L’impiego dei lavoratori italiani all’estero

di Paolo Soro*

Nell’attuale fase di apertura dei mercati a livello internazionale, sono sempre più numerosi i lavoratori che si spostano oltre confine per motivi di lavoro. Analogamente, capita assai sovente che siano le aziende italiane a svolgere attività all’estero, utilizzando il proprio personale dipendente italiano; ciò implica inevitabili ripercussioni nella gestione fiscale e previdenziale di cui occorre tener conto.

Prima di analizzare le diverse modalità di esecuzione dell’attività all’estero da parte dei propri dipendenti, è opportuno svolgere alcune brevissime osservazioni relative al Paese presso il quale viene svolta l’attività lavorativa.

A seguito dell’entrata in vigore del Decreto Legislativo 14 settembre 2015, n.151 (Disposizioni di razionalizzazione e semplificazione delle procedure e degli adempimenti a carico di cittadini e imprese e altre disposizioni in materia di rapporto di lavoro e pari opportunità, in attuazione della Legge 10 dicembre 2014, n. 183), con effetto dal 24 settembre 2015, non è più richiesta l’autorizzazione preventiva ministeriale per l’impiego all’estero di personale da parte delle aziende.

Per quanto riguarda lo Stato in cui viene svolta l’attività lavorativa, possiamo individuare tre macro-aree geografiche:

  • Paesi dell’Unione europea;
  • Paesi extra-UE con i quali esiste una convenzione;
  • Paesi extra-UE privi di convenzione.

Il principale aspetto da considerare attiene alla legislazione applicabile al lavoratore, specie con riferimento alla copertura assicurativa di competenza.

All’interno dell’UE esiste, come noto, il principio di libera circolazione del lavoro e dei lavoratori. A seguito, inoltre, di particolari accordi sottoscritti tra alcune Nazioni e la stessa Unione europea, detto principio si applica anche a: Islanda, Norvegia, Liechtenstein e Svizzera. Orbene, onde evitare l’insorgere di conflitti di legge, i regolamenti CEE stabiliscono che al lavoratore si debba applicare una sola legislazione, e precisamente quella del Paese di occupazione (territorialità).

Per quanto concerne la seconda macro- area, è necessario fare sempre riferimento alla convenzione in vigore. Gli schemi convenzionali richiamano (nella stragrande maggioranza dei casi) il modello OCSE, fatta eccezione per i trattati in essere con i c.d. Paesi Emergenti che, in genere, adottano lo schema di convenzione dettato dall’ONU.

Invero, i due modelli convenzionali, quanto meno nelle questioni di sostanza, non divergono molto fra loro. In ogni caso, meglio valutarne i contenuti prima di iniziare qualunque attività, in modo tale da conoscere determinate fondamentali sfaccettature costituenti il rapporto, quali quelle connesse alla residenza fiscale e agli eventuali differenti aspetti di carattere previdenziale.

Occorre, infatti, ricordare che la normativa contenuta nelle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni prevale rispetto a quella fiscale interna, per cui la tassazione è esclusiva nello Stato di residenza fiscale del lavoratore.

Cionondimeno, il datore di lavoro italiano, che – in ipotesi – ha distaccato un lavoratore all’estero che non risulta più residente fiscale in Italia, dovrà comunque rilasciare la Certificazione Unica, indicando l’importo dei redditi prodotti all’estero.

Come noto, il reddito derivante dall’attività prestata all’estero, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro, da dipendenti che nell’arco dei dodici mesi vi soggiornano per un periodo superiore ai 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali. Detti importi vengono rideterminati ogni anno con decreto dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali (di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze).

Ovviamente, nell’ipotesi in cui un lavoratore, per ragioni inerenti l’attrazione della residenza in Italia ai soli effetti fiscali, venga assoggettato, sul reddito prodotto all’estero, ad una duplice imposizione, lo stesso avrà diritto a un credito d’imposta, in base alle regole stabilite all’art. 165 del TUIR. In ogni caso, qualora il reddito fosse stato prodotto in più Stati Esteri, l’ammontare relativo a ciascuno di tali Paesi dovrà essere regolarmente e distintamente indicato nelle annotazioni del citato Modello CU; sempre in tale certificazione, si dovranno altresì dedurre gli eventuali crediti d’imposta.

