Rassegna di Giurisprudenza

a cura di Bernardina Calafiori* 

Cass. Civ. Sez. lav., sentenza 8 luglio 2018, n. 19096: 

Retribuzione – Socio Lavoratore – Riduzione per crisi aziendale – Mancata previsione di un termine – Elemento essenziale – Sussiste. 

Devono considerarsi illegittime le riduzioni dei trattamenti retributivi dei soci lavoratori disposte al di sotto del minimo previsto dalla contrattazione collettiva di settore, ove attuate a fronte di uno stato di crisi aziendale, ogniqualvolta il provvedimento di riduzione non indichi un “termine finale” dello stato di crisi e, quindi, delle predette riduzioni”.

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe aveva ad oggetto l’impugnazione, da parte di due socie lavoratrici, della delibera del 6 febbraio 2004 con cui la Cooperativa datrice di lavoro riduceva il loro trattamento retributivo al di sotto del minimo previsto dal “Ccnl Trasporto Merci” (e cioè, del contratto collettivo applicabile nel caso concreto).

A sostegno delle proprie domande, le socie lavoratrici deducevano che l’art. 6, lett. d), legge n. 142/2001 – a quanto consterebbe, invocato dalla stessa datrice di lavoro nel corso del giudizio – ha sì inteso riconoscere all’assemblea la possibilità di ridurre, temporaneamente ed a fronte di uno stato di crisi aziendale, i trattamenti retributivi dei soci lavoratori, ma ciò limitatamente a quelli “integrativi”, senza dunque includere i trattamenti “minimi” stabiliti direttamente dalla contrattazione collettiva.

Il Giudice di primo grado accoglieva integralmente le domande delle socie lavoratrici e dichiarava illegittima l’impugnata delibera. La pronuncia di prime cure veniva, poi, integralmente confermata dalla Corte di Appello di Torino.

La Cooperativa datrice di lavoro impugnava la statuizione di secondo grado, ritenendo, per contro, legittima la riduzione del trattamento retributivo, posto che la lett. e) dell’art. 6 ult. cit. ammetteva la possibilità, per l’assemblea, di deliberare “forme di apporto anche economico, da parte dei soci lavoratori, alla soluzione della crisi, in proporzione alle disponibilità e capacità finanziarie”.

In tale ottica, pertanto, anche la rinunzia del socio lavoratore a parte del trattamento retributivo minimo avrebbe costituito una “forma di apporto” (seppure, verrebbe da dire, “indiretta” e non già “diretta”).

Tale ultima interpretazione è stata avallata dalla Corte di Cassazione, anche perché nessuna disposizione della legge n. 142/2001 opera una specifica distinzione tra trattamenti retributivi ritenuti tangibili e trattamenti retributivi ritenuti intangibili. Anzi, la legge utilizzerebbe la dicitura “trattamento retributivo” in modo unitario ed indiscriminato.

Sicché, a fronte di uno stato di crisi aziendale, di cui i soci lavoratori sono chiamati a farsi “proporzionalmente” carico, ben può essere disposta dall’assemblea una riduzione del trattamento retributivo anche inferiore al minimo previsto dalla contrattazione collettiva di settore.

Ciononostante, la Suprema Corte ha ritenuto di dover comunque rigettare il ricorso della datrice di lavoro poiché la riduzione di cui alla delibera del 6 febbraio 2004 non prevedeva alcun “termine finale”. Di modo che, proseguiva il Supremo Collegio, tale riduzione era avvenuta, e sarebbe continuata ad avvenire, ininterrottamente.

In particolare, i Giudici di legittimità precisavano che sebbene la legge n. 142/2001 non prevedesse la “temporaneità” della riduzione come requisito essenziale della stessa, nondimeno doveva ritenersi corretta l’interpretazione della Corte di Appello allorquando ha ritenuto rilevante ed essenziale tale profilo temporale “ai fini della possibilità di deliberare riduzioni retributive nell’ambito di una crisi aziendale”.

E ciò perché l’essenzialità di tale profilo risponde all’esigenza di evitare possibili abusi da parte della Cooperativa a danno dei soci lavoratori.

Con il provvedimento in epigrafe, la Corte di Cassazione ha inteso dare continuità a quell’orientamento giurisprudenziale a mente del quale la Cooperativa che intenda ridurre i trattamenti retributivi dei propri soci lavoratori deve dimostrare (i) l’effettività dello stato di crisi aziendale, (ii) la temporaneità degli interventi adottati e (iii) il loro nesso di causalità (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 28 agosto 2013, n. 19832).

