Cambio appalto e licenziamento per giustificato motivo oggettivo

di Cristina Carati* 

La cessazione dell’appalto di servizi determina anche il perimetro entro il quale l’imprenditore individua legittimamente i lavoratori da licenziare. È valido, per conseguenza, il licenziamento per motivi oggettivi del prestatore di lavoro che abbia operato sull’appalto, poi cessato. I principi di buona fede e correttezza nella scelta dei lavoratori da licenziare, tra i quali rientrano anche quelli stabiliti dall’art. 5 della legge 23 luglio 1991, n. 223 “Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro”, soccorrono solo quando vi è la generica esigenza del datore di lavoro di riduzione di personale omogeneo e fungibile e non già quando il licenziamento del lavoratore è occasionato dalla cessazione di un appalto; in questo caso sussiste il nesso causale tra la soppressione del posto di lavoro e il licenziamento per motivo oggettivo. È questo l’importante principio sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 25653 del 27 ottobre 2017, che offre l’occasione per analizzare gli aspetti generali del cambio di appalto e dei licenziamenti connessi alla cessazione dei servizi erogati da un appaltatore in favore di un altro imprenditore.

Il cambio di appalto e il licenziamento per soppressione del posto di lavoro: aspetti generali 

Le problematiche giuslavoristiche relative alla cessazione dei rapporti di lavoro del personale in occasione di un cambio di appalto non sono di poco conto. A norma dell’art. 29, c. 3 d.lgs. 276/2003 “L’acquisizione del personale già impiegato nell’appalto a seguito di subentro di nuovo appaltatore dotato di propria struttura organizzativa e operativa, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale o di clausola del contratto d’appalto, ove siano presenti elementi di discontinuità che determinano una specifica identità d’impresa, non costituisce trasferimento d’azienda o di parte d’azienda”. Dunque a norma di legge il diritto dei lavoratori di proseguire il loro rapporto di lavoro alle dipendenze dell’appaltatore subentrante non sussiste nel caso in cui il nuovo appaltatore sia dotato di una propria struttura organizzativa e operativa, oltre che in presenza di elementi di discontinuità rispetto alla precedente attività di impresa. Non è in alcun modo chiaro quali siano detti elementi idonei a determinare una discontinuità rispetto alla precedente attività di impresa. È sufficiente che il nuovo appaltatore svolga attività ulteriori, ovvero un servizio più esteso e diversificato rispetto al precedente, per affermare che ci troviamo in presenza di una specifica identità di impresa? Se da un lato non appare erroneo affermare che la prescritta diversità potrebbe anche fondarsi su una differente organizzazione produttiva, dall’altro è pur vero che, se l’obiettivo della riforma è quello di reprimere situazioni di abuso e favorire la continuità dei rapporti di lavoro anche in ipotesi limite, dovrebbe ritenersi che il nuovo testo dell’art. 29, c. 3 del d.lgs. 276/2003 non si presta ad interpretazioni estensive. Pertanto, in base a tale ultima affermazione, la differente organizzazione produttiva dovrebbe essere qualificata da elementi propri ed esclusivi dell’appaltatore subentrante.

Al di fuori dei casi in cui sia identificabile un vero e proprio trasferimento di azienda ai sensi del nuovo art. 29 c. 3 d.lgs. 276/03, in generale l’appaltatore uscente che non riesca a ricollocare i lavoratori presso altro appalto può recedere dai rapporti di lavoro con il personale addetto all’appalto. Tale recesso si qualifica diversamente a seconda che tali risorse vengano riassunte alle dipendenze dell’appaltatore subentrante o meno.

Se al di fuori di quanto sopra visto non esiste norma di legge che attribuisca un diritto dei lavoratori di passare alle dipendenze del nuovo appaltatore, taluni contratti collettivi introducono una clausola di protezione delle risorse impiegate sull’appalto e un corrispondente obbligo dell’appaltatore subentrante di rilevare tale personale. Si pensi per esempio alla clausola sociale contenuta nell’art. 4 del Contratto collettivo nazionale del lavoro (Ccnl) Pulizie Multiservizi. Le sorti dei lavoratori addetti all’appalto sono pertanto condizionate dall’esistenza o meno di una clausola di salvaguardia dei livelli occupazionali nel Ccnl applicabile. Ove sussista una clausola sociale, l’atto di cessazione del rapporto di lavoro da parte dell’imprenditore uscente con contestuale assunzione presso il nuovo appaltatore alle medesime condizioni in precedenza applicate viene comunemente qualificato come risoluzione consensuale del rapporto e non già come un licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Nella diversa ipotesi in cui il nuovo appaltatore non subentri nei rapporti di lavoro del personale adibito all’appalto o non garantisca le medesime condizioni, l’appaltatore uscente recederà dai rapporti di lavoro tramite licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Si tenga presente infine che nel caso in cui il recesso coinvolga cinque o più lavoratori si renderà necessario valutare l’applicabilità della normativa di cui all’art. 24 legge 223/1991.

La pronuncia della Corte di Cassazione n. 25653 del 27 ottobre 2017 

La sentenza della Suprema Corte n. 25653 del 27 ottobre 2017 è particolarmente interessante, soprattutto perché chiarisce quali criteri devono essere rispettati per poter procedere legittimamente al licenziamento per giustificato motivo oggettivo di un lavoratore addetto ad un appalto cessato. In questo senso la Corte di Cassazione chiarisce che la ragione giustificatrice del recesso del datore di lavoro – ossia la cessazione dell’appalto – determina anche il perimetro entro il quale l’imprenditore individua legittimamente il lavoratore o i lavoratori da licenziare.

La sentenza, in particolare, evidenzia che la cessazione dell’appalto costituisce il nesso causale tra la ragione organizzativa e produttiva (che deve sussistere ai fini della legittimità del licenziamento a norma dell’art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604 “Norme sui licenziamenti individuali”) e la soppressione del posto di lavoro. Tale circostanza è idonea di per sé a individuare il lavoratore o i lavoratori da licenziare (ossia quelli addetti all’appalto venuto meno) senza che occorra far ricorso alle regole della correttezza e della buona fede per procedere alla selezione dei lavoratori in esubero.

Il Supremo Collegio sottolinea come le regole della correttezza ex artt. 1175 e 1375 del codice civile devono soccorrere nella scelta dei lavoratori da licenziare (unitamente al divieto di atti discriminatori) solo quando vi è la generica esigenza del datore di lavoro di riduzione di personale omogeneo e fungibile e non già quando il licenziamento del lavoratore è occasionato dalla cessazione di un appalto. Nell’ipotesi in cui vi sia una generica necessità di licenziare in conseguenza di una riorganizzazione aziendale occorrerà pertanto rispettare i dettami della correttezza e buona fede nella scelta del personale ridondante e i criteri ritenuti dalla giurisprudenza espressione dei principi di correttezza e buona fede sono quelli previsti dall’art. 5 legge 223/1991 in tema di licenziamento collettivo.

La Suprema Corte ulteriormente chiarisce come i criteri di selezione di cui all’art. 5 legge 223/1991 costituiscano uno standard particolarmente idoneo a consentire al datore di lavoro di esercitare il proprio recesso unilaterale e non si giustifichino piuttosto sul piano dell’analogia. In definitiva, quindi, la cessazione dell’appalto è ritenuta ragione giustificatrice del licenziamento del personale ivi addetto, senza che il datore di lavoro debba ulteriormente rispettare i criteri di cui all’art. 5 legge 223/1991 nella scelta del personale da licenziare e dunque senza che sia necessario prendere in considerazione tutta la platea aziendale.

*Avvocato in Milano

 

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