Con riferimento, infine, ai Paesi extra-UE non convenzionati, è evidente che, non esistendo una regolamentazione a carattere sovranazionale, la tutela è praticamente inesistente e occorre una dettagliata analisi della normativa locale e dei connessi rischi lavorativi, Paese per Paese.

Concluso questo incipit, passiamo ora al principale argomento oggetto del presente contributo e procediamo con l’analisi dei differenti aspetti delle strutture contrattuali tramite le quali può venire svolta l’attività all’estero da parte del personale dipendente delle imprese italiane ovvero: la trasferta, il trasferimento e il distacco.

La trasferta

La trasferta consiste nel mutamento provvisorio e temporaneo del luogo di lavoro, per il sopravvenire di esigenze di servizio di carattere transitorio e contingente, che rendono necessario od opportuno lo spostamento del lavoratore dal luogo ove svolge normalmente l’attività, ferma restando la previsione certa del suo rientro nella sede originaria. Gli elementi da considerare nella trasferta, dunque, sono:

  • temporaneità
  • disposizione unilaterale del datore di lavoro
  • svolgimento dell’attività lavorativa sotto la direzione del datore di lavoro
  • indennità di trasferta

Il fatto che il dipendente venga solo temporaneamente assegnato a una diversa unità produttiva dal datore di lavoro, comporta che ciò non possa configurarsi quando lo spostamento del lavoratore implichi anche il suo cambiamento di residenza, indipendentemente dalla durata della missione, la quale nella prassi difficilmente supera i sei mesi, ma che comunque non gode di un’espressa previsione legislativa relativamente al periodo massimo. La durata della trasferta, infatti, può anche non essere compiutamente definita fin dall’inizio, essendo naturale che sia variabile in funzione dell’interesse e/o dell’operazione decisa dal datore di lavoro. Durante questo periodo, permane un legame funzionale del lavoratore con il luogo di lavoro da cui egli proviene, rispetto al diverso luogo della provvisoria prestazione.

Lo stato soggettivo del dipendente non è rilevante, per cui non è necessario il suo consenso alla trasferta, anzi, il rifiuto alla trasferta, in taluni casi, potrebbe essere considerato quale grave atto di insubordinazione e, come tale, passibile di licenziamento. 

Non è nemmeno richiesto che l’invio del lavoratore in trasferta sia giustificato da uno specifico e attuale interesse produttivo del datore di lavoro, ben potendo, il risultato cui tende la trasferta, essere finalizzato anche al mero sviluppo di future attività (esempio: corsi di formazione per poter disporre di personale più professionale e qualificato).

Si rammenta, in ogni caso, che la mera discrezionalità del datore di lavoro incontra i limiti stabiliti dal rispetto dei contratti collettivi di riferimento, dal principio di dignità del lavoratore (art. 41 della Costituzione), nonché dal divieto di atti illeciti o discriminatori (art. 1345 Codice Civile e art. 15 Stat. Lav.); mentre la funzionalità alle esigenze tecniche, organizzative e produttive dell’azienda andrà comunque valutata in funzione del principio generale del “comportamento secondo correttezza”, di cui all’art. 1175 del Codice Civile.

Il lavoratore in trasferta risponde gerarchicamente al proprio datore di lavoro e svolge la sua attività a esclusivo beneficio di quest’ultimo. La permanenza in una sede diversa da quella abituale è, pertanto, del tutto occasionale e contingente, e nessun tipo di rapporto intercorre tra detto dipendente e l’eventuale ulteriore specifico soggetto presso il quale la prestazione è materialmente posta in essere.

