I Licenziamenti

Rielaborazione di  Bruno Anastasio*

Il 7 marzo 2015 è entrato in vigore il D. Lgs n. 23/2015 (di attuazione della delega conferita all’Esecutivo dall’art. 1, co.7 L. 10 dicembre 2014, n. 183) in materia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

La ratio, così il Ministro del Lavoro e delle Po- litiche sociali Giuliano Poletti, è di garantire maggiore flessibilità in uscita, rilanciare l’occupazione, riportando il contratto a tempo indeterminato come la “forma comune” del rapporto di lavoro, in accordo anche con le direttive europee.

Discipline stratificate.

Le disposizioni del decreto delegato esplicano i loro effetti giuridici soltanto nei confronti dei contratti di lavoro stipulati dopo la sua entrata in vigore. Ciò comporterà ai datori di lavoro la gestione, nei prossimi decenni, due principali tipologie di rapporto di lavoro a tempo indeterminato:

  • “ a tutele crescenti”, applicabile per le assunzioni dal 7 marzo 2015
  • “tradizionale”, che interesserà tutti i rap- porti di lavoro

Una linea di confine, questa, che trova fonda- mento nelle finalità di offrire ai neoassunti e non giustamente a chi è già occupato, la prospettiva di un mercato del lavoro più dinamico, non solo in uscita ma anche in entrata.

Sotto il profilo sistematico, il contratto a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, secondo un’opinione largamente condivisa, è un ordinario rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato caratterizzato – rispetto ai contratti a tempo indeterminato preesistenti – soltanto dal diverso regime delle tutele in caso di licenziamento nullo o comunque invalido.

Perciò trattare del licenziamento e dei vizi di nullità, invalidità ed inefficacia, significherà trattare l’argomento in modo unitario differenziando, poi, le relative conseguenze giuri- diche in relazione ai regimi applicabili ratione temporis.

L’ inquadramento sistematico trova un ulteriore elemento di complessità in ragione della legge 92/2012 (cd. Legge Fornero), che interveniva, con forza, a limitare le ipotesi di tutela “reale” circa la disciplina dell’art. 18 L. 300/70.

In quel caso rilevava non già la data di assunzione del lavoratore ma la data di licenzia- mento: il testo attualmente vigente dell’art. 18 dello Statuto Lav. si applica, infatti, ai licenziamenti intimati dal 18 luglio 2012, data di entrata in vigore della legge Fornero.

Il che equivale a dire che:

Per gli assunti dal 7.3.2015 il regime di tutela nel caso di licenziamento è quello del contratto a tutele crescenti ( D.Lgs. 23/2015).

Per gli assunti fino al 6.3.2015 il regime delle tutele in caso di licenziamento va ulteriormente differenziato (in questo caso sulla base della data di licenziamento) distinguendosi :

  • i licenziamenti intimati fino al 17.7.2012, in relazione ai quali è applicabile la tutela piena prevista nel testo storico dell’art. 18 L. 300/70
  • i licenziamenti intimati dal 18.7.2012, soggetti al vigente testo dell’art. 18 ( introdotto dalla Legge Fornero).

Mettendo da parte la disciplina storica del famigerato art.18, focalizziamo l’attenzione sull’aspetto pratico della teoria normativa.

L’attuale e contemporanea vigenza dell’artico- lo 18 L. 300/70 -come riformato nel 2012- e del D.Lgs. 23/2015 comporta per le imprese evidenti difficoltà nella gestione della forza lavoro in quanto in esse convivono lavorato- ri con regimi di licenziamento diversi perché la selezione della disciplina applicabile non avviene più in ragione delle dimensioni del- la impresa (come accadeva nella legislazione tradizionale) ma in riferimento alla vicenda personale del lavoratore.

La dissonanza è ancor più evidente nelle ipotesi di licenziamento collettivo dove in una unica procedura di licenziamento si troveranno inseriti lavoratori in regime di articolo 18 e lavoratori con tutele crescenti, con presumibili diversi effetti di vizi, di forma o di sostanza. Diversificati saranno anche i riti applicabili sotto il profilo processuale. Le azioni promosse ai sensi dell’art. 18 L. 300/70 restano obbligatoriamente legate al rito speciale introdotto dalla riforma Fornero (art. 1, commi da 48 a 68, della legge 92/2012) mentre il D. Lgs. 23/2015 testualmente esclude invece (con l’ art. 11) l’applicazione di quel rito, sicché il processo per il contratto a tutele crescenti è il processo ordinario del lavoro.

