Rassegna di Giurisprudenza

di Bernardina Calafiori* 

Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, 1 marzo 2016, n. 1022 – est. Scarzella. Retribuzione – In natura – Benefit- Autovettura Aziendale

L’integrale sostentamento, da parte del dipendente, del valore dell’uso privato dell’autovettura aziendale e l’indiscusso utilizzo “promiscuo” della medesima, il cui costo “aziendale” è stato legittimamente sostenuto dal datore di lavoro, stante la sua diretta connessione causale con i costi propri della mansione lavorativa affidata al dipendente, non costituisce il riconoscimento di un emolumento retributivo (in natura) a favore di quest’ultimo.”

La Società, al fine di una riduzione dei costi aziendali, aveva eliminato la concessione dell’autovettura aziendale, prevista per l’uso “promiscuo”, ad alcuni dipendenti.

Uno di questi adiva il Tribunale di Milano, chiedendo che fosse accertata la natura di benefit della concessione ad uso promiscuo dell’auto aziendale e che gli fosse quindi corrisposto il controvalore economico corrispondente alla perdita della possibilità di uso (anche) privato dell’auto.

Ciò in applicazione del principio per cui la concessione di un’auto aziendale anche per uso privato (cioè per finalità estranee all’attività lavorativa) costituisce ad ogni effetto, fiscale e contributivo, retribuzione in natura (“benefit”) ed è pertanto irriducibile ai sensi dell’art. 2103 cod. civ..

La Società resistente eccepiva che il lavoratore aveva sempre sostenuto – con idoneo addebito in busta paga – un costo maggiore di quello forfettariamente previsto dall’art. 51 comma 4 del TUIR (ovvero il 30 per cento dell’importo corrispondente ad una percorrenza convenzionale di 15 mila chilometri calcolato sulla base del costo chilometrico di esercizio desumibile dalle tabelle redatte annualmente dall’ACI) per la valorizzazione dell’uso privato dell’auto aziendale e ciò escludeva qualsiasi retribuzione in natura: infatti, restituendo al proprio datore di lavoro il valore dell’uso personale dell’auto, il dipendente non percepiva alcun benefit.

Il Tribunale accogliendo le eccezioni della Società convenuta spiegava – citando anche un principio già espresso da Cass. sez. lav. 3 novembre 2000, n. 14338 – che “il trattamento economico aggiuntivo corrisposto al lavoratore può avere sia natura riparatoria, assolvendo la funzione risarcitoria delle maggiori spese connesse alla prestazione lavorativa, sia natura retributiva, assolvendo la funzione compensativa delle prestazioni lavorative rese sia, infine, natura composita”.

Nel caso in esame il Tribunale accertava che per mezzo di una trattenuta mensile in busta paga (come detto superiore al valore dell’uso privato come indicato dall’art. 51, comma 4 del TUIR) era lo stesso dipendente a sostenere il “pagamento del “benefit” in questione – nella sua componente “privata o personale” – con conseguente mancato godimento, nel caso di specie, da parte di T., di una corrispondente “utilità economica” (in natura) di natura retributiva, restando a carico dell’azienda la sola componente “professionale” di tale “benefit”.

Da ciò il Tribunale desumeva che nei casi di uso promiscuo, la concessione dell’autovettura può avvenire a titolo gratuito oppure oneroso; nel primo caso, il lavoratore può usufruire del bene gratuitamente, e il valore dell’uso privato dell’autovettura viene indicato in busta paga tra gli importi imponibili ai fini fiscali e contributivi; nel secondo caso, invece, è prevista, da parte del dipendente, la corresponsione di una somma a titolo di concorso alle spese per l’uso privato, che viene attuata mediante “trattenuta” in busta paga e che comporta la corrispondente riduzione del valore previsto per legge del predetto uso privato. Ovviamente, ove l’ammontare trattenuto al dipendente sia pari o superiore al valore dell’uso privato dell’autovettura, è esclusa la natura retributiva dell’uso dell’autovettura aziendale.

Nel caso in cui, a fronte dell’uso privato dell’autovettura, sia previsto un corrispettivo da parte del dipendente, è esclusa la natura retributiva della concessione dell’autovettura aziendale, con conseguente esclusione di applicabilità del principio di irriducibilità della retribuzione (in quanto appunto non si tratta di retribuzione) e tale concessione, quindi, può essere liberamente revocata dal datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi corrispondente aumento retributivo – che risulterebbe privo di qualsiasi giustificazione – in favore del dipendente.

Cass. civ. SS.UU., 20 gennaio 2017, n. 1545 – Amministratore s.p.a. – natura del rapporto con la Società

“L’amministratore unico o il consigliere di amministrazione di una s.p.a. sono legati alla stessa da un rapporto di tipo societario che, in considerazione dell’immedesimazione organica tra persona fisica ed ente e dell’assenza del requisito della coordinazione, non è compreso in quelli previsti dal n. 3 dell’art. 409 c.p.c.; ne deriva che i compensi loro spettanti per le funzioni svolte in ambito societario sono pignorabili senza i limiti previsti dall’art. 545, comma 4, c.p.c. 2”. 

La Corte di Cassazione, con questa decisione a sezioni Unite si esprime nuovamente sulla natura del rapporto che lega l’amministratore con la Società.