Considerato dunque l’aspetto transitorio, il lavoratore inviato all’estero rimane soggetto alla legislazione fiscale e previdenziale disciplinata in Italia. Il rimborso previsto per il lavoratore potrà allora avvenire applicando tre diversi criteri: indennità forfetaria, rimborso misto, rimborso analitico, fermo restando che le spese di trasporto sostenute e documentate con il documento del vettore, non concorrono alla formazione del reddito di lavoro, né rientrano nei massimali di diaria giornaliera.

Il trattamento fiscale dell’indennità di trasferta è disciplinato dall’art. 51, comma 5, del TUIR, il quale – per le trasferte all’estero – prevede il totale esonero dalla tassazione dell’indennità forfetaria per un importo pari a € 77,47 al giorno (gli importi superiori sono da considerarsi imponibili).

Il rimborso misto prevede invece il ristorno dei costi documentati per vitto e/o alloggio oltre a una somma a titolo di indennità forfetaria. Queste particolari fattispecie prevedono un abbassamento del limite di esenzione della diaria forfetizzata che viene ridotto di un terzo (diventando pari a € 51,65), nel caso in cui siano rimborsate le spese di vitto con il sistema c.d. a piè di lista documentato (o comunque laddove il vitto venga fornito gratuitamente), oppure siano rimborsate le spese di alloggio con lo stesso sistema a piè di lista documentato (o comunque laddove l’alloggio venga fornito gratuitamente). Nell’ipotesi in cui vengano concessi gratuitamente (o rimborsati col medesimo sistema) sia il vitto che l’alloggio, il limite previsto per la diaria giornaliera esente forfetizzata diventa pari a € 25,82.

La terza opzione concernente l’indennità di trasferta è quella del sistema di rimborso meramente analitico o a piè di lista, in base al quale ogni spesa relativa al viaggio di lavoro viene rimborsata in base alla documentazione effettivamente prodotta. In questa ipotesi, qualora dovessero esserci residue somme prive di documentazione (mance, bar, giornali, parcheggio, etc.), che il lavoratore dichiara di avere comunque sostenuto nel corso e in dipendenza dell’attività svolta all’estero, le stesse potranno essere riconosciute a titolo di “spese non documentate” nell’importo massimo giornaliero esente sempre pari a € 25,82.

Le tre citate differenti opzioni di rimborso non devono comportare squilibri agli effetti dell’esonero della spesa dalla tassazione. Ergo, pare appena il caso di precisare che non sarà possibile, con la scusa di avere scelto il metodo del rimborso analitico, ricomprendere in esenzione una serie di spese (per quanto inerenti e documentate), le quali eccedano il limite massimo giornaliero forfetario previsto dalla disposizione.

Sempre in tema di trattamento fiscale, corre inoltre l’obbligo di riportare la disposizione attinente ai c.d. “assegni di sede”, che evidentemente nulla hanno a che fare con i rimborsi e le diarie di cui sopra. Il comma 8, dell’art. 51 del TUIR, in proposito prescrive: “Gli assegni di sede e le altre indennità percepite per servizi prestati all’estero costituiscono reddito nella misura del 50 per cento. Qualora l’indennità per servizi prestati all’estero comprenda emolumenti spettanti anche con riferimento all’attività prestata nel territorio nazionale, la riduzione compete solo sulla parte eccedente gli emolumenti predetti.” 

Prima di chiudere questo capitolo sulla trasferta, pare doverosa una piccola considerazione a parte per i trasfertisti. Molti lavoratori inviati all’estero possono essere assimilati alla figura dei trasfertisti, i quali – ricordiamo – sono coloro che si obbligano, espressamente per contratto, nei confronti del datore di lavoro, a prestare la propria attività lavorativa in sedi di lavoro sempre diverse.

L’indennità dei trasfertisti è una maggiorazione della retribuzione in misura fissa. In tali ipotesi, l’art. 51, comma 6, del TUIR stabilisce che: “Le indennità e le maggiorazioni di retribuzione spettanti ai lavoratori tenuti per contratto all’espletamento delle attività lavorative in luoghi sempre variabili e diversi, anche se corrisposte con carattere di continuità, concorrono a formare il reddito nella misura del 50% del loro ammontare.” 

