati entro precisi limiti teleologici: “l’interesse del lavoratore alla conservazione dell’occupazione, all’acquisizione di una diversa professionalità o al miglioramento delle condizioni di vita”. La terza ipotesi suscita notevole interesse e sembra aggiungersi a tutti quegli strumenti normativi riguardanti il rapporto di lavoro (permessi, part time, etc.) che sono finalizzati a porre il lavoratore in condizione di ottimizzare il rapporto tra le esigenze di vita e gli obblighi lavorativi.

Mutamento di mansioni verticale. Diritto all’inquadramento superiore

Novità di rilievo sono strade introdotte dalla novella dell’art. 2103 del codice civile anche in materia di assegnazione di fatto a mansioni superiori. Come è noto l’assegnazione “continuativa” a mansioni superiori (l’aggettivo, a parere di chi scrive superfluo, è stato aggiunto dalla novella), salvo il caso di sostituzione temporanea di altro lavoratore, dà di- ritto all’inquadramento relativo alle mansioni effettivamente svolte. Tale diritto, fino all’attuale modifica della disciplina delle mansioni, maturava decorsi tre mesi dall’assegnazione. I contratti collettivi potevano prevedere un tempo di acquisizione del diritto minore, per impiegati ed operai, ovvero maggiore, per quadri o dirigenti.

Nella nuova regolamentazione introdotta dal d.lgs. 81/2015 i tempi di acquisizione del di- ritto all’inquadramento superiore sono principalmente quelli previsti dalla contrattazione collettiva, e solo in mancanza di una specifica disciplina del contratto collettivo applicabile al rapporto, la legge prescrive la maturazione del diritto decorsi sei mesi.

La novità di rilievo consiste nel fatto che la nuova normativa attribuisce rilevanza alla “diversa volontà del lavoratore”. Il lavoratore quindi, senza vincoli di forma, e senza necessità di formalizzare la rinuncia in un accordo da sottoscrivere in sede protetta, può esprimere la volontà, anche per fatti concludenti, di rinunciare al diritto all’inquadramento superiore. Volontà che quindi unilateralmente ed incondizionatamente risulta efficace ad estinguere il diritto maturato (o a non farlo maturare se comunicata prima della matura- zione). In pratica, il diritto all’inquadramento superiore perde la qualità di diritto indisponibile ai sensi dell’art. 2113 del codice civile.

* Avvocato in Roma

 

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