Lavoro a tempo determinato nella Pubblica Amministrazione: illegittimità e risarcimento del danno

di Isabella Marzola*

In tema di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato nella Pubblica Amministrazione, assume molta importanza l’ordinanza della Corte di Cassazione n. 16363 del 4 agosto 2015, con la quale i giudici hanno affermato che nel pubblico impiego, in caso di abusivo ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una Pubblica Amministrazione, il dipendente ha diritto al risarcimento del danno, mentre è esclusa la possibilità di conversione del rapporto in contratto a tempo indeterminato.

Prima di esaminare nello specifico l’ordinanza oggetto della presente trattazione, può essere utile analizzare l’istituto del contratto a termine nel pubblico impiego, facendo particolare riferimento al D. Lgs. n. 165/2001 recante le “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.

 

Contratto a termine nel pubblico impiego

Il legislatore italiano ha previsto, sia nel pubblico impiego che nel settore privato, che il contratto a tempo indeterminato debba essere la forma contrattuale normale, la comune forma di accesso al lavoro.

Il contratto a tempo determinato è stato per molto tempo disciplinato dal D. Lgs. n. 368/2001, recante norme di attuazione della direttiva comunitaria n. 1999/70. Il citato decreto ha stabilito che il rapporto di lavoro a tempo determinato poteva essere legittimamente instaurato in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

Successivamente, l’art.1 comma 39 della Legge n. 247/2007, modificando l’art.1 del D. Lgs. n. 368/2001, ha stabilito che “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”, mentre il contratto a termine può essere stipulato nelle sole ipotesi previste dal D. Lgs. n. 368/2001, codificando l’indirizzo prevalente della dottrina, secondo cui le ragioni giustificatrici del contratto a termine devono riferirsi a esigenze di carattere temporaneo o, comunque, non stabili.

è poi intervenuta, ma con solo riguardo al settore privato, la Legge n. 92/2012 (la c.d. riforma Fornero), la quale ha previsto all’art. 1 che “il contratto di lavoro a tempo indeterminato costituisce la forma comune di rapporto di lavoro”, introducendo una deroga all’obbligo di motivazione.

Recentemente il D. Lgs. n. 368/2001 è stato abrogato dal D. Lgs. n. 81/2015, tuttavia la nuova disciplina del lavoro a tempo determinato ricalca per molti aspetti il D. Lgs. n. 368/2001.

Al pubblico impiego continua però ad applicarsi la disciplina prevista dal D. Lgs. n. 165/2001: pertanto per le pubbliche amministrazioni è ammessa l’apposizione di un termine alla durata del contratto di lavoro subordinato a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo.

In particolare tali ragioni devono essere:

  • oggettive;
  • sussistere fino dalla stipula originaria del contratto;
  • essere indicate specificatamente per iscritto.

Ai fini della presente trattazione l’aspetto centrale riguarda le conseguenze sanzionatorie derivanti dall’illegittima apposizione del termine previste dall’art. 36 c. 5 del D. Lgs. n. 165/2001, secondo il quale, in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può determinare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato, ferma restando ogni responsabilità e sanzione.

In pratica il D. Lgs. n. 165/2001 riconosce alle Pubbliche Amministrazioni la facoltà di avvalersi delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, compreso il contratto a tempo determinato ma, a differenza di quanto avviene nel settore privato, nel pubblico impiego tali tipologie contrattuali non possono mai essere convertite automaticamente in rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Nelle ipotesi di violazione delle norme imperative, tuttavia, il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative.

 

Corte di Cassazione – Ordinanza n. 16363/2015

Sono diversi i contributi della giurisprudenza in merito alla materia di legittima apposizione del termine al contratto di lavoro subordinato nella pubblica amministrazione, ma la decisione della Suprema Corte n. 16363/2015 rileva per l’estrema attualità del tema.

Il fatto trae origine dal contenzioso instaurato tra due lavoratori ed un’azienda ospedaliera sanitaria: con separati ricorsi i lavoratori hanno adito il Tribunale per richiedere l’accertamento dell’illegittimità del termine ai contratti stipulati con l’Asl, con conseguente diritto alla declaratoria di instaurazione di un rapporto a tempo indeterminato, in modo da giustificare la richiesta di reintegrazione nel posto di lavoro, la condanna del datore di lavoro al versamento di un’indennità non inferiore a quindici mensilità della retribuzione globale di fatto, nonché al risarcimento del danno non inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre all’indennità sostitutiva del preavviso.

Il giudice di primo grado ha dichiarato illegittimo l’ultimo dei contratti stipulati dai lavoratori per mancata indicazione delle causali giustificative e ha condannato l’ente al risarcimento del danno secondo quanto previsto dall’art. 18 della Legge n. 300/1970, riconoscendo ad entrambi i lavoratori cinque mensilità a titolo di risarcimento del danno, ma differenziando la misura dell’indennità sostitutiva della reintegrazione: al lavoratore che non aveva più lavorato sono state attribuite quindici mensilità, mentre al lavoratore che aveva trovato un’occupazione è stata riconosciuta un’indennità pari a dieci mensilità.

La Corte d’Appello ha respinto l’appello promosso dall’ente pubblico, giustificando la mancata prova del danno da parte dei lavoratori con l’utilizzo di un criterio equitativo a carattere forfetizzato e predeterminato, tale da adeguare il risarcimento alla perdita del posto di lavoro (tale danno non richiedeva specifica prova e quantificazione) e da offrire una tutela in linea con i requisiti indicati dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea secondo canoni di effettività, equivalenza e dissuasività della protezione che deve provenire dall’ordinamento interno per contrastare l’abusivo ricorso al contratto a termine.

Contro la sentenza della Corte d’Appello, l’Asl proponeva ricorsi alla Corte di Cassazione. Diversi sono gli aspetti che sono emersi nell’ordinanza interlocutoria della Suprema corte.

Innanzitutto è stato evidenziato che la Corte d’Appello aveva ritenuto di individuare il parametro di riferimento più idoneo a garantire una tutela effettiva e dissuasiva nella disciplina dettata dall’art. 18 della Legge n. 300/1970.

Si osservava inoltre che la stessa Cassazione si era più volte espressa in diverse sentenze precedenti, ancorando la determinazione del risarcimento del danno all’art. 32, commi 5 e 7, Legge n. 183/2010, a prescindere dalla prova concreta del danno, trattandosi di un’indennità forfetizzata e omnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine. In un altro caso aveva utilizzato come criterio di liquidazione quello indicato dall’art. 18 della Legge n. 604/1966, sempre a prescindere dalla prova concreta del danno, ma in virtù dell’elaborazione di un’autonoma figura di danno, il danno comunitario, da intendersi come sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro.

La Corte di Cassazione ha risolto la questione affermando che nel pubblico impiego, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il lavoratore che abbia subito l’illegittima precarizzazione del rapporto di lavoro, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto di lavoro da tempo determinato a tempo indeterminato ai sensi dell’art. 36, comma 5, del D. Lgs. n. 165/2001, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione con esonero dell’onere probatorio nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della Legge n. 183/2010, e quindi nella misura pari ad un’indennità omnicomprensiva quantificata tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art. 8 della Legge n. 604/1966.

*ODCEC Ferrara

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