L’annoso problema della rappresentatività sindacale

di Isabella Marzola * 

L’Ispettorato nazionale del lavoro (Inl) ha emanato quest’anno due circolari consecutive attinenti il tema dell’applicazione dei contratti collettivi di lavoro:

  • la circolare n. 3/18 del 25 gennaio 2018 opera una ricognizione, comunque incompleta, delle disposizioni di legge vigenti che onerano le parti del rapporto di lavoro dell’applicazione di un contratto collettivo di lavoro stipulato da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative ovvero che conferiscono alle sole organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative la possibilità di disciplinare talune materie o introdurre regolamentazioni integrative di taluni istituti contrattuali.
  • la circolare 4/18 del 12 febbraio, nella scia della precedente (n. 3/18), precisa che solo gli enti bilaterali promossi da organizzazioni sindacali “leader” possono svolgere attività di certificazione dei contratti di lavoro e degli appalti.

Ma andiamo con ordine.

I principi di libertà e pluralità sindacale, di cui all’art. 39 della costituzione, ammettono che per un medesimo settore economico produttivo possano stipularsi una pluralità di contratti collettivi e che quindi le parti possano riferirsi liberamente a ciascuno di essi. Le parti del rapporto di lavoro, per la verità, non sono vincolate neppure nel loro “shopping” contrattuale all’attività concretamente svolta (essendo ormai pacifico che l’art. 2070 cod. civ. esprime i propri effetti solamente con riferimento ai contratti collettivi del periodo corporativo), se non nei limiti della convenzione interpretativa giurisprudenziale che tende a individuare la retribuzione congrua rispetto ai parametri di cui all’art. 36 della costituzione, nelle tabelle retributive dei contratti collettivi riferibili alle attività concretamente svolte dal soggetto datoriale. Ciò premesso, negli ultimi decenni si è assistito ad una proliferazione di organizzazioni sindacali e datoriali “concorrenti” con le tradizionali centrali confederali e anche ad una moltiplicazione di contratti collettivi per il medesimo settore merceologico. Spesso, anche le emergenti associazioni di categoria hanno dimostrato di esprimere una significativa rappresentatività nel settore di riferimento.

Con il passare del tempo, il legislatore ha cessato di fare rinvio alla nozione di maggiore rappresentatività, riferibile alle organizzazioni che comunque esprimevano una rilevante rappresentatività, e ormai fa rinvio alla nozione di maggiore rappresentatività in termini comparativi, riferibile alle organizzazioni sindacali che, singolarmente o coalizzate, esprimano una rappresentatività maggiore rispetto alle altre. Insomma le disposizioni di legge oggi fanno rinvio sempre alle organizzazioni sindacali che esprimono una sorta di “maggioranza relativa” in termini di rappresentatività comparata. La rappresentatività tradizionalmente è pesata in ragione del numero degli associati, della presenza sul territorio nazionale con sedi organizzative, della partecipazione alle trattative sindacali.

È opportuno in questa sede fare un brevissimo cenno all’accordo, denominato “Testo unico sulla rappresentanza”, siglato da Confindustria, Cgil, Cisl, Uil, del 10 gennaio 2014, il quale, per la misura e la certificazione della rappresentanza delle organizzazioni sindacali firmatarie riassumeidatiassociativi(delegherelativeai contributi sindacali conferite dai lavoratori) e i dati elettorali ottenuti in occasione delle elezioni delle rappresentanze sindacali unitarie. Il legislatore invece non è mai giunto, nonostante una serie di tentativi ingloriosi, ad approvare una legge di misurazione della rappresentatività sindacale. Ha operato e continua ad operare tuttavia con numerosissimi demandi agli accordi stipulati dalle organizzazioni comparativamente più rappresentative.

La circolare n. 3/18 dell’Ispettorato sottolinea che solo i contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative in termini comparativi sono legittimati ad integrare o derogare a talune disposizioni di legge. Parimenti il rispetto dei contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative è condizione per l’accesso a taluni benefici. Ai contratti collettivi “maggioritari”, chiamiamoli così, non è riconosciuta efficacia “erga omnes”, ma il loro rispetto costituisce un “onere” alla cui soddisfazione sono legate talune condizioni di vantaggio per le parti. L’operazione ricognitiva dell’Ispettorato è volta espressamente a contrastare dinamiche di dumping fra diversi contratti collettivi, stimolate proprio dai demandi della legislazione nazionale.

La circolare cita preliminarmente l’art.8, comma 1 del decreto legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, in materia di contratti di prossimità, cui si riconoscerebbero poteri derogatori con efficacia erga omnes (valendo, si argomenta in dottrina, il complesso meccanismo previsto dall’art. 39 della costituzione soltanto per la contrattazione nazionale), a condizione che i sottoscrittori dell’accordo decentrato siano le associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero le loro rappresentanze sindacali operanti in azienda.

