Licenziamenti e tutela di contrapposti interessi

di Maurizio Centra* 

L’anno 2015 si è chiuso con un importante convegno nazionale a Forte dei Marmi (Lucca), nella prestigiosa cornice di Villa Bertelli, nel quale è stato affrontato dal Prof. Oronzo Mazzotta, ordinario di diritto del lavoro nell’Università di Pisa, e da altri autorevoli re- latori l’argomento del licenziamento dopo le recenti modifiche di legge.

L’organizzazione scientifica del convegno è stata curata dal Gruppo Odcec Area lavoro per conto dell’Ordine dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Lucca, il quale è stato un impeccabile “padrone di casa”, coadiuvato in questo dal Comune di Forte dei Marmi e dalla Fondazione dei Dottori Commercialisti e degli Esperti Contabili di Firenze, che svolge una preziosa e continua attività di aggiornamento professionale in ambito regionale. Alla presenza di oltre cento professionisti, che si sono trattenuti in maggioranza ben oltre l’orario di chiusura dei lavo- ri, si è ripercorsa l’evoluzione della normativa sui licenziamenti dagli anni sessanta ai giorni nostri, partendo dagli articoli 2118 “Recesso dal contratto a tempo indeterminato” e 2219 “Recesso per giusta causa” del codice civile, che regolano il recesso di entrambe le parti dal contratto di lavoro individuale, in quanto contratto di durata, quindi sono state esaminare le regole stabilite dalla legge 15 luglio 1966, n. 604 “Norme sui licenziamenti individuali”, nella loro versione attuale, che rappresentano da un lato il punto di arrivo di un processo innovatore, teso a ridurre se non proprio eli- minare i comportamenti delle parti non con- formi al principio di correttezza e buona fede, e dall’altro lato la base sulla quale è cresciuto il pensiero politico e dottrinale che ha condotto alla prima formulazione dell’art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 “Statuto dei lavora- tori”. L’escursus, ovviamente, è giunto fino al Jobs act con il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 “Disposizioni in materia di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” passando per gli interventi di modifica dell’art. 18 dello Statuto, con particolare riferimento a quello disposto dalla legge 28 giugno 2012, n. 92 (c.d. Riforma Fornero).

Proprio la legge 28 giugno 2012, n. 92, che costituisce – in ordine di tempo – il penultimo intervento significativo in materia di licenziamenti, ha “incrinato” la centralità dello Statuto dei lavoratori, a distanza di oltre 40 anni dalla sua entrata in vigore. Forse a causa della crisi economica che ha colpito il nostro Paese nel 2008, che solo quest’anno (2016) dovrebbe cedere il passo ad un periodo di crescita co- stante anche se modesta in termini reali, o per il convincimento, più o meno diffuso, del suo “superamento”, nel 2012 si sono finalmente create le condizioni per modificare il “famigerato” art. 18. Che tale operazione fosse tutt’altro che facile lo dimostrano i vari tentativi fatti negli anni precedenti, alcuni miseramente accantonati. Nel 1981/1982, attraverso un referendum, che non fu ammesso dalla Corte Costituzionale, ed all’inizio degli anni ’90 mediante un altro referendum, che non si svolse poiché la legge n. 108/1990 lo rese inutile modificando la disciplina dei licenziamenti individuali, con l’effetto di ridurre al minimo i casi di licenziamento ad nutum. In pratica il requisito della “giusta causa” divenne necessario per quasi tutti i licenziamenti, indi- pendentemente dalla dimensione del datore di lavoro, pur lasciando la tutela reale solo per i lavoratori delle imprese sopra i 15 dipendenti. Negli anni novanta sono progressivamente cresciuti i dibattiti sulla flessibilità del mercato del lavoro, con gli imprenditori che chiede- vano la liberalizzazione dei licenziamenti, sia individuali sia collettivi, identificando nella rigidità del mercato del lavoro la causa primaria dell’elevato tasso di disoccupazione, ed i politici che non riuscivano a discuterne con spirito super partes, contribuendo – si ritiene involontariamente – ad “ingessare” sempre di più il mercato, ad esempio con la proliferazione delle tipologie contrattuali, ed aumentare il contenzioso tra datori di lavoro e lavoratori in merito alla qualificazione del rapporto. Il di- battito sulla modifica dell’Art. 18 dello Statu- to non si attenuò neanche verso la metà degli anni novanta, quando apparvero proposte e iniziative di segno contrario a quelle degli anni ottanta. Con il passare del tempo il dibattito si è “incanalato” in quello più generale sulla rigidità del mercato del lavoro italiano e l’art. 18 è diventato l’emblema di questa rigidità!