Appare superfluo precisare che, laddove si sia scelto il trattamento forfetario riconosciuto per i trasfertisti, non sarà possibile applicare anche l’ulteriore esenzione giornaliera di trasferta. Pertanto, in questo caso anche il solo importo giornaliero forfetario di € 77,47 dovrà essere considerato come interamente imponibile.

Il trasferimento

Il trasferimento si può definire come il mutamento definitivo del luogo geografico di svolgimento della prestazione lavorativa, presso una sede differente rispetto al luogo originario di lavoro.

Nella pratica, si verificano assai di rado delle ipotesi di trasferimento all’estero. Al riguardo, giova ricordare come sia assolutamente lecito eventualmente tutelarsi con un patto di inamovibilità. Ciononostante, teoricamente è possibile che si attui un trasferimento su domanda del dipendente (allettato da guadagni molto più elevati). Di fatto, peraltro, dette ipotesi di trasferimento derivano quasi sempre da accordi consensuali tra datore di lavoro e dipendente.

La forma e il contenuto dell’atto di trasferimento sono liberi, ma occorre riporre particolare attenzione su alcuni fattori, primo fra tutti, l’individuazione dell’unità produttiva, definita come ogni articolazione autonoma dell’impresa, idonea a espletare, in tutto o in parte, l’attività di produzione di beni o di servizi costituente l’oggetto sociale aziendale.

In secondo luogo, risulteranno essere fondamentali per la validità del trasferimento le giustificazioni poste alla base dell’atto, il cui onere della prova incombe sul datore di lavoro, indicate nell’art. 2103 del Codice Civile: “Il lavoratore non può essere trasferito da un’unità produttiva a un’altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive. Ogni patto contrario è nullo”. Da ciò derivano le eventuali fattispecie di nullità dell’atto di trasferimento, che possiamo sinteticamente indicare – per l’appunto – nella mancanza di adeguata prova concernente le ragioni tecniche, organizzative e produttive, che lo hanno determinato.

Esistono, peraltro, ulteriori ipotesi che determinano l’annullamento del trasferimento; si tratta di quelle riguardanti:

  • i lavoratori che ricoprono cariche di consiglieri comunali o provinciali (art. 27, L. 816/1985);
  • i lavoratori genitori o familiari che assistono con continuità un parente o un affine entro il terzo grado disabile (art. 33, commi 5 e 6, L. 104/1992);
  • le lavoratrici-madri (o i lavoratori-padre), fino al 1° anno di età del bambino (art. 56, commi 1 e 2, D.lgs. 151/2001);
  • i lavoratori dirigenti sindacali aziendali sino all’anno successivo alla cessazione della carica (art. 22, comma 1, Stat. Lav.);
  • le altre categorie di lavoratori eventualmente specificate nel rispettivo contratto collettivo di riferimento.

 

L’atto di trasferimento deciso dal datore di lavoro in violazione di una delle suddette motivazioni potrà essere contestato entro 60 giorni dalla sua data di ricezione da parte del lavoratore. Nel caso in cui il datore di lavoro non ritiri il trasferimento o comunque non addivenga ad altro accordo o arbitrato conciliativo con il lavoratore, entro i successivi 180 giorni, quest’ultimo procederà col deposito del ricorso presso la cancelleria del Tribunale.

Per quanto, infine, concerne il trattamento fiscale, si rammenta la disciplina dettata dal comma 7, art. 51, TUIR, il quale stabilisce che: “Le indennità di trasferimento, quelle di prima sistemazione e quelle equipollenti, non concorrono a formare il reddito nella misura del 50 per cento del loro ammontare, per un importo complessivo annuo non superiore a € 4.648,11, per il trasferimento fuori dal territorio nazionale. Se le indennità in questione, con riferimento allo stesso trasferimento, sono corrisposte per più anni, la presente disposizione si applica solo per le indennità corrisposte per il primo anno. Le spese di viaggio, ivi comprese quelle dei familiari fiscalmente a carico, e di trasporto delle cose, nonché le spese e gli oneri sostenuti dal dipendente in qualità di conduttore, per recesso dal contratto di locazione in dipendenza dell’avvenuto trasferimento della sede di lavoro, se rimborsate dal datore di lavoro e analiticamente documentate, non concorrono a formare il reddito anche in caso di contemporanea erogazione delle suddette indennità.”