Tale orientamento che, di certo, risulta coerente con le finalità “mutualistiche” che pure regolamentano il rapporto di lavoro tra le cooperative ed i propri soci lavoratori, rischia tuttavia di imporre alle prime un onere eccessivo, qual è quello di preventivare uno stato di crisi che, magari, è determinato da congiunture di mercato (e, dunque, da fattori esterni che prescindono  dalla volontà e disponibilità del singolo datore di lavoro).

* * *

Cass. Civ. Sez. lav., sentenza 24 luglio 2018, n. 19632:

 

Licenziamento – Assenza ingiustificata

  • Guadagno fraudolento – Contestazione generica intento fraudolento – Mancanza
  • Illegittimo 

Il datore di lavoro che contesti al dipendente l’alterazione del sistema di rilevazione delle presenze, di modo che il lavoratore risultasse presente in giorni in cui, invece, era assente e così fraudolentemente beneficiando di compensi che altrimenti non gli sarebbero dovuti, è tenuto a contestare dettagliatamente anche il carattere fraudolento della condotta medesima”.

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe aveva ad oggetto l’impugnazione, da parte di una lavoratrice, del licenziamento a lei comminato a seguito della di lei alterazione manuale delle timbrature del sistema di rilevazione automatica delle presenze.

Allo stesso tempo, però, il datore di lavoro contestava anche che tale alterazione sarebbe stata fraudolentemente finalizzata a garantire alla lavoratrice il pagamento di compensi altrimenti non dovuti, facendo figurare la fittizia presenza in servizio della dipendente negli orari oggetto di alterazione (e, quindi, di assenza).

Il Tribunale di Milano riteneva sussistente il primo profilo contestato alla lavoratrice, sicché dichiarava la risoluzione del rapporto di lavoro, con condanna del datore di lavoro al pagamento della sola indennità risarcitoria prevista dall’art. 18, comma 5, legge n. 300/1970, quantificata in 14 mensilità. Quello stesso profilo veniva, in seguito, confermato dalla Corte di Appello di Milano.

Per contro, la stessa Corte del merito non riteneva sussistente il secondo dei sopra menzionati profili; ed anzi, premesso che un conto è l’alterazione delle timbrature ed un altro è la fraudolenta copertura di assenze dal servizio con tali alterazioni, ha ritenuto che la fraudolenta copertura fosse stata contestata soltanto genericamente dal datore di lavoro.

Onde la declaratoria di illegittimità, sul punto, del licenziamento.

Tale statuizione veniva impugnata dal datore di lavoro eccependo, in particolare, (i) che la contestazione conteneva una dettagliata descrizione degli addebiti rispetto ai quali la lavoratrice si era compiutamente difesa e (ii) che alla lavoratrice era stato effettivamente contestato di aver falsamente certificato la sua presenza per ottenere il pagamento di compensi altrimenti non dovuti.

La Corte di Cassazione, tuttavia, rigettava il ricorso del datore di lavoro.

A supporto di tale statuizione, la Suprema Corte premetteva, anzitutto, che gli addebiti in esame non si esaurivano nell’alterazione delle timbrature degli orari di entrata e di uscita, ma ricomprendevano anche il fatto che la lavoratrice si sarebbe fraudolentemente avvantaggiata di tale alterazione per ottenere il pagamento di compensi altrimenti non dovuti.

Quindi, i Giudici di legittimità rilevavano che la contestazione disciplinare sarebbe stata del tutto generica proprio in relazione al carattere fraudolento delle timbrature alterate.

Con il provvedimento in epigrafe, la Corte di Cassazione ha inteso certamente dare continuità a quell’orientamento giurisprudenziale (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 21 febbraio 2017, n. 4453) secondo cui l’elemento soggettivo costituisce una componente essenziale del licenziamento per giusta causa e che, come tale, deve costituire oggetto di contraddittorio tra le parti e di valutazione da parte dei Giudici di merito.

Soprattutto, la Suprema Corte ha inteso dare continuità a quell’orientamento secondo cui la contestazione disciplinare deve essere “specifica”, ossia recare un’analisi dettagliata di tutti gli elementi su cui essa si basa, ivi inclusi quelli soggettivi, ove contestati, pena l’impossibilità per il lavoratore di esercitare un compiuto diritto di difesa (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 2 novembre 2016, n. 22127).

Forse, proprio l’intrinseca difficoltà per il datore di lavoro di farsi carico di una siffatta dimostrazione dovrebbe indurre ad omettere qualsiasi rilievo circa l’elemento soggettivo che avrebbe connotato la condotta del lavoratore, limitando così la contestazione al solo fatto c.d. “storico”.

* Avvocato, socio fondatore dello Studio Legale Florio 

 

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