Malattie a cavaliere di due o più anni solari

di Pietro Aloisi Masella*

Gli eventi di malattia che iniziano in un anno e continuano nell’anno successivo per un unico evento o per diversi eventi, molto spesso, sono “oggetto” di dubbi interpretativi sugli obblighi del datore di lavoro per il pagamento dell’indennità, per il calcolo delle giornate di comporto e per gli aspetti connessi.

Ciò non toglie che le disposizioni emanate dall’Inps siano chiare e, di fatto, ormai consolidate nel tempo.

Il periodo di comporto per malattia consiste in un lasso di tempo in cui il lavoratore, pur assente dal lavoro, ha il diritto alla conservazione del proprio posto di lavoro. Questo periodo di tempo è generalmente stabilito dalla legge e regolato dai contratti collettivi o, in mancanza di riferimenti, dagli usi e dalla prassi.

Le regole, che di seguito si riassumo, sono estratte dalle Circolari Inps n. 134368, del 28/1/1994, n. 45, del 5/5/1987, n. 144, del 27/6/1988 e n. 145, del 28/6/1993 che, di fatto, determinano le regole generali per la corretta gestione delle malattie. Nel caso di malattia insorta nel corso di un anno solare e protrattasi senza interruzione nell’anno solare successivo, trova applicazione il principio secondo cui le giornate di malattia devono essere attribuite – ai fini del periodo massimo indennizzabile di 180 giorni – ai rispettivi anni solari.

Un esempio chiarisce l’impostazione: un lavoratore si ammala il primo di ottobre del 2019 e prosegue l’evento nell’anno successivo senza alcuna interruzione.

Nel corso del 2019 effettua 92 giorni di malattia e dal primo giorno dell’anno successivo il conteggio dei 180 giorni riparte da zero.

Pertanto è opportuno, per stabilire se e quali giornate della malattia a cavaliere debbano essere indennizzate, mantenere distinti i periodi della malattia tra quelli dell’anno di insorgenza e quelli dell’anno successivo. Le giornate della malattia a cavaliere, cadenti nell’anno successivo a quello di insorgenza, devono essere indennizzate secondo le norme comuni, nel limite cioè delle 180 giornate di indennità nel corso del nuovo anno solare, anche nel caso in cui le giornate della malattia a cavaliere cadenti nell’anno di insorgenza dell’evento siano state escluse dall’indennità – tutte o in parte – per superamento del periodo massimo indennizzabile.

Nel computo dei periodi di malattia debbono essere incluse tutte le giornate di calendario indipendentemente che queste siano indennizzate dall’Inps, dal datore di lavoro, o da entrambi per quota parte o non indennizzate affatto. In ordine al limite massimo indennizzabile dei 180 giorni, l’Inps ha precisato che esso è riferibile unicamente agli eventi di malattia indennizzabili dall’Istituto in quanto tali e, pertanto, non devono essere ricompresi episodi morbosi tutelabili da Enti o soggetti diversi, ovvero interessanti altre gestioni affidate dalla legge all’Inps.

Ne consegue che sono esclusi dal computo anzidetto:

  • i periodi di astensione (obbligatoria e facoltativa) per maternità;
  • le malattie che fossero connesse con la maternità stessa;
  • gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali;
  • le malattie tubercolari;
  • le malattie originate da fatto colposo o doloso di terzi, relativamente alle quali l’Istituto abbia esperito – anche se con esito parzialmente positivo – l’azione di surrogazione.

Per quanto ovvio, anche l’eventuale periodo di mancato pagamento dell’indennità nell’anno di insorgenza dell’evento, deve essere adeguatamente documentato con l’invio della normale certificazione sanitaria. Per meglio chiarire: se un lavoratore nel corso di un anno termina il periodo di 180 giorni indennizzabile, ma per norma contrattuale mantiene la conservazione del posto di lavoro senza indennità, al fine della sussistenza dell’evento, dovrà continuare a produrre al datore di lavoro la certificazione obbligatoria.

Nel caso in cui si verifichi la ripresa di indennizzo nell’anno successivo a quello di insorgenza (quello che inizia il 1° gennaio dell’anno successivo all’insorgere della malattia), e il rapporto di lavoro risulti cessato o sospeso da oltre due mesi, nessuna indennità a carico dell’Istituto compete al lavoratore.

Se, invece, all’inizio del secondo ciclo di indennizzo il rapporto di lavoro risulti cessato o sospeso da meno di due mesi, competerà la prestazione economica al lavoratore, anche se in misura ridotta.

Mentre il concetto di «cessazione» del rapporto di lavoro non dà luogo a particolari problemi interpretativi, si ritengo opportune alcune osservazioni su quello di «sospensione».

Al riguardo l’Inps precisa che non sussiste «sospensione» nei casi di corresponsione di emolumenti, anche parziali, da parte dell’azienda al lavoratore ammalato.

Di norma ciò si verifica per tutto il periodo c.d. «di comporto», durante il quale il datore di lavoro è tenuto alla conservazione del posto.

Sussiste, invece, la «sospensione» nell’ipotesi di superamento del periodo di comporto generalmente previsto dalla contrattazione collettiva.

Qualora, infatti, alla accennata scadenza contrattuale prevista, il rapporto, come è facoltà delle parti, non venga risolto, la situazione in cui viene a trovarsi il lavoratore ammalato è definibile appunto di «sospensione».

Qualora alla data del 1° gennaio dell’anno successivo a quello di insorgenza della malattia, il rapporto di lavoro sia da ritenersi ancora in atto – per non essere intervenute nel frattempo dimissioni o sospensione – l’indennità di malattia compete nella misura intera. Al contrario, ove il 1° gennaio dell’anno successivo a quello di insorgenza della malattia, il rapporto di lavoro debba ritenersi cessato o sospeso da non oltre due mesi, la misura dell’indennità sarà ridotta e verrà corrisposta direttamente dall’Inps.

Nessuna indennità compete invece qualora il 1° gennaio dell’anno successivo a quello di insorgenza della malattia il rapporto di lavoro risulti cessato o sospeso da oltre due mesi.

L’Inps ribadisce che, nel caso di «malattie a cavaliere», l’indennità economica può essere riconosciuta soltanto nell’anno immediatamente successivo a quello di inizio della malattia stessa, mentre, negli anni seguenti, tale diritto è subordinato alla ripresa dell’attività lavorativa, ovviamente anche presso diverso datore di lavoro.

Generalmente, durante il periodo di comporto, il datore di lavoro non può licenziare il lavoratore fintanto che persiste lo stato morboso. In ogni caso esistono alcune deroghe alle disposizioni di tutela dei lavoratori:

  • rapporto a tempo determinato: l’indennità non può essere successiva alla scadenza del contratto nell’ipotesi di assenza di proroghe;
  • lavoratore in prova può essere licenziato anche se è in malattia, per mancato superamento della prova;
  • infine l’ultimo caso riguarda l’apprendista il cui contratto non viene confermato al termine del periodo di formazione: lo stesso quindi può essere “licenziato” anche se in malattia.

Alcune deroghe sul periodo di comporto possono essere previste dalla contrattazione nazionale per specifiche patologie allungando, di fatto, i termini di conservazione del posto di lavoro.

* Odcec Roma

 

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