Dunque, sia che si tratti di trasferte che di trasferimenti, la logica di applicazione del sistema di esenzione resta (come è ovvio che sia) immutata.

Il distacco

La materia del distacco dei lavoratori all’estero è argomento particolarmente lungo e complesso, più volte oggetto di precisazioni da parte dell’INPS e dell’INAIL, nonché di decisioni della giurisprudenza di legittimità. Non essendo possibile, per evidenti necessità di trattazione, esporne compiutamente ogni singolo aspetto in questa sede, ci limiteremo a delinearne la normativa generale di riferimento, riservandoci di riprendere e trattare approfonditamente il tema in altra prossima occasione.

L’ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro soggetto per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa. Il datore di lavoro distaccante rimane responsabile del trattamento economico e normativo a favore del lavoratore. Quando il distacco avvenga in violazione di quanto precede, il lavoratore interessato potrà chiedere, mediante ricorso giudiziale notificato anche soltanto al soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione, la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro alle dipendenze di quest’ultimo.

Occorre subito precisare alcune limitazioni di carattere generale. Innanzitutto, il distacco che comporti un mutamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato. Quando, inoltre, si sostanzi in un trasferimento presso un’unità produttiva situata a più di 50 km da quella in cui il lavoratore è normalmente adibito, il distacco potrà di regola avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.

Dunque, il distacco del lavoratore non comporta una novazione soggettiva e il sorgere di un nuovo rapporto di lavoro con il beneficiario della prestazione lavorativa, ma solo una modificazione nell’esecuzione dello stesso rapporto, nel senso che l’obbligazione del lavoratore di prestare la propria opera viene adempiuta non in favore del datore di lavoro, ma in favore del soggetto presso il quale il datore medesimo ha disposto il distacco del dipendente; cosicché il datore di lavoro distaccante rimane il soggetto tenuto all’adempimento degli obblighi previdenziali derivanti dal rapporto di lavoro e a corrispondere al lavoratore la retribuzione.

In sostanza, nel distacco, tutti gli altri aspetti del rapporto di lavoro diversi dalle modalità di esecuzione della prestazione restano invariati: il lavoratore continuerà, di regola, a svolgere la medesima prestazione e il datore di lavoro continuerà a essere l’unico soggetto tenuto all’adempimento degli obblighi retributivi, previdenziali, contributivi, nonché a detenere il potere direttivo generale e di controllo (incluso quello di determinare la cessazione del distacco).

L’art. 30 del D.Lgs. 276/2003 ha dettato una serie di criteri caratterizzanti le operazioni di distacco dei lavoratori, primo fra tutti, la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante da parte del datore di lavoro distaccante.

Il Ministero del Lavoro ha fornito una lettura estensiva del requisito, specificando che il distacco può essere legittimato da qualsiasi interesse produttivo del distaccante che non coincida con quello della mera somministrazione di lavoro altrui. Il distacco deve, pertanto, realizzare uno specifico interesse imprenditoriale (anche non economico), che consenta di qualificare il distacco quale atto organizzativo dell’impresa che lo dispone, determinando una mera modifica delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa e il conseguente carattere non definitivo del distacco stesso.

Ulteriore peculiarità del distacco, come detto, è la temporaneità. Secondo il consolidato orientamento della Cassazione, ai fini della legittimità del distacco, la durata deve coincidere con quella dell’interesse del datore di lavoro distaccante a che il proprio dipendente presti la sua opera in favore di un terzo.

