Rassegna di giurisprudenza

a cura dell’avv. Bernardina Calafiori – socio fondatore Studio Legale Daverio & Florio

Cass. Civ. Sez. lav., 3 novembre 2016, n. 22313: Estinzione e risoluzione del rapporto di lavoro subordinato – Licenziamento – Controlli sul corretto utilizzo degli strumenti di lavoro – Ammissibilità.

Deve riconoscersi l’ammissibilità dei controlli effettuati (direttamente o attraverso la propria struttura) dal datore di lavoro al fine di verificare il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro, ferma restando la necessaria esplicazione delle attività di accertamento mediante modalità rispettose della libertà e della dignità dei lavoratori, nonché dei principi di correttezza, di pertinenza e di non eccedenza previsti dall’art. 11, comma 1, del D.Lgs. n. 196 del 2003 in materia di protezione dei dati personali.

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava il licenziamento per giusta causa di un lavoratore al quale era stato contestato: 1) di aver cancellato, a fronte di chiarimenti in ordine ad alcuni files oggetto di un’ispezione volta alla verifica del corretto uso e della sicurezza del materiale informatico, l’intero contenuto del disco fisso etichettato con la lettera “O”, rendendo impossibile dare seguito alla stessa attività ispettiva; 2) che, all’esito di un successivo esame dell’archivio informatico in oggetto, era emersa la presenza di video con contenuti pornografici; 3) che tale condotta aveva esposto il datore di lavoro alle sanzioni previste dal D.Lgs. n. 231 del 2001, ancor più se i video cancellati avessero coinvolto anche persone minorenni. Da qui, la violazione degli obblighi, tra i tanti prescritti dal codice etico diffuso dal datore di lavoro, di tenere una condotta informata ai principi di dignità e moralità, nonché di impiegare le ore effettive di servizio e le apparecchiature aziendali solo per scopi lavorativi.

Il lavoratore aveva impugnato il licenziamento, ottenendo che lo stesso fosse dichiarato illegittimo, prima, dal Tribunale e, poi, dalla Corte di Appello, con conseguente reintegra nel posto di lavoro e condanna del datore di lavoro al pagamento di un’indennità non superiore a dodici mensilità. In particolare, i giudici di appello dichiaravano l’illegittimità del licenziamento perché il datore di lavoro non avrebbe dimostrato, all’interno del disco fisso cancellato dal lavoratore, l’esistenza di documenti di pertinenza aziendale e perché gli ispettori, travalicando i propri poteri, avrebbero mosso al lavoratore una richiesta di immediata e pubblica visione dei files incriminati, come tale lesiva del diritto alla privacy del lavoratore.

Per contro, la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso del datore di lavoro, dichiarava la legittimità del licenziamento intimato al dipendente. In particolare la Suprema Corte, pur dando atto della correttezza della premessa da cui muovono le osservazioni della Corte di Appello, e cioè che il datore di lavoro può far eseguire dei controlli mirati circa il corretto utilizzo degli strumenti di lavoro (in questo caso, del p.c. aziendale) da parte dei dipendenti nel rispetto della loro privacy, ha ritenuto che non erano state correttamente valutate le concrete modalità con cui l’ispezione era stata condotta.

La Corte di Appello, di fatti, aveva dato ampia rilevanza alla circostanza che gli ispettori avessero preteso di aprire immediatamente e pubblicamente i files personali del lavoratore, ancorché le prove prodotte in giudizio avessero dimostrato il contrario. Inoltre, la Corte di Appello non aveva tenuto in alcun conto la circostanza che la condotta del lavoratore avrebbe potuto determinare l’applicazione, nei confronti del datore di lavoro, delle severe procedure sanzionatorie del D.Lgs. n. 231 del 2001.

Con il provvedimento in epigrafe, dunque, la Corte di Cassazione, chiamata ad operare l’ennesimo bilanciamento tra il diritto alla privacy dei dipendenti ed il potere di controllo sulle apparecchiature aziendali, ha fatto pendere l’ago verso il secondo, alla luce delle modalità nient’affatto invasive del controllo ispettivo (posto che quel controllo non implicava una visione “immediata” e “pubblica” dei files) e dell’esposizione del datore di lavoro a sanzioni penalmente rilevanti.

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Cass. Civ. Sez. lav., 8 novembre 2016, n. 22653: Estinzione e risoluzione del rapporto di lavoro subordinato – Licenziamento – Applicabilità tutela reale – Computo annuale dei dipendenti – Ammissibilità.

Deve ritenersi che, ai fini dell’applicabilità della tutela reale in caso di licenziamento individuale illegittimo, il computo dei dipendenti vada effettuato tenuto conto della normale occupazione degli stessi e della normale produttività dell’impresa, senza dare rilievo alle contingenti ed occasionali contrazioni ed espansioni del livello occupazionale ed anche assumendo, quale arco temporale di riferimento, un anno intero.

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava il licenziamento per giusta causa di un lavoratore, cui era stato applicato il regime di tutela reale in quanto il numero di dipendenti dell’impresa era stato calcolato con riferimento all’anno antecedente il licenziamento. Il datore di lavoro impugnava tale statuizione della Corte di Appello, sostenendo che il periodo annuale mal si sarebbe adattato con realtà aziendali, come quella di specie, non soggette a mutazioni stagionali o a periodiche fluttuazioni, per le quali apparirebbe, invece, congruo adottare il periodo semestrale.