L’art. 18 dello Statuto e – in pratica – la reintegrazione nel posto di lavoro nei casi di licenziamento illegittimo (tutela reale), è stato ritenuto dai lavoratori un “salvagente” di indiscusso valore nei casi di comportamenti del datore di lavoro che violino le norme di legge e, a causa della sua applicazione piuttosto estensiva in sede giudiziaria, dai datori di lavoro un vincolo all’esercizio dell’attività d’impresa, complice anche la lentezza della giustizia nel nostro Paese. Di sicuro l’art. 18 dello Statuto ha determinato un’iniqua differenza tra l’insieme dei lavoratori tutelati, in massima parte formato da quelli alle dipendenze di datori di lavoro con più di 15 dipendenti, e l’insieme di tutti gli altri lavoratori, formato, salvo poche eccezioni, da quelli alle dipendenze di datori di lavoro che occupano fino a 15 dipendenti. Tra gli interventi che il legislatore ha fatto negli ultimi anni per favorire la crescita economica, senza modificare l’art. 18 dello Statuto, tra gli altri si devono ricordare:

– la legge 24 giugno 1997, n. 196 “Norme in materia di promozione dell’occupazione”, denominata “Pacchetto Treu”, che, per la prima volta, ha regolato la somministrazione di mano d’opera, all’epoca lavoro interinale, ha eliminato il monopolio pubblico del colloca- mento, incentivato l’utilizzo del lavoro part time e favorito l’utilizzo di contratti a termine orientati alla formazione dei giovani (forma- zione-lavoro e apprendistato). Gli effetti della legge 196/1997 sul mercato del lavoro sono stati positivi ma, come altre norme, coeve o successive, non ha contribuito né a modificare le rigidità in uscita (licenziamento o dimissioni) né a favorire la creazione di opportunità di lavoro per le persone involontariamente disoccupate;

– la legge 14 febbraio 2003 n. 30, nota comunemente come legge Biagi, che, allo scopo di regolamentare e limitare il crescente fenomeno del lavoro para subordinato, ha introdotto il contratto di lavoro a progetto, soppresso dal Jobs act nel 2015. In realtà, dagli scritti del Prof. Biagi emerge la Sua convinzione che fosse necessario introdurre elementi di flessibilità sia in entrata, ad esempio ampliando le tipologie dei contratti di lavoro, sia in uscita, intervenendo anche sull’art. 18 dello Statuto, anche solo per i nuovi assunti e per un periodo di tempo limitato (3/5 anni). Ma anche nel 2003 il legislatore ritenne che non fosse ancora giunto il momento di intervenire sull’art. 18 e si “concentrò” sulle sole forme di flessibilità in ingresso nel mercato del lavoro, ritenendole sufficienti ad agevolare la creazione di nuova occupazione; cosa che poi non avvenne.

L’esigenza di flessibilità per le imprese deriva dalla necessità di adattare con rapidità la loro organizzazione aziendale alle condizioni del mercato sul quale operano, tanto più l’impresa è rapida nei cambiamenti, quanto più riesce a cogliere le opportunità di sviluppo. La flessibilità si ottiene agendo su vari fattori economici e produttivi, ma, sebbene la facoltà di licenziare non sia tra questi fattori, ha un ruolo importante in termini di efficienza e non solo. In materia di licenziamenti collettivi, ad esempio, è fin troppo facile criticare la ritualità ed ai costi delle procedure di mobilità (ex legge 23 luglio 1991, n. 223), i rischi e gli oneri per i datori di lavoro del ricorso agli ammortizzatori sociali (es. Cassa integrazione guadagni), ed ai “costi impropri” generati dall’inefficienza del sistema giudiziario, per cui un datore di lavoro che effettua un licenziamento “scopriva” solo a distanza di 3 o 4 anni l’illegittimità dello stesso, con la conseguenza non solo di dover procedere a reintegre il lavoratore ma, almeno fino al 18 luglio 2012, anche a pagargli tutti gli stipendi che avrebbe percepito se avesse lavorato. Tutto questo mentre il progresso tecnologico impone nuove “sfide” e, nel contempo, crea nuove esigenze ed opportunità, come pure nuove modalità di lavoro, mansioni, procedure operative e sistemi organizzativi.

In un contesto più dinamico occorre imparare a gestire il cambiamento, ma sarebbe errato ritenere che il progresso tecnologico possa – di per sé – ridurre le opportunità di lavoro, salvo nei casi in cui si ritardi eccessivamente l’adozione di adeguate modifiche ai sistemi produttivi e sociali.

La qualità della vita in un paese civile ed il livello di efficienza dei suoi sistemi economico e di welfare, si misura anche dalla reale possibilità per coloro che terminano un rapporto di la- voro di trovare una occupazione alternativa in tempi ragionevoli (es. 4/6 mesi), avendo, nel frattempo un sostegno economico di poco inferiore all’ultimo stipendio (es. 80%).