Infine, l’elemento che ha generato maggiormente discussioni; vale a dire, l’esistenza di un legame organico tra impresa distaccante e lavoratore distaccato, in base al quale, l’operazione:

  • non può prescindere dalla verifica che detto legame discenda e permanga inalterato durante tutto il periodo del distacco sulle stesse basi che avevano originato il rapporto di lavoro all’atto dell’assunzione;
  • implica che il potere di risoluzione del contratto di lavoro che si realizza con il licenziamento sia attribuito esclusivamente all’impresa distaccante (fermo restando che nello svolgimento quotidiano del proprio lavoro, il dipendente riceverà le direttive pratiche quotidiane dal datore di lavoro distaccatario);
  • comporta che permanga nei poteri dell’impresa distaccante anche quello di determinare la “natura” del lavoro svolto dal soggetto distaccato, intendendo sotto questo profilo non certo la facoltà di delineare nei minimi dettagli il tipo di lavoro da svolgere e le relative modalità di svolgimento, ma certamente quella più generale di decidere il risultato finale da conseguire;
  • implica ancora che l’obbligo della retribuzione e quelli a ciò connessi, restino a carico dell’impresa distaccante.

Un’ipotesi che si verifica assai di frequente in campo internazionale è quella del distacco all’interno dei gruppi di impresa. Spesso la società capogruppo ha interesse a che l’attività delle proprie consociate estere sia svolta nel rispetto di determinati parametri, al fine di rendere più efficiente e produttivo il gruppo stesso.

Il distacco infra-gruppo, da un certo punto di vista, non presenta peculiarità tali da differenziarlo rispetto a un qualunque altro comune distacco, poiché il collegamento economico e funzionale fra imprese gestite da società del medesimo gruppo, pur controllate da una società madre, non comporta il venir meno della singola autonomia in capo alle varie società, in ogni caso dotate di distinta soggettività giuridica.

Da altro verso, l’interesse della capo- gruppo è espressione dell’interesse di tutto il gruppo e, conseguentemente, anche di quello di ogni singola società appartenente al gruppo. Pertanto, il distacco inteso quale prestito di personale a favore di un soggetto terzo per soddisfare un interesse del distaccante, trova legittima applicazione anche in tali fattispecie e, anzi, risulta presuntivamente e a priori dimostrato quale esigenza di carattere organizzativo generale.

Nonostante, infatti, il parere desumibile dalle circolari ministeriali, con espresso riferimento ai distacchi all’interno dei gruppi di imprese, fosse stato inizialmente valutato con maggiore rigore, recentemente, il Ministero del Lavoro (Interpello N. 1 del 20.01.2016) ha chiarito che se il distacco viene attuato tra imprese che fanno capo allo stesso gruppo, il requisito dell’interesse può ritenersi sempre esistente, al pari di quanto accade per i distacchi disposti tra aziende che hanno sottoscritto un contratto di rete.

Altro chiarimento importante fornito dal Ministero nell’interpello 1/2011 è quello relativo alla sede di svolgimento della prestazione lavorativa. Sul punto è stato precisato che la prestazione del lavoratore presso una sede di lavoro diversa da quella del distaccatario costituisce un elemento di fatto della prestazione che potrà eventualmente essere valutato, unitamente agli altri, per verificare l’effettiva sussistenza dei requisiti di legittimità e l’assenza di condotte elusive della normativa in esame; ma questo non risulta peraltro essere un elemento definitivo, ben potendo il lavoratore in distacco prestare la propria attività anche in altre sedi.

Infine, un caso particolare è quello del distacco parziale; in tale ipotesi, la prestazione lavorativa viene svolta, in parte, presso il distaccatario, e, per la restante parte, continua a essere eseguita presso il datore di lavoro distaccante.

Dal punto di vista fiscale e previdenziale, nulla cambia rispetto alla normale situazione del dipendente che svolge l’ordinario lavoro presso il datore di lavoro che lo ha assunto, permanendo – come detto – durante l’operazione di distacco, il rapporto in capo al datore di lavoro distaccante, in tutto e per tutto.