Lo stesso rito altresì si applica ai licenziamenti che – per requisito dimensionale dell’impresa- restano soggetti alla tutela cd. obbligatoria, di cui all’art. 8 L. 604/66 .

I dirigenti.

Nell’illustrare la disciplina dei vizi del licenziamento non si può eludere la categoria dei dirigenti, da sempre oggetto di normativa specifica.

Il D. Lgs. 23/2015 è infatti applicabile ad operai, impiegati e quadri non ai dirigenti, rispetto alla quale la disciplina resta unica ed indifferente rispetto alla data di assunzione.

Sotto il profilo storico-sistematico la Legge 604/66, limitativa del potere di licenziamento, ha escluso dal suo ambito applicativo i dirigenti, restando per essi vigente il regime di libera recedibilità dal contratto di lavoro a tempo indeterminato previsto dall’art. 2118 cc. In mancanza della giusta causa di licenzia- mento il dirigente ha diritto unicamente al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva secondo quanto previsto dagli artt. 2118 e 2119 cc.

La ratio della suddetta esclusione risiede nelle peculiari caratteristiche del rapporto di lavoro dirigenziale, fondato su un legame altamente fiduciario con l’imprenditore e condizionato dunque, nella durata, al permanere di quella fiducia.

In base a quanto detto, la giurisprudenza ha voluto distinguere la figura del “dirigente api- cale”, preposto al vertice di un determinato settore aziendale dal “pseudo-dirigente” o di- rigente convenzionale che è l’impiegato con funzioni direttive preposto ad un singolo ufficio o reparto. La disciplina del licenziamento dirigenziale è stata riservata soltanto ai primi ovvero a quanti abbiano un ruolo di vertice nell’organigramma aziendale o siano dotati di ampissimi poteri e di autonomia gestionale sì da sostituirsi all’imprenditore stesso.

La giurisprudenza più recente ha sensibilmente mutato tale orientamento. Al top manager si affiancano una serie di figure intermedie, dotate comunque di alta professionalità e di un discreto livello di autonomia gestionale e responsabilità. La tendenza è quindi quella di considerare le mansioni che effettivamente vengono svolte da parte del prestatore, valorizzando capacità professionali del soggetto, responsabilità e grado di autonomia del proprio operato a prescindere dal fatto che egli rivesta un ruolo di vertice, come alter ego dell’imprenditore. Il regime di libera recedibilità per i dirigenti è contemplato nei contratti collettivi con la previsione di una particolare indennità economica in caso di licenziamento “ingiustificato”.

La contrattazione ha dunque introdotto la nozione di “giustificatezza” del licenziamento del dirigente con risvolti puramente economi- ci. In assenza di una definizione contrattuale di licenziamento “ingiustificato” la giurisprudenza è dell’avviso che detta nozione non coincide con quella di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento contemplate dalla L. 604 del 1966.

La “giustificatezza” cioè, per la giurisprudenza di massima, non richiede l’impossibilità della continuazione del rapporto di lavoro o una situazione aziendale tale da rendere onerosa tale prosecuzione ma che il recesso non sia irrazionale o arbitrario potendo rilevare qualsiasi motivo – purché apprezzabile sul pia- no del diritto – idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore ( Cfr. Cassazione civile sez. lav.16/02/2015 nr.3045).

La libera recedibilità trova comunque un limi- te nel vizio di nullità del recesso.

In particolare:

Ai sensi dell’art. 3 L. 108/1990 il dirigente può chiedere la reintegra e l’applicazione dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori nel caso di licenziamento discriminatorio ai sensi dell’art. 4 L. 604/66 (cioè per motivi politici, religiosi o sindacali) e dell’art. 15 L. 300/70 (discriminazione razziale, di lingua o di sesso, di handicap, di età o basata sull’orientamento sessuale o sulle convinzioni personali).