Il legislatore del Jobs act (2015) si è posto l’obiettivo di favorire la flessibilità del mercato del lavoro mediante il ricorso a contratti di la- voro stabili, quindi a tempo indeterminato, dai quali il datore di lavoro può recedere più facilmente in caso di giustificato motivo (oggettivo o soggettivo) o giusta causa. Con il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014 n. 183”, infatti, non ha introdotto un nuovo tipo contrattuale, ma ha stabilito per tutti i lavoratori che rivestono la qualifica di operai, impiegati o quadri, assunti con contratto di lavoro subordinato dal 7 marzo 2015 (entrata in vigore del d.lgs. 23/2015) che in caso di licenziamento per giustificato motivo e giusta causa, quindi in casi diversi da licenziamento discriminatorio, nullo e intima- to in forma orale (art. 2 del d.lgs. 23/2015), la forma ordinaria di tutela è quella indennitaria, crescente con l’anzianità di servizio del lavoratore, da quattro a ventiquattro mensilità. Al riguardo i primi commentatori hanno parlato di definitivo superamento dell’art. 18 dello Sta- tuto, in quanto la tutela del lavoratore assunto dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 23/2015 e licenziato in modo illegittimo è costituita dall’indennità risarcitoria.

Il d.lgs. 23/2015 non ha completamente escluso la tutela reale, ma l’ha limitata a casi di particolare gravità, secondo alcuni l’avrebbe ricondotta più o meno alle fattispecie ipotizzate dallo steso padre dello Statuto dei lavoratori, il Prof. Gino Giugni, quindi al licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma ora- le. Con riferimento al licenziamento nullo l’art. 2, quello che regola la reintegra, lascia una finestra aperta anche alle evoluzioni normative, quando parla di “altri casi di nullità espressa- mente previsti dalla legge”.

Oltre ai suddetti casi, il d.lgs. 23/2015 prevede la reintegra del lavoratore nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa, quindi non se il licenziamento è intimato per giustificato motivo oggettivo, in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore (art. 3, c. 2).

Sull’ipotesi di insussistenza del fatto materia- le contestato al lavoratore si è già avviata una discussione dottrinale ma, ragionevolmente, si può prevedere che il maggior numero di licenziamenti nei prossimi anni avverrà per giusti- ficato motivo oggettivo, per fatti riconducibili ad eventi aziendali dimostrabili, come riassetti organizzativi, crisi economica, cessazione o modifica di produzioni, ecc.

E’ appena il caso di segnalare che l’indennità risarcitoria prevista dall’art. 3 del d.lgs. 23/2015 non è soggetta a contribuzione previdenziale, essendo disposta dal giudice nel momento in cui “dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento” e non ricorrendo la condizione sinallagmatica tipica del rapporto di lavoro, trattandosi di una somma non corrisposta a fronte di una prestazione del lavoratore.

Per evitare i contenziosi in materia di licenziamento, il d.lgs. 23/2015 prevede i seguenti istituti:

  • art. 5 “Revoca del licenziamento”, che con- sente al datore di lavoro di revocare il licenziamento intimato al lavoratore entro quindici giorni dall’impugnativa di quest’ultimo;
  • art. 6 “Offerta di conciliazione”, che consente al datore di lavoro di offrire al lavoratore licenziato, entro i termini di impugnazione stragiudiziale del licenziamento, in una delle sedi di cui all’art. 2113, quarto comma, del codice civile, e dell’art. 76 del decreto legislativo 10 settembre 2003 n. 276 (c.d. sede protetta) un importo compreso tra due e diciotto mensilità, che non costituisce imponibile ai fini dell’im- posta sul reddito delle persone fisiche e non è assoggettato a contribuzione previdenziale. Il contrappeso della flessibilità introdotta dal Jobs act in termini di licenziamento è costituito da nuove politiche di reimpiego del la- voratore involontariamente disoccupato (c.d. politiche attive), sul modello della flexicurity da anni praticata con successo nei paesi del nord Europa e, in particolare in Danimarca. Le tutele su cui si basa il sistema danese, ad esempio, non danno al lavoratore una prospettiva di stabilità permanente ma quella di una possibilità permanente di trovare un’occupazione alternativa.

Fare un confronto tra il sistema di welfare di un paese di quasi 61 milioni di abitanti come l’Italia, nel quale gli strumenti sin ora utilizzati sono stati quasi esclusivamente di sostegno economico (es. cassa integrazione guadagni) e dove le riforme debbono essere realizzate senza maggiori oneri a carico del bilancio dello Stato, ed il corrispondente sistema di un paese con poco più di 5 milioni di abitanti e con uno dei redditi pro capite più alto d’Europa, come la Danimarca, è quasi impossibile. Comunque sia, ci si può augurare che l’attuazione della normativa del Jobs act in materia di politiche attive avvenga nei tempi previsti e, inoltre, che contribuisca a migliorare la cultura del lavoro.

* Odcec Roma

 

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