L’unico aspetto che occorrerà ponderare sarà quello legato alla retribuzione: non solo con riguardo alle eventuali diarie per le trasferte (su cui già si è abbondantemente scritto), quanto piuttosto con espresso riferimento alle retribuzioni contrattualmente previste nei singoli Paesi relativamente ai lavoratori che eseguono mansioni analoghe: si ricorda, infatti, che non sarà mai consentito sfruttare lo strumento del distacco per approfittare di un’eventuale favorevole perequazione rispetto agli ordinari costi (salari e stipendi standard) della manodopera.

L’unica questione pratica che si ritiene il caso di precisare concerne la materia infortunistica.

I premi INAIL, pur se a carico del distaccante, dovranno essere calcolati sulla base dei rischi e delle tariffe che sono applicate al distaccatario. Pertanto, il distaccante sarà tenuto a calcolare il premio dovuto per il lavoratore in distacco, applicando la corrispondente voce di rischio rientrante nella gestione tariffaria in cui risulta essere inquadrata l’impresa distaccataria (nota INAIL del 10.06.2005 e successiva circolare N. 39 del 02.08.2005).

A parere dell’Istituto, si potranno distinguere le seguenti tre ipotesi:

I) se la lavorazione da porre in essere presso l’impresa distaccataria coincide con quella svolta presso l’impresa distaccante, l’obbligo assicurativo risulterà regolarmente adempiuto mediante conferma dell’inserimento del lavoratore in distacco nella PAT originaria del distaccante;

II) se la lavorazione è, viceversa, differente da quella svolta presso il distaccante, il lavoratore sarà inserito in ulteriore PAT, sempre peraltro accesa dal distaccante;

III) se il distacco è di tipo parziale, con il lavoratore che esercita contemporaneamente diverse mansioni presso il distaccante e il distaccatario, si ripartiranno proporzionalmente (in base all’orario eseguito) le retribuzioni erogate tra le diverse PAT, sempre entrambe attivate dal datore di lavoro distaccante.

Svariate e complesse sono, poi, le procedure da osservare per mettere in atto il distacco in funzione del Paese in cui ha sede l’impresa distaccataria. Ma, in proposito, come già indicato in premessa, per ragioni di spazio, dobbiamo necessariamente rimandare il lettore a un successivo approfondimento. Prima di concludere, a completamento del presente elaborato, pare peraltro opportuno ricordare anche la particolare normativa afferente la figura dei “frontalieri”.

Ai fini fiscali, il Ministero delle finanze, nella circolare 1/E del 3 gennaio 2001, ha voluto tracciare la figura del lavoratore frontaliero evidenziando che: “Si tratta esclusivamente di quei lavoratori dipendenti che sono residenti in Italia e quotidianamente si recano all’estero (zone di frontiera o paesi limitrofi) per svolgere prestazioni di lavoro”.

Occorre, inoltre, rilevare che il Regolamento CE N. 883/2004, emanato dal Parlamento europeo e dal Consiglio del 29 aprile 2004, ha definito la figura del lavoratore frontaliero delineandone ulteriormente i parametri, come: “Qualsiasi persona che esercita un’attività subordinata o autonoma in uno Stato membro e che risiede in un altro Stato membro, nel quale ritorna in linea di massima ogni giorno e almeno una volta alla settimana”.

Non rientreranno, dunque, in tali previsioni le ipotesi concernenti i lavoratori dipendenti, anch’essi residenti in Italia, i quali, in forza di uno specifico contratto che prevede l’esecuzione della prestazione all’estero in via continuata e come oggetto esclusivo del rapporto, previa sistemazione nel ruolo estero, soggiornino all’estero per un periodo superiore a 183 giorni. Per questi ultimi lavoratori – come noto – si applica la tassazione prevista dall’art. 51, comma 8-bis, del TUIR.

Da un punto di vista prettamente operativo, si ricorda infine che i redditi derivanti dal lavoro dipendente prestato all’estero in zone di frontiera, in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto, concorrono (per l’anno 2015) a formare il reddito complessivo, per l’importo eccedente € 7.500 (prima era € 6.700).

*ODCEC Cagliari

 

 

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