L’art. 2 co. 1 L. 604/1966, norma dichiara- ta applicabile ai dirigenti ( comma 4) prevede l’obbligo di comunicare per iscritto il licenziamento, a pena di inefficacia. Non è stato invece esteso ai dirigenti l’obbligo (art. 2 co.

2) di comunicare – contestualmente al licenziamento- i motivi (obbligo generalizza- to dalla legge Fornero). La giurisprudenza di legittimità a partire da Cass. Sezione Unite 30 marzo 2007, n. 7880 ha ritenuto applicabile anche al dirigente, a prescindere dalla sua col- locazione aziendale, le garanzie procedimentali di cui all’art. 7, co. 2 e 3 L.300/70 in ogni caso in cui il datore di lavoro gli addebiti un comportamento negligente ovvero quando a base del recesso ponga condotte comunque suscettibili di pregiudicare il rapporto di fiducia tra le parti.

Tanto come principio di generale garanzia che i suddetti fatti non vadano ad incidere diretta- mente sulla persona del lavoratore ledendone il decoro, la dignità e l’immagine. Sintetica- mente può affermarsi che la disciplina del licenziamento dei dirigenti è quella della libera recedibilità fuori dei casi di licenziamento discriminatorio, nullo o orale, salva la disciplina economica dell’indennità supplementare prevista dai contratti collettivi nei casi di licenziamento ingiustificato o adottato senza le garanzie procedimentali dell’art. 7 L.300/70. L’articolo 18 L. 300/1970 prevede per i di- rigenti la disciplina reale piena (reintegra e risarcimento del danno) non solo nei casi di licenziamento discriminatorio ma in tutte le ipotesi di vizio determinante nullità del licenziamento nonché per i casi di licenziamento inefficace perché intimato in forma orale (commi da 1 a 3 dell’articolo 18).

Nei casi di licenziamento nullo, discrimina- torio o verbale la tutela è quella apprestata dai primi tre commi dell’art. 18. L’esclusione dei dirigenti dall’area applicativa del D..Lgs. 23/2015 ha effetti più che sotto il profilo sostanziale sul piano processuale: la vigenza dell’art. 18 anche per i dirigenti neo assunti determinerà la sopravvivenza per i dirigenti del rito speciale introdotto dalla legge n. 92/2012 (riservato ad ogni azione promossa ai sensi dell’art. 18 L. 300/1970).

Il licenziamento dei dipendenti non dirigenti.

La legge 604/66 ha introdotto requisiti di forma e di sostanza al potere di recesso del datore di lavoro, superando il regime di libera recedibilità previsto dal codice civile. Vanno distinti vizi di forma e vizi sostanziali del licenziamento del datore di lavoro, con effetti diversi in ragione della diversa disciplina temporale applicabile.

I vizi di forma .

Sotto il profilo formale si è già detto, trattando dei dirigenti, che:

– il licenziamento deve essere comunicato per iscritto (art. 2 co.1 L. 604/66)

– che la comunicazione del licenziamento deve contenere la contestuale specificazione dei motivi (art. 2 co. 2 L. 604/66).

L’obbligo di contestuale motivazione costituisce una novità introdotta dalla riforma Fornero. In precedenza, infatti, era il lavoratore a poter chiedere, nei quindici giorni dalla comunicazione del recesso, i motivi che lo avevano determinato, con onere in tal caso del datore di lavoro, nei sette giorni dalla richiesta, di comunicarli per iscritto, a pena di inefficacia.

Dalla disciplina dell’art. 2 derivano i vizi:

  • del licenziamento verbale
  • del licenziamento scritto privo di motivazione.

Il licenziamento orale è sanzionato dall’art. 2 co 3 L. 604/66 in termini di inefficacia.

Sia l’art. 18 della L. 300/70 sia l’articolo 2 del D.Lgs. 23/2015 prevedono testualmente quale conseguenza dell’inefficacia del licenziamento orale:

  • la reintegrazione del lavoratore
  • la condanna del datore di lavoro, a titolo risarcitorio al pagamento di una indennità commisurata alle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra, dedotto quanto percepito dal lavoratore per l’eventuale svolgimento di altra attività lavorativa nel periodo di estromissione
  • la condanna del datore di lavoro al versa- mento dei contributi previdenziali ed assistenziali maturati nel periodo dal licenziamento alla reitegra.