La Corte di Cassazione, premesso che la legge non stabilisce uno specifico ambito temporale per il calcolo del numero dei dipendenti e che per la valutazione di una ragionevole stabilità occupazionale deve aversi riguardo alla concreta organizzazione produttiva, così come alla sua collocazione nel mercato, ha confermato la tesi della Corte di Appello, anche perché il datore di lavoro non aveva fornito alcuna oggettiva giustificazione del fatto che sarebbe congruo fare riferimento, con riguardo alle imprese non soggette a fluttuazioni stagionali, ad un arco temporale semestrale, in luogo di quello annuale.

Inoltre, secondo la Suprema Corte, il datore di lavoro, così argomentando, avrebbe chiesto l’accoglimento di una conclusione (cioè, l’adozione del criterio semestrale, più dinamico rispetto a quello annuale) in palese contrasto con la sua premessa (cioè, l’essere la ricorrente una società priva di movimentazioni dinamiche di dipendenti), oltre che un nuovo giudizio di merito notoriamente incompatibile con le finalità del giudizio in cassazione.

Il provvedimento in epigrafe è espressione di un orientamento giurisprudenziale alquanto oscillante sulle modalità di computo del numero dei dipendenti ai fini dell’applicazione della tutela reale. Infatti, seppure sia certo il presupposto, condiviso da tante altre ed analoghe pronunce, della valutazione della ragionevole stabilità occupazionale con riguardo alla concreta organizzazione produttiva, non altrettanto certe sono le conclusioni rassegnate, volta per volta, dalla Corte di Cassazione.

Si pensi, ad esempio, che con provvedimento Cass. Civ. Sez. lav., 13 gennaio 2016, n. 362, di poco precedente a quello in epigrafe, è stato ritenuto legittimo il computo dei dipendenti effettuato con riguardo al momento stesso del licenziamento (precisamente, con riguardo al mese in cui il licenziamento veniva intimato al lavoratore), in quanto quel momento avrebbe rispecchiato le normali esigenze produttive dell’azienda.

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Cass. Civ. Sez. lav., 11 novembre 2016, n. 22936: Rapporto di lavoro subordinato – Orario di lavoro – Regime di tempo parziale verticale ciclico – Computo anzianità contributiva annuale – Ammissibilità.

Deve riconoscersi al lavoratore l’intera anzianità contributiva annuale anche nei periodi in cui ha operato in regime di tempo parziale verticale ciclico, al pari di un qualsiasi lavoratore a tempo pieno.

Il provvedimento in epigrafe riguardava la richiesta di un lavoratore di vedersi riconosciuta l’intera anzianità contributiva annuale anche per i periodi in cui aveva lavorato in regime di part-time verticale ciclico. Il Tribunale aveva dichiarato improcedibile tale richiesta, mentre la Corte di Appello aveva ritenuto che la stessa non fosse supportata da alcuna norma di legge. La Corte di Cassazione, premesso che l’art. 1, comma 4, del D.L. n. 338 del 1989 e l’art. 9 del D.Lgs. n. 61 del 2000 escludono per i lavoratori a tempo parziale, nella parte in cui disciplinano specificamente la retribuzione minima oraria da assumere quale base di calcolo dei contributi previdenziali, l’applicazione del meccanismo di calcolo previsto dall’art. 7 del D.L. n.  463 del 1983, ha nondimeno statuito che quei contributi devono essere riproporzionati sull’intero anno cui si riferiscono, ancorché versati in relazioni a prestazioni lavorative eseguite per frazioni di esso.

Infatti, tale ultimo profilo, proseguiva la Suprema Corte, attiene all’anzianità previdenziale (e non già al minimale contributivo) che perdura, come il contratto di lavoro, anche nei periodi di sosta tipici dei lavoratori a tempo parziale. Sicché, non pare possibile escludere i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva.

Diversamente, al lavoratore in regime di part-time verticale sarebbe riservato un trattamento doppiamente sfavorevole, posto che i periodi di interruzione della prestazione lavorativa non solo non danno diritto ad alcuna prestazione previdenziale, ma non giovano nemmeno ai fini dell’anzianità contributiva, con ciò risolvendosi in un’ingiustificata situazione di disuguaglianza vietata ai sensi dell’art. 3 Cost.

Il provvedimento in epigrafe si inserisce in un consolidato filone giurisprudenziale (tra cui si ricordano: Cass. Civ. Sez. lav., 3 novembre 2015, n. 24647; Cass. Civ. Sez. lav., 24 novembre 2015, n. 23948; Cass. Civ. Sez. lav., 29 aprile 2016, n. 8565), formatosi in seguito alla pronuncia resa dalla Corte di Giustizia Europea in data 10 giugno 2010 nei procedimenti riuniti C-395/08 e C- 396/08, secondo il quale i lavoratori a tempo parziale non possono essere, per ciò solo, trattati in modo meno favorevole dei lavoratori a tempo pieno con il differimento, nel tempo ed in proporzione corrispondente alla riduzione del loro orario di lavoro rispetto all’orario dei lavoratori a tempo pieno comparabili, della data di acquisizione del diritto alla pensione.

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