La reintegrazione esiste ancora? Il caso del licenziamento disciplinare tra Articolo 18 e tutele crescenti

di Paolo Galbusera* e Andrea Ottolina* 

Come noto, la Legge Fornero (legge n. 92 del 28.06.2012) ha apportato significative modifiche all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Secondo la formulazione precedente, qualsiasi vizio del licenziamento, anche meramente formale, comportava l’obbligo a carico del datore di lavoro di reintegrare nel posto di lavoro il lavoratore licenziato e di risarcirgli tutte le mensilità maturate dalla data del licenziamento all’effettiva reintegrazione. Il nuovo testo della norma, invece, prevede un sistema più strutturato, in cui la reintegrazione rappresenta solo una delle varie sanzioni possibili, prevista in caso di specifici vizi del provvedimento espulsivo.

Con particolare riferimento ai licenziamenti disciplinari, l’attuale formulazione dell’art. 18, al comma 4, prevede l’ipotesi della reintegrazione nel posto di lavoro (oltre ad un’indennità risarcitoria nella misura massima di 12 mensilità della retribuzione globale di fatto) nelle ipotesi in cui il Giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, per insussistenza del fatto contestato, ovvero nel caso in cui la contrattazione collettiva preveda per quella infrazione una sanzione conservativa. Qualora invece il fatto contestato sussista, ma non ricorrano gli estremi del giustificato motivo o della giusta causa, a norma del comma 5 dell’art. 18 non sarà applicabile la tutela reintegratoria, ma opererà solo quella indennitaria c.d. “forte”, ricompresa tra un minimo di 12 ed un massimo di 24 mensilità di risarcimento.

Sin dall’introduzione della disciplina sopra descritta, i commentatori e gli operatori del diritto si sono subito concentrati sull’interpretazione del concetto di insussistenza del fatto contestato, divenuto fondamentale discrimine tra l’applicazione della tutela reale di cui al comma 4 e di quella indennitaria prevista dal comma 5, dividendosi sostanzialmente in due correnti di pensiero: quella a favore della teoria del c.d. fatto materiale e quella a favore della teoria del c.d. fatto giuridico. 

I sostenitori della prima teoria, basandosi su un’interpretazione letterale della norma, hanno affermato che la reintegrazione dovrebbe trovare applicazione solo se i motivi concreti addotti dal datore di lavoro quale giusta causa o giustificato motivo soggettivo sono materialmente inesistenti, quindi solo nel caso di insussistenza del fatto storico oggetto di contestazione.

A tale tesi i sostenitori della teoria del fatto giuridico hanno replicato che, se fosse sufficiente la pura e semplice sussistenza materiale di un fatto per configurare giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, si rischierebbe il paradosso di dover escludere la tutela reintegratoria anche in quei casi in cui il datore di lavoro abbia contestato al dipendente condotte materialmente sussistenti, ma talmente insignificanti da non avere alcun rilievo disciplinare (quali, ad esempio, il non aver salutato all’arrivo sul posto di lavoro, l’essere arrivato con pochi minuti di ritardo etc.).

Con la sentenza n. 13669 del 6.11.2014, la Corte di Cassazione è intervenuta nel dibattito in corso e, con la sua prima pronuncia sull’argomento, è sembrata schierarsi afavore della tesi del fatto materiale, affermando che, in base all’art. 18 co. 4, la tutela reintegratoria troverebbe appunto spazio solo in caso di accertamento dell’insussistenza “del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento”.

La sentenza citata, nell’utilizzare espressamente la locuzione fatto materiale, ha anticipato, se non addirittura ispirato, il decreto legislativo n. 23 del 4.3.2015 (uno dei decreti che compongono il c.d. Jobs Act), il quale, nell’introdurre il nuovo contratto di lavoro a tutele crescenti, al co. 2 dell’art. 3 ha disposto che, per i lavoratori assunti a tempo indeterminato a partire dal 7 marzo 2015 e licenziati per motivi disciplinari, continua ad operare il diritto alla reintegrazione quando “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

Evidentemente, la formulazione della nuova norma, pur nel suo tentativo di semplificazione, ha reso ancor più rilevante la necessità di comprendere e definire in cosa consista quel fatto materiale la cui insussistenza determina un sostanziale ampliamento della tutela in favore dei lavoratori coinvolti, che passa da quella indennitaria caratteristica delle tutele crescenti (due mensilità per ogni anno di servizio) a quella reintegratoria.

Sul punto, la successiva giurisprudenza di legittimità, pur continuando ad avere ad oggetto l’interpretazione del co. 4 dell’art. 18, ha evoluto e precisato il proprio orientamento in tema di insussistenza del fatto materiale, fissando principi che appaiono del tutto applicabili anche ai licenziamenti comminati in regime di Tutele Crescenti.

