Rassegna di Giurisprudenza

Divieto di licenziamento ance per il dirigente

di Bernardina Calafiori e Simone Brusa* 

Ordinanza tribunale di Roma, 26 febbraio 2021

Massima: Il divieto transitorio dei licenziamenti individuali riconducibili ad esigenze economiche e organizzative aziendali previsto dalla normativa emergenziale si applica anche al rapporto di lavoro dei dirigenti. 

Un dirigente veniva licenziato per giustificato motivo oggettivo con lettera datata 23 luglio 2020 per soppressione del ruolo aziendale di Credit Manager, in conseguenza alla soppressione della posizione decisa dal datore di lavoro nel quadro di una riorganizzazione interna dovuta al calo dell’attività aziendale determinato dalla pandemia.

Il dirigente impugnava il licenziamento, asserendo che il recesso datoriale fosse nullo per violazione del divieto dei licenziamenti individuali per motivo oggettivo introdotto, in ragione dell’emergenza pandemica, dall’art. 46 del Decreto Cura Italia (d.l. n. 18/2020) e prorogato dall’art. 80 del Decreto Rilancio (d.l. n. 34/2020).

Il dirigente chiedeva pertanto la reintegrazione sul posto di lavoro ai sensi dell’art. 18, comma 1 della legge n. 300/1970, oltre al pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento alla data della reintegra.

In subordine, il dirigente contestava le ragioni oggettive su cui era stato fondato il licenziamento e, su tali presupposti, chiedeva la tutela risarcitoria prevista dal Ccnl Dirigenti Terziario.

La Società rimaneva contumace (e non è escluso che ciò abbia in qualche modo inciso sull’esito della causa).

Il Giudice romano esaminava in primo luogo la domanda principale basata sulla normativa del c.d. “blocco dei licenziamenti”.

La norma in questione (art. 80 del d.l. n. 34/2020) prevedeva (e, in modo analogo, prevede la normativa ancora oggi in vigore) che “Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604”. 

Lo specifico riferimento alla legge n. 604/1966 aveva portato alcuni lettori ad escludere i dirigenti dai destinatari del “blocco” in quanto la legge n. 604/1966, all’art. 10, prevede l’applicazione di tale normativa solo ai “prestatori di lavoro che rivestano la qualifica di impiegato e di operaio”. 

Diversa è stata invece l’interpretazione del Giudice romano secondo cui una simile esclusione dei dirigenti dal “blocco” sarebbe irragionevole ai sensi dell’art. 3 della Costituzione (sulla base della ratio della norma per cui l’esigenza di evitare che “il danno pandemico si scarichi sistematicamente ed automaticamente sui lavoratori” sarebbe comune anche ai dirigenti).

A tale primo ragionamento, il Tribunale affianca l’osservazione per cui l’interpretazione letterale sarebbe ulteriormente irragionevole in quanto escluderebbe i dirigenti dal “blocco” dei licenziamenti individuali, quando la medesima normativa emergenziale comprende gli stessi nel novero dei lavoratori che non possono essere licenziati mediante licenziamento collettivo.

Infine, il Giudice romano prova a superare anche il richiamo specifico all’art. 3 della legge n. 604/1966 affermando che tale riferimento mirerebbe “ad identificare la natura della ragione impassibile di essere posta a fondamento del recesso, e non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto”.

Alla luce di tali osservazioni, il Giudice ha ritenuto il licenziamento nullo per contrasto con il divieto dei licenziamenti introdotto dalla normativa emergenziale di contenimento dell’emergenza sanitaria da Covid-19, e ha, quindi, disposto la reintegrazione del dirigente, unitamente al risarcimento della retribuzione dal licenziamento alla reintegrazione.

***

Non si qualifica come “insubordinazione grave” l’accesso del dipendente tramite credenziali possedute in modo legittimo a file non protetti della società

di Bernardina Calafiori e Michele Pellegatta * 

Un istituto bancario licenziava per giusta causa una propria dipendente per aver effettuato un accesso ad una cartella di documenti riservati senza alcuna autorizzazione.

Il Tribunale di Velletri e, successivamente, la Corte d’appello di Roma dichiaravano l’illegittimità del licenziamento intimato.

La Corte di merito rilevava come: “effettivamente i comportamenti contestati dalla Banca attenevano al

«trattamento ed al possesso di dati molto rilevanti della Banca, che esulavano dalle mansioni della dipendente» ed «all’accesso ai medesimi mediante propri user id e password per mezzo di collegamento con la cartella segreteria generale senza aver avuto all’uopo alcuna autorizzazione». Tuttavia la Banca, nel caso di specie, “non aveva contestato alcun uso indebito di detti dati” di talché si trattava “di condotte che presentano una connotazione di pericolo soltanto «iniziale» […] e come tali inidonee a giustificare la massima sanzione espulsiva”.

La banca promuoveva ricorso per cassazione avverso tale pronuncia.

La Suprema Corte, con la recente sentenza n. 8957 pubblicata in data 31 marzo 2021, ha rigettato il ricorso dell’istituto.

La sentenza in commento conferma l’iter argomentativo del Collegio territoriale laddove ha affermato che “non può essere ritenuta grave forma di insubordinazione l’accesso a quei files, non seguito da indebito uso degli stessi considerato che l’user id e password – pacificamente posseduti in modo legittimo dalla dipendente – comunque le consentivano sul piano tecnologico e informatico

  • l’accesso a quei files che dunque non erano protetti”. Da ciò conseguiva che “l’insubordinazione manifestata dalla dipendente è stata di grado minimo, considerando che all’ordine di servizio della banca” di non accedere ai files “non aveva fatto seguito da parte della banca l’adozione di un accorgimento tecnologico (certamente possibile, secondo massime di comune esperienza) per impedire alla dipendente l’accesso a quei files mediante i suoi legittimi user id e password”.

La pronuncia richiama inoltre alcuni propri precedenti (fra cui, ex multis, Cass. 25608/2014) e afferma come “il licenziamento disciplinare è giustificato nel caso in cui i fatti attribuiti al lavoratore rivestano il carattere di grave violazione di obblighi del rapporto di lavoro, tali da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario, il giudice di merito deve valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo”.

A tali principi si era attenuta la Corte d’appello che “ha tratto le conseguenze logico- giuridiche in termini di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata” laddove ha rilevato “la condotta della lavoratrice non fosse così grave da compromettere il vincolo fiduciario in modo tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro o da mettere in dubbio la futura correttezza dell’adempimento da parte della stessa”.

* Avvocato Studio Legale Daverio & Florio

 

 

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