Nel testo storico dell’articolo 18 questo regi- me era riservato alle sole imprese con più di 15 dipendenti; la riforma Fornero nel 2012 ha esteso a tutti gli imprenditori la disciplina di tutela per il licenziamento orale. Stante la sovrapponibilità delle discipline, non vi è differenza di tutela per i lavoratori assunti dalla data del 7 marzo 2015. Vi è tuttavia da segnalare che nel quantificare l’indennità risarcitoria l’articolo 18, applicabile agli assunti fino al 6 marzo 2015, utilizza come parametro la “retribuzione globale di fatto” mentre l’art. 2 D.Lgs. 23/2015, applicabile ai lavora- tori assunti dal 7 marzo 2015, sostituisce a tale generica nozione quella di “retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR”. Tanto nell’evidente intento, da un lato, di consentire una più pratica ed immediata determinazione del quantum del risarcimento ( la retribuzione utile al TFR è indicata in busta paga) e dall’altro, di eventualmente ridurre il costo a carico della impresa: i contratti collettivi possono escludere dal calcolo del TFR alcune voci di retribuzione anche se corrisposte in via continuativa.

Il licenziamento comunicato senza motiva- zione è parimenti colpito dalla sanzione della inefficacia, ex art. 2 co.3 L. 604/66.

Tuttavia, pur a parità di vizio (inefficacia), gli effetti prodotti sono del tutto diversi rispetto alla fattispecie del licenziamento verbale: la tutela è solo di natura economica . La disciplina è contenuta per i lavoratori assunti fino al 6.3.2015 nell’art. 18 co. 6 L. 604/66 e per gli assunti dal 7.3.2015 nell’art. 4 D.Lgs. 23/2015.

Lavoratore assunto dal 7 marzo 2015.

In questo caso è prevista l’ estinzione del rap- porto di lavoro dalla data del licenziamento ed il pagamento di un’ indennità parametrata tra 2 e 12 mensilità e quantificata dal giudice non secondo discrezionalità ma con criterio oggettivo ovvero in ragione di una mensilità per ogni anno di servizio . La norma precisa che l’indennità non è soggetta a contribuzione. L’indennità è dimezzata per le imprese che non hanno il requisito dimensionale previsto dall’ art. 18 L. 300/70. Anche in questo caso la retribuzione di riferimento è la retribuzione utile al calcolo del TFR.

Lavoratore assunto ante 7 marzo 2015.

Ai sensi dell’art. 18 co. 6 St. Lav. il licenzia- mento dichiarato inefficace per vizio di motivazione produce la risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento con diritto del lavoratore ad una tutela indennitaria omnicomprensiva tra un minimo di 6 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere del giudice di specifica motivazione sulla concreta determinazione del quantum.

Tale norma è dichiarata applicabile soltanto alle imprese medio grandi (con più di 15 dipendenti nella unità produttiva o nel Comune o complessivamente più di 60 dipendenti in organico).

Resta il problema della sorte del licenziamento inefficace nelle imprese al di sotto della soglia dimensionale, che non è oggetto di disciplina specifica.

Secondo i principi generali, poiché il vizio è quello dell’inefficacia del licenziamento, il lavoratore avrebbe diritto alla riammissione in servizio e al risarcimento del danno, nella misura di tutte le retribuzioni maturate dalla data della costituzione in mora del creditore. Questa soluzione, ancorché corretta sul pia- no dogmatico, determinerebbe per il vizio del difetto di motivazione una conseguenza più gravosa per le piccole imprese che per le imprese medio grandi; sicché essa è stata a ragione criticata da una parte della dottrina (Vallebona), che ne ha sottolineato la difficile tenuta sotto il profilo della ragionevolezza e quindi della legittimità costituzionale.

L’ alternativa percorribile è quella di un’interpretazione costituzionalmente orientata, analoga a quella applicata in passato dalla giurisprudenza di legittimità per il licenziamento disciplinare adottato in violazione della procedura dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, che si era ritenuto sottoposto nelle piccole imprese alla disciplina generale dell’art. 8 L. 604/66 sul licenziamento ingiustificato (riassunzione o risarcimento del danno, tra le 2,5 e le 6 mensilità ).

