Rassegna di giurisprudenza

a cura dell’avv. Bernardina Calafiori – socio fondatore Studio Legale Daverio & Florio 

Cass. Civ. Sez. lav., 20 settembre 2016, n. 18404

Condotta diffamatoria del lavoratore

– Licenziamento per giusta causa – Legittimità – Condotta discriminatoria dei superiori – Onere della prova gravante sul lavoratore 

Il fatto oggetto di contestazione disciplinare (invio di una e -mail anonima dal contenuto diffamatorio nei confronti di due dirigenti a numerosi altri dipendenti della società) è stato accertato e poi correttamente inquadrato come giusta causa di licenziamento in quanto integrante una diffamazione nei confronti dei superiori del lavoratore. Non può configurarsi l’esimente dello stato d’ira in mancanza della specifica prova della sussistenza di atti discriminatori asseritamente subiti in ragione dell’orientamento sessuale del ricorrente. 

Un lavoratore che, dopo aver creato un falso account di posta elettronica, aveva inviato ai propri colleghi diverse e-mail anonime aventi contenuto diffamatorio e denigratorio nei confronti dei propri superiori, veniva licenziato per giusta causa.

Il licenziamento veniva impugnato, sul presupposto che si trattasse di atto discriminatorio sulla base dell’orientamento sessuale del lavoratore, noto ai superiori.

In ogni caso, in relazione all’invio delle e-mail aventi contenuto diffamatorio, veniva invocata l’esimente dello stato d’ira, provocato dagli atti discriminatori perpetrati ai danni del lavoratore dai suoi superiori.

I giudici di merito confermavano la legittimità del licenziamento e avverso tale decisione il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione, censurando il mancato riconoscimento della natura discriminatoria del licenziamento ed invocando in ogni caso la violazione dell’art. 599 c.p., per non aver riconosciuto la sentenza impugnata l’esimente dello stato d’ira, determinato dall’altrui fatto ingiusto, consistente nelle voci diffamatorie diffuse ai suoi danni dai dirigenti che, a loro volta, si erano poi sentiti diffamati dalle e-mail anonime inviate dal lavoratore licenziato.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e confermato la legittimità del licenziamento. Nelle motivazioni la Corte ha anzitutto ribadito che la condotta diffamatoria di un lavoratore nei confronti dei propri colleghi e superiori è idonea ad integrare una giusta causa di licenziamento, richiamando altri specifici precedenti sul punto, tra cui Cass. n. 9395/2006.

Inoltre, è stata confermata la sussistenza di una lesione irrimediabile del vincolo fiduciario, adeguatamente motivata dai giudici di merito in ragione dell’intensità del dolo e delle modalità usate per diffondere il messaggio diffamatorio (scritto anonimo e creazione di un falso account di posta elettronica).

Nella specie inoltre non poteva ritenersi sussistente l’invocata esimente dello stato d’ira, in quanto il lavoratore che la invocava non aveva fornito la prova delle condotte diffamatorie e discriminatorie asseritamente poste in essere dai dirigenti dell’azienda.

Cass. Civ. Sez. lav., 20 settembre 2016, n. 18411

Superamento del periodo di comporto – Licenziamento avvenuto dopo il rientro in servizio del lavoratore nell’ambito di un ragionevole spatium deliberandi – Legittimità – Mancato rientro in servizio del lavoratore – Rinunzia tacita al diritto datoriale di recesso – Inconfigurabilità 

In tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia del lavoratore, fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo suddetto, e quindi anche prima del rientro del prestatore, nondimeno il datore di lavoro ha altresì la facoltà di attendere tale rientro per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del dipendente all’interno dell’assetto organizzativo, se del caso mutato, dell’azienda. Nel licenziamento per superamento del periodo di comporto per malattia l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale va contemperato con un ragionevole spatium deliberandi che va riconosciuto al datore di lavoro perché egli possa valutare nel complesso la convenienza ed utilità della prosecuzione del rapporto in relazione agli interessi aziendali.

 Il caso deciso con la sentenza in epigrafe riguardava un licenziamento per superamento del periodo di comporto intimato a circa anno di distanza dalla scadenza del comporto medesimo.

Nel corso dell’anno intercorso tra la data del superamento del comporto ed il successivo licenziamento, il lavoratore non era mai rientrato in servizio ed era stato nel frattempo sottoposto a diverse visite mediche collegiali, al fine di accertarne l’idoneità o meno allo svolgimento delle mansioni in relazione ad un’ulteriore aspettativa di 18 mesi (oltre il comporto) prevista dal contratto collettivo applicato in caso di sussistenza di una grave infermità.

Accertata ripetutamente l’idoneità allo svolgimento delle mansioni (e quindi l’assenza della grave infermità quale presupposto per concedere un’ulteriore aspettativa), a fronte del mancato rientro in servizio, il datore di lavoro intimava il licenziamento per superamento del periodo di comporto.

I giudici di appello dichiaravano legittimo il licenziamento e rigettavano l’impugnazione del lavoratore.

Avverso la decisione dei giudici di merito il lavoratore proponeva ricorso in Cassazione. Secondo quanto prospettato nel ricorso, l’anno trascorso tra la data di superamento del periodo di comporto e la data dell’intimazione del licenziamento configurava un’inerzia implicante la rinuncia al diritto di recedere dal rapporto di lavoro e valida ad ingenerare nel lavoratore l’affidamento nella prosecuzione del rapporto di lavoro.

La Corte di Cassazione ha ritenuto infondate tali censure e ha confermato la legittimità del licenziamento.

In particolare è stato ribadito il consolidato orientamento secondo il quale, in tema di superamento del periodo di comporto, può configurarsi una rinuncia tacita da parte del datore di lavoro ad avvalersi dal diritto di recesso, quando il lavoratore rientri in servizio e trascorra un lasso di tempo considerevole senza che intervenga alcun licenziamento.

Nel diverso caso in cui il lavoratore non sia rientrato in servizio, pur trascorso un considerevole lasso di tempo dalla scadenza del comporto, non può configurarsi alcuna rinuncia tacita al recesso.

Ciò in quanto, fermo restando il potere datoriale di recedere non appena terminato il periodo di comporto (e quindi anche prima del rientro in servizio del prestatore), il datore di lavoro ha comunque la facoltà di attendere il rientro in servizio per sperimentare in concreto se residuino o meno margini di riutilizzo del prestatore all’interno dell’assetto organizzativo dell’azienda.

Nelle motivazioni viene chiarito che “solo a decorrere dal rientro in servizio del lavoratore, l’eventuale prolungata inerzia datoriale nel recedere dal rapporto può essere oggettivamente sintomatica della volontà di rinuncia del potere di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e, quindi, ingenerare un corrispondente incolpevole affidamento da parte del dipendente (Cass. n. 24899 del 2011). Dunque, non può parlarsi in alcun modo di rinuncia tacita al recesso per superamento del periodo di comporto in casi, come quello in esame, in cui il presunto ritardo si colloca nel protrarsi dell’assenza dal lavoro e non successivamente alla ripresa del servizio”.

La Corte ha altresì confermato che, pur dopo il rientro in servizio del lavoratore, il recesso non deve essere necessariamente immediato, ma – contemperando l’interesse del lavoratore alla certezza della vicenda contrattuale con le esigenze aziendali – va comunque riconosciuto al datore di lavoro un ragionevole spatium deliberandi che gli consenta di valutare la convenienza ed utilità della prosecuzione del rapporto di lavoro.

Cass. Civ. Sez. lav., 2 settembre 2016, n. 17539

Agenti e rappresentanti – Condotta del preponente volta ad ostacolare l’attività dell’agente – Giusta causa di recesso dell’agente – Configurabilità – Art. 2119

c.c. – Applicabilità in via analogica

 Il precetto “elastico” della giusta causa di cui all’art. 2119 c.c. (seppure esplicitamente previsto in relazione al contratto di lavoro subordinato) è ben applicabile in riferimento alla peculiare ipotesi del recesso nel contratto di agenzia, dovendosi tuttavia tener conto, per la valutazione della gravità della condotta, che in quest’ultimo ambito il rapporto di fiducia (in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività per luoghi, tempi, modalità e mezzi, in funzione del conseguimento delle finalità aziendali) assume maggiore intensità rispetto al rapporto di lavoro subordinato: sicché, ai fini della legittimità del recesso, è sufficiente un fatto di minore consistenza, secondo una valutazione rimessa al giudice di merito insindacabile in sede di legittimità, se adeguatamente e correttamente motivata. 

In esito al giudizio di appello veniva riconosciuta la sussistenza di una giusta causa di recesso dell’agente, con conseguente condanna della preponente alla corresponsione dell’indennità sostitutiva del preavviso.

In particolare l’agente aveva lamentato che non gli era stato consegnato il materiale necessario per lo svolgimento dell’attività promozionale, che l’amministratore unico si era rifiutato immotivatamente di incontrarlo e che, dopo essersi informato sulle zone più lontane affidategli, gli aveva ordinato di affiancare a settimane alterne due agenti operanti uno in Friuli e l’altro in Puglia.

La Corte d’Appello riconosceva la sussistenza di una giusta causa di recesso, consistente nella volontà della preponente di arrecare disagio all’attività dell’agente.

La preponente impugnava tale decisione avanti alla Suprema Corte, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., per inesistenza di violazione di alcun inadempimento ad obbligo fondamentale della preponente integrante giusta causa di recesso dell’agente.

Secondo la prospettazione della società, la mancata consegna del materiale all’agente non poteva in alcun modo integrare una giusta causa, trattandosi di materiale pubblicitario in realtà destinato ai clienti e considerato che le informazioni tecniche per lo svolgimento delle campagne promozionali erano state fornite nel corso delle riunioni mensili cui l’agente aveva regolarmente partecipato. Inoltre la richiesta di affiancamento dei due agenti operanti in zone tanto distanti rientrava comunque nella sua normale attività di capo aerea, anche alla luce del forte calo di vendite che interessava le due zone in questione.

Ribadendo insegnamenti consolidati da tempo, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso e ritenuto corretta l’applicazione alla specie dell’art. 2119 c.c., con la precisazione che nel rapporto di agenzia la giusta causa di recesso può essere costituita anche da un fatto di minore gravità rispetto a quanto previsto per il lavoro subordinato, stante la maggiore intensità che assume nell’agenzia il rapporto di fiducia, in corrispondenza della maggiore autonomia di gestione dell’attività da parte dell’agente.

In particolare la Corte ha ritenuto sussistente la giusta causa di recesso per la evidente volontà di arrecare disagio all’attività dell’agente, desumibile dall’ordine (peraltro diretto ad un soggetto dotato di autonomia nella programmazione della propria attività e non soggetto a direttive vincolanti) di affiancare due agenti nelle zone più lontane tra loro, così costringendolo a viaggiare ogni settimana tra il nord e il sud Italia.

Studio Legale Daverio & Florio Milano

 

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