Si vedano ad esempio le sentenze n. 20540 e 20545 del 13.10.2015, con le quali la Suprema Corte ha espressamente affermato che “la completa irrilevanza giuridica del fatto equivale alla sua insussistenza materiale”; oppure la sentenza n. 18418 del 20.09.2016, che ha applicato la tutela reintegratoria ad un licenziamento basato su fatti, seppur sussistenti, di rilievo disciplinare sostanzialmente inapprezzabile; nonché le recenti sentenze n. 13383 del 26.05.2017 e n. 29062 del 5.12.2017, le quali hanno ribadito che “l’insussistenza del fatto contestato comprende sia l’ipotesi del fatto materiale che si riveli insussistente, sia quella del fatto che, pur esistente, non presenti profili di illiceità”.

Alla luce di quanto detto, pur in attesa di decisioni che abbiano specificamente ad oggetto l’applicazione dell’art. 3 co. 2 d.lgs. 23/2015, è opportuno che le Aziende intenzionate a comminare un licenziamento disciplinare in regime di Tutele Crescenti si premurino di valutare, al fine di evitare il rischio di reintegrazione, se il licenziamento in questione sia o meno fondato sulla contestazione di comportamenti dal chiaro ed indiscutibile carattere di inadempimento contrattuale.

Superata quindi (almeno momentaneamente) la questione relativa all’interpretazione del fatto materiale, la giurisprudenza di merito chiamata ad applicare l’art. 3 co. 2 del d.lgs. 23/2015 ha iniziato a concentrarsi su un altro tema delicato e cioè su chi gravi (lavoratore o datore di lavoro) l’onere probatorio di dimostrare in giudizio l’insussistenza del fatto oggetto di contestazione. La norma in questione, infatti, nel prevedere la reintegrazione solo nelle ipotesi di licenziamento disciplinare in cui sia direttamente dimostra- ta in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato, sembrerebbe sul punto prevedere un’inversione dell’onere probatorio rispetto ai principi fissati dall’art. 5 legge 604/1966, secondo cui è il datore di lavoro ad essere gravato dall’one- re di dimostrare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo di licenziamento.

A favore di questa interpretazione, considerata più in linea con il tenore letterale della norma, si sono schierati alcuni Giudici, secondo i quali, ai fini dell’applicazione della tutela reintegratoria in regime di Tutele Crescenti, sarebbe necessario un qualcosa in più rispetto alla mancata prova della giusta causa da parte del datore di lavoro e cioè la prova diretta della insussistenza del fatto contestato, il cui onere si ritiene essere in capo al lavoratore, unico interessato a dimostrare detta insussistenza. E’ il caso, ad esempio, della sentenza del Tribunale di Napoli del 27.06.2017, secondo cui il lavoratore che intenda beneficiare della maggior tutela prevista dalla norma in esame “dovrà premurarsi di offrire elementi di prova che dimostrino l’insussistenza del fatto addebitato”, ovvero di quei Giudici del Tribunale di Milano che, pur nell’ipotesi di contumacia del datore di lavoro, hanno ritenuto necessario ascoltare i testimoni indicati dal lavoratore, così da poter comunque ritenere dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento (vedi ad es. le sentenze del Tribunale di Milano n. 2998 del 16.11.2017 est. Dr. Mariani e n. 3269 dell’8.01.2018 est. Dr.ssa Ravazzoni).

Altri Giudici, tuttavia, si sono apertamente schierati contro questa interpretazione della norma.

Siveda, in tale senso, la sentenza n. 136 del 18.01.2018 del Tribunale di Milano (est. Dr.ssa Moglia), secondo cui, apparendo problematico addossare al lavoratore la prova diretta di un fatto negativo, l’unica interpretazione razionale e costituzionalmente orientata sarebbe quella secondo cui la mancata prova della sussistenza della giusta causa di licenziamento da parte del datore di lavoro equivarrebbe alla dimostrazione diretta dell’insussistenza del fatto materiale contestato. Su tale linea interpretativa si inseriscono quelle sentenze di merito secondo le quali, in caso di contumacia del datore di lavoro, il mancato assolvimento da parte sua dell’onere probatorio in merito alla sussistenza della giusta causa comporterebbe automaticamente l’applicazione della tutela reintegratoria di cui all’art. 3 co. 2 del d.lgs. 23/2015 (si veda ad es. la sentenza del Tribunale di Milano n. 2959 del 14.11.2017 est. Dr. Lombardi).

Per dirimere questa ulteriore problematica interpretativa, dagli importanti risvolti pratici e processuali, bisognerà ad ogni modo attendere la presa di posizione della Corte di Cassazione. Nel frattempo, si ribadisce, prima di decidersi a comminare un licenziamento disciplinare, pur se in regime di Tutele Crescenti, sarà necessario valutare attentamente la sussistenza dei fatti addebitati al lavoratore, sia sotto il profilo materiale e probatorio, sia sotto il profilo della loro illiceità / antigiuridicità.

*Avvocato in Milano – Galbusera & Partners

 

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