Resta da segnalare che sia l’articolo 18 co. 6 L. 300/70 che l’art. 4 D.Lgs. 23/2015 prevedono che il lavoratore possa domandare specificamente al giudice di accertare anche la presenza di un diverso vizio di giustificazione sostanziale (concorrente con quello formale) o, come specifica il D.Lgs. 23/2015, di nullità, con applicazione, in caso di riscontro positivo, delle relative tutele.

Come già rilevato, parrebbe essere più conveniente per il datore di lavoro sotto il profilo del rischio giudiziario non motivare affatto il recesso: in questo modo la sanzione economica cui va incontro è un danno minore rispetto all’alea derivante dalla comunicazione della motivazione, che da un lato rende immodificabile e cristallizza i motivi del recesso, dall’altro è soggetta alla verifica giudiziaria, con possibili sanzioni ben più gravose, in caso di ragioni oggettive.

La tenuta del sistema può essere assicurata valorizzando la possibilità concessa al lavoratore di domandare al giudice, nel caso di motiva- zione mancante, di accertare che vi è anche un difetto di giusta causa o di giustificato motivo del licenziamento, con applicazione, in caso di riscontro positivo, delle relative tutele.

Naturalmente in caso di mancata comunicazione del motivo, il lavoratore non potrà contestare alcunché, limitandosi solo ad affermare che non sussiste giusta causa oppure giustificato motivo.

In questo caso sarà il datore di lavoro a dovere allegare e provare, costituendosi in giudizio, la ragione del licenziamento e, qualora non lo faccia, dovrebbe applicarsi la tutela chiesta dal lavoratore.

E se, non comunicato il motivo del licenziamento, il datore di lavoro resti poi contumace? E’ pacifico che si applichi la tutela più ampia tra quelle richieste dal lavoratore.

I vizi di procedura.

Il licenziamento individuale è sottoposto ad una specifica procedura nel caso di licenziamento disciplinare, come prevede l’art. 7 dello Statuto dei lavoratori, norma di generale applicazione, cioè, applicabile a tutte le imprese, a prescindere dal requisito dimensionale ed a tutti i lavoratori, anche assunti dal 7 marzo 2015.

La procedura prevede l’affissione del codice disciplinare, la contestazione dell’addebito al lavoratore, la concessione al lavoratore di un termine a difesa di 5 giorni, l’audizione del dipendente ed infine l’ eventuale irrogazione della sanzione. Questa produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il pro- cedimento è stato avviato ed è fatto salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva mentre il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato.

Una specifica procedura è stata prevista dalla riforma Fornero in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nelle imprese di dimensioni medio grandi ed è disciplinata dall’art. 7 L. 604/66. Trattasi di una procedura preventiva di conciliazione, che si svolge davanti alle commissioni provinciali di conciliazione e che si apre con la comunicazione effettuata dal datore di lavoro alla direzione territoriale del lavoro, dichiarativa dell’intenzione di procedere al licenziamento.

In caso di mancata conciliazione, il licenzia- mento produce effetto dal giorno della comunicazione di avvio del procedimento, salvo il diritto del lavoratore al preavviso. Nel contratto a tutele crescenti viene del tutto eliminato l’adempimento procedurale fin qui descritto: l’ultimo comma dell’art. 3 dispone, infatti, che al licenziamento dei lavoratori soggetti al nuovo regime (assunti dal 7.3.2015) non trova applicazione l’articolo 7 della legge n. 604/66.

Tutti i vizi procedurali, sia quelli derivanti dalla violazione dell’art. 7 L. 300/70 che quelli relativi alla procedura dell’art. 7 L. 604/66, ove applicabile per dimensioni dell’impresa nonché ratione temporis, sono accomunati nelle conseguenze al licenziamento privo di motivazione.

E’ quanto dispongono, l’art. 18 co. 6 per i la- voratori assunti fino al 6 marzo 2015 e l’art.4 D.Lgs. 23/2015 per i lavoratori assunti dal 7.3.2015.

Si rinvia dunque integralmente alla disciplina del licenziamento privo della motivazione, come esposta al paragrafo che precede.

I vizi di sostanza – la nullità.

Per principio generale la nullità di un atto deriva dalla violazione di tutte le norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente, come recita l’articolo 1418 cc. che si riferisce ai contratti ma è applicabile agli atti unilaterali per il generale rinvio contenuto nell’art. 1324 cc.

L’art. 18 co.1 L. 300/70 e l’art. 2 del D.Lgs. 23/2015 (per gli assunti dopo il 7 marzo 2015) riferiscono la più forte tutela ivi previ- sta ai casi di nullità del licenziamento “previ- sti dalla legge”. Nel testo del D.Lgs. 23/2015 è aggiunto l’avverbio “espressamente” sicché legittimamente si pone il dubbio che il legislatore riservi le tutele ai soli casi di nullità del licenziamento espressa nella norma di legge, escludendo cioè i casi in cui la sanzione di nullità non sia né prevista né esclusa ma derivi direttamente dal carattere imperativo della norma violata.

Non è comunque il caso del licenziamento per motivo illecito determinante (art.1345 cc), in quanto la nullità dell’atto in tal caso è prevista espressamente dall’art. 1418 co.2 cc.

Tra i casi di nullità del licenziamento, il licenziamento discriminatorio viene specificamente considerato sia nell’ art. 18 L. 300/70 che nell’art. 2 D.Lgs. 23/2015.

Nei casi di licenziamento nullo o discriminatorio la tutela è quella già illustrata per il licenziamento orale; vi è dunque per tutti i la- voratori, a prescindere dalle dimensioni della impresa e dalla data di assunzione, la reintegra nel posto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni maturate dal licenziamento alla reintegra oltre al pagamento dei contributi. L’unica differenza per i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 riguarda la commisurazione della indennità alla retribuzione utile al TFR e non alla retribuzione globale di fatto.

Fuori dall’area della nullità, il licenziamento si ascrive al vizio generale della illegittimità.

Tale categoria risale alle previsioni della legge 604/66.

Con la entrata in vigore di tale legge il licenziamento del datore di lavoro è non stato più configurato come atto libero ma come atto discrezionale. Il limite interno della discrezionalità è stato individuato nelle due categorie generali della “giusta causa” e del “giustificato motivo”.

In mancanza di giustificazione il licenziamento è affetto dal vizio di annullabilità, come vi- zio della discrezionalità.

Le conseguenze del vizio di giustificazione non sono omogenee, convivendo le discipline:

  • della legge 604/66, articolo 8
  • della L. 300/70,articolo 18
  • del Lgs. 23/2015, articolo 3

secondo criteri di selezione che di seguito si illustreranno.

Il giustificato motivo oggettivo.

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo- secondo la definizione della legge 604/66- è quello determinato da ragioni inerenti all’attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di tale organizzazione.

L’area del giustificato motivo oggettivo è dunque quella tipica in cui si esercita la libertà di iniziativa economica dell’imprenditore, tutelata dall’art. 41 Cost.

In giurisprudenza può dirsi pacifico che il sindacato sull’esistenza del giustificato motivo ha ad oggetto la verifica, da un lato, dell’effettività della scelta di soppressione del posto di lavoro e dall’altro, dell’impossibilità dell’impiego del dipendente in altre mansioni, equi- valenti o eventualmente anche inferiori (cd. obbligo di repechage).

Se in linea di principio l’imprenditore è libero nelle sue determinazioni non solo di incrementare ma anche di ridurre la forza lavoro occupata, la zona grigia resta quella in cui la scelta dell’imprenditore sia sì effettiva ma il motivo risieda nella semplice sua volontà di ridurre i costi del lavoro per aumentare i profitti.

Secondo un orientamento rimasto minoritario ( Cass. 5777/2003) anche modifiche organizzative finalizzate esclusivamente ad un incremento dei profitti costituiscono giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

Secondo la giurisprudenza maggioritaria nella nozione di giustificato motivo rientrano anche i riassetti attuati per una più economica gestione dell’impresa ma essi non devono essere strumentali ad un mero incremento dei profitti ma diretti a fronteggiare situazioni sfavorevoli non contingenti; in sostanza la riduzione del costo del lavoro è stata ritenuta costituire giustificato motivo oggettivo di licenziamento solo quale partita compensativa di una riduzione dei ricavi.

Tuttavia in giurisprudenza è generalmente condivisa l’idea che l’imprenditore possa liberamente provvedere ad una diversa organizzazione dell’attività esternalizzando alcuni segmenti di essa e servizi accessori, con conseguente riduzione della forza lavoro occupata e ricorso ad altre tipologie contrattuali.

Definita brevemente l’area del licenziamento per motivi economici, è ora doveroso evidenziare la rilevante differenza della disciplina introdotta dal contratto a tutele crescenti (per gli assunti dal 7 marzo 2015), che è sempre ed esclusivamente di tutela economica.

Lavoratore assunto dal 7 marzo 2015.

Ai sensi dell’art. 3 D.Lgs. 23/2015 il giudice, ove ritenga insussistente la ragione oggettiva del licenziamento, dichiarerà estinto il rap- porto di lavoro alla data del licenziamento, condannando il datore di lavoro al pagamento di una indennità- non assoggettata a contribuzione previdenziale- pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR per ogni anno di servizio, tra un minimo di 4 ed un massimo di 24 mensilità (art. 3 co. 1 ) .

L’entità dell’indennizzo è dunque collegata unicamente all’anzianità di servizio, secondo un criterio predeterminato.

Per le imprese che non hanno il requisito dimensionale dell’articolo 18 l’ammontare della indennità è dimezzato e non può superare 6 mensilità.

Lavoratore assunto fino al 6 marzo 2015. Anche per i lavoratori assunti fino al 6 marzo 2015 la tutela prevista è in linea di principio indennitaria.

Infatti: per le piccole imprese (fino a 15 di- pendenti nella unità produttiva o nel Comune ovvero fino a 60 in organico) trova applicazione l’art. 8 L. 604/66 (cd. tutela obbligatoria) con diritto del dipendente alla riassunzione o al risarcimento del danno, nella misura determinata dal giudice tra le 2,5 e le 6 mensilità in ragione dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e condizioni delle parti.

Per le imprese ricadenti nella soglia dimensionale dell’art. 18 in caso di licenziamento privo di giustificato motivo oggettivo è prevista la risoluzione del rapporto di lavoro ed il diritto del lavoratore ad una indennità determinata dal giudice tra le 12 e le 24 mensilità.

I criteri di liquidazione dell’indennità sono quelli stessi dell’art. 8 L. 604/66 cui tuttavia si aggiungono le iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione ed il comportamento delle parti nel corso della procedura preventiva di conciliazione di cui all’ art. 7 L. 604/66.

La misura minima è dunque più elevata ri- spetto a quella prevista nel contratto a tutele crescenti (4 mensilità). Il parametro di riferimento delle mensilità è l’ultima retribuzione globale di fatto.

Tuttavia per i lavoratori cui si applica l’art. 18 vi è la possibilità, che non trova corrispondenza nel contratto a tutele crescenti, di vedersi applicata dal giudice, in luogo della tutela indennitaria, la tutela reintegratoria (in aggiunta alla indennità risarcitoria fino a 12 mensilità ed al versamento dei contributi) nelle ipotesi di accertamento della “manifesta insussistenza del fatto” posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Trattasi di una disposizione che ha dato luogo a molti dubbi applicativi nell’ individuazione dell’area della “manifesta insussistenza”.

Indubbiamente essa introduce un ampio margine di imprevedibilità dell’esito del giudizio di impugnazione del licenziamento in quanto non è in alcun modo definita l’area in cui l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo possa definirsi “manifesta” ed anche perché negli stessi casi di insussistenza manifesta del g.m.o. la concessione della tutela reintegrato- ria non è automatica ma resta rimessa al prudente apprezzamento del giudice, senza alcun automatismo (“può altresì applicare”).

Sul punto sono possibili diverse interpretazioni: s i ha insussistenza “manifesta” del fatto costituente giustificato motivo laddove i fatti posti a base del licenziamento già sotto il profilo astratto – pure se esistenti- non costituirebbero una giustificato motivo: l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo sarebbe, in altri termini, quella che emerge senza necessità della prova.

La manifesta insussistenza del fatto si ha quando il fatto materiale indicato dal