Il tema in oggetto viene affrontato per risolvere una questione pratica: se i compensi di un amministratore possano essere pignorati nei limiti del quinto di cui all’art. 545 c.p.c., comma 4 e di cui al D.P.R. 180 del 1950 come modificato dal d.l. 35/2015 e convertito nella Legge 80/2015 o meno.

Il discrimine per applicare detto limite risiede appunto nello stabilire se la natura del rapporto amministratore-Società può essere ricondotto alla c.d. “parasubordinazione” o al lavoro autonomo, atteso che già da tempo la Giurisprudenza esclude che il rapporto sia riconducibile al lavoro subordinato, o invece piuttosto abbia altre caratteristiche (e quali esse siano).

Le Sezioni Unite giungono alla conclusione che il rapporto tra la Società ed il suo amministratore esuli da quelli indicati all’art. 409 c.p.c. (rapporti che sono devoluti alla competenza del Giudice del Lavoro) e pertanto non costituisca un rapporto di lavoro nella forma parasubordinata o autonoma.

Piuttosto, indica la Corte, il rapporto amministratore-società è un tipico rapporto societario, in ragione dei poteri che la legge conferisce all’amministratore medesimo, che lo rendono addirittura “il vero egemone dell’ente sociale” e che spetta unicamente a lui (se amministratore unico) la gestione dell’impresa.

Questi poteri non sono limitabili contrattualmente, e quindi non hanno limiti, se non quelli contenuti nello statuto e derivanti dall’oggetto sociale, non limitabili neanche dall’assemblea che ha il solo potere di indicare chi avrà l’incarico.

La Corte definisce tale rapporto come “organico” e come corollario indica “quello della immedesimazione organica dell’amministratore nella società stessa, e quindi l’inesistenza di due contrapposti ed autonomi centri di interesse tra i quali instaurare non solo un rapporto contrattuale ma un qualsiasi rapporto intersoggettivo, data l’impossibilità di una diversificazione di posizioni contrapposte e l’inesistenza di separazione tra funzione gestoria e funzione esecutiva sottoponibile a verifica, controllo o disciplina.”

Mancando due centri di interesse differenti non è configurabile quindi un incontro di volontà tra le parti ed uno “scambio patrimoniale”.

La natura del legame Amministratore- Società, non può secondo le SS.UU. essere altro che un rapporto organico (quasi di identità) di natura esclusivamente societaria. Tale natura peraltro, non esclude che vi possano essere legami ulteriori tra Società e Amministratore; la sentenza afferma sul punto che “Non è escluso, però, che s’instauri, tra la società e la persona fisica che la rappresenta e la gestisce, un autonomo, parallelo e diverso rapporto che assuma, secondo l’accertamento esclusivo del giudice del merito, le caratteristiche di un rapporto subordinato, parasubordinato o d’opera”. 

Cass. civ. sez. lav. 13 gennaio 2017, n. 798 – Appalto – infortunio sul lavoro – risarcimento – committente – responsabilità del lavoratore infortunato “In caso di infortunio sul lavoro sussiste la responsabilità esclusiva del lavoratore solo nell’ipotesi in cui questi abbia posto in essere un comportamento abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere”. 

Un dipendente di una impresa appaltatrice, in forza di regolare contratto d’appalto, subiva un infortunio a seguito di una errata manovra durante l’esecuzione di lavori a favore della committente.

Il Giudice adito respingeva la domanda del lavoratore verso la committente (nel frattempo fallita) affermando che la dinamica del sinistro non aveva evidenziato alcuna responsabilità della committente e che la errata manovra del lavoratore era da ritenersi all’origine dell’infortunio.

La Corte di Cassazione con la sentenza in commento ha accolto il ricorso del dipendente nei confronti della società committente (e per essa la Curatela fallimentare) evidenziando che: “il committente nella cui disponibilità permanga l’ambiente di lavoro è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell’impresa appaltatrice” ed a “cooperare con l’impresa appaltatrice nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata, tanto più se caratterizzata dall’uso di macchinari pericolosi”.

La decisione si fonda sull’art. 2087 c.c. e sull’art. 7 del D Lgs. 626 del 1994 (applicabile ratione temporis all’infortunio) di cui la Corte dà una lettura rigorosa.

La Corte inoltre:

  1. conferma anche il consolidato principio (da ultimo sancito da Cass. 2209\2016) secondo cui il “debito di sicurezza” (ivi compreso quello formativo ed informativo dei lavoratori) ossia la dimostrazione di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire l’evento, grava sul committente nei confronti di tutti i lavoratori che operavano all’interno del suo cantiere;
  2. delimita con chiarezza, richiamando precedenti sentenze di legittimità, il caso di esclusione di responsabilità dell’imprenditore, affermando che di “responsabilità esclusiva del lavoratore può parlarsi solo ove questi abbia posto in essere un comportamento abnorme, inopinabile ed esorbitante rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, creando egli stesso condizioni di rischio estraneo a quello connesso alle normali modalità del lavoro da svolgere” (c.d. rischio elettivo).

E nel caso di specie la Corte ha dato atto che lo stesso Giudice di merito aveva stabilito che “la movimentazione del manufatto metallico rientrava, quale operazione accessoria, nell’oggetto del contratto di appalto”.

*socio fondatore Studio Legale Daverio & Florio

 

 

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