Ebbene, tali accordi non produrrebbero alcun effetto se non sottoscritti da soggetti dotati della comparativa maggiore rappresentatività. Chi non si è mai cimentato con i contratti di prossimità, avrà comunque avuto a che fare con il rispetto delle condizioni necessarie per il godimento dei benefici normativi e contributivi, ai sensi dell’art.1, comma 1175, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (legge finanziaria 2007). Una delle condizioni previste da tale legge finanziaria, ricorda la circolare, è l’applicazione di contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Non può inoltre trascurarsi che ai sensi dell’art.1, comma 1, del decreto legge 9 ottobre 1989, n. 338, convertito con modificazioni dalla legge 7 dicembre 1989, n. 389 “la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi, stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quello previsto dal contratto collettivo”. La disposizione è stata oggetto di interpretazione autentica da parte del legislatore il quale con l’art. 2, comma 25, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 ha previsto che “in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi previdenziali ed assistenziali è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative nella categoria”. Non può poi omettersi che uno dei fulcri su cui è incardinato l’articolato del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 ( Jobs act) è la nozione di contratto collettivo espressa (ovviamente ai soli fini dell’applicazione del d.lgs. 81/2015 stesso) dall’art. 51 del decreto: “salvo diversa previsione, ai fini del presente decreto, per contratti collettivi si intendono i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria”. Le disposizioni di un contratto collettivo espressione di organizzazioni sindacali “minoritarie”, sono quindi prive di effetto, ai fini di cui al d.lgs. 81/15 e, a titolo di esempio, si può citare la disciplina del lavoro a tempo parziale (lavoro supplementare e clausole elastiche, art. 6), il lavoro intermittente (ipotesi di costituibilità del rapporto, art.13, indennità di disponibilità, art. 16), lavoro a termine (durata, art. 19, contingentamento numero contratti, art. 23, precedenze, art.24), somministrazione di lavoro, apprendistato (artt. 42, 44). Non può inoltre trascurarsi la facoltà di deroga ai presupposti di etero-organizzazione per le collaborazioni coordinate e continuative, prevista dall’art. 2, co. 2, del decreto. In tutti questi casi le disposizioni di un contratto collettivo “minoritario” risulterebbero inefficaci e, con riferimento alla disciplina derogatoria relativa al numero massimo di contratti a termine, la conseguenza sarebbe che “rivivrebbe” il precetto legale del 20% rispetto ai contratti a tempo indeterminato; con riferimento al contratto di apprendistato la conseguenza, per l’Ispettorato nazionale del lavoro, consisterebbe nella trasformazione del rapporto in un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con le relative conseguenze di natura contributiva e sanzionatoria.

Sempre con riferimento al tema dei contratti individuali di lavoro l’Ispettorato nazionale del lavoro, con la circolare n. 4 del 12 febbraio 2018, ha affrontato la questione della certificazione dei contratti di lavoro da parte di enti bilaterali promossi da organizzazioni sindacali non comparativamente più rappresentative.

Gli enti bilaterali abilitati alla certificazione dei contratti e della regolarità o congruità contributiva, sono soltanto quelli di cui all’art. 2, comma 1, lett. h), del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Le parti promotrici devono essere dotate del requisito della comparativa maggiore rappresentatività. Qualora tale requisito non sia soddisfatto, l’ente certificatore non può essere considerato ente bilaterale ai sensi della stessa norma, e pertanto non può considerarsi abilitato alla certificazione dei contratti di lavoro, dei contratti di appalto o subappalto, né ai sensi degli artt. 75 e seguenti dello stesso d.lgs. 276/2003, né ai sensi del d.p.r. 14 settembre 2011, n. 177, relativamente ai lavori in ambienti confinati (cisterne, pozzi, silos, etc.), sospetti di contenere atmosfere tossiche od irrespirabili. Le eventuali certificazioni rilasciate, chiarisce l’Ispettorato, saranno considerate prive di effetti. È necessario rammentare inoltre che, nel settore delle costruzioni, nel quale si opera quasi sempre in regime di appalto, deve rispettarsi anche l’art. 90, comma 9, lett. b), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in base al quale il committente o il responsabile dei lavori, ai fini della verifica dei requisiti tecnico professionali, deve chiedere alle imprese esecutrici una dichiarazione relativa al contratto collettivo stipulato dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, applicato ai lavoratori dipendenti.

La circolare n. 3/18 dell’Ispettorato nazionale del lavoro non introduce concetti innovativi ma rappresenta comunque un utile richiamo, anche se non risolve il problema pratico degli operatori professionali: chi detiene la “hit parade” della rappresentatività? Come sono accessibili i dati in possesso delle organizzazioni sindacali ovvero della pubblica amministrazione? Quale efficacia probatoria può essere riconosciuta a tali dati? Insomma, il professionista che assiste i datori di lavoro, come può accedere ai dati che consentano di comprendere se un contratto collettivo è “abilitato” all’integrazione del dettato di legge e quali organizzazioni sindacali siano più rappresentative di altre, in termini comparativi? I dati in possesso del Ministero del lavoro e delle politiche sociali che, tramite una propria Direzione generale, si occupadiraccogliereancheidati organizzativi delle diverse organizzazioni sindacali, sono pubblici? Almeno sono accessibili? La risposta dovrebbe essere affermativa e l’accesso dovrebbe avvenire attraverso gli istituti di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, dell’accesso civico semplice o generalizzato, di cui al d.lgs. n. 33/2013.

* Odcec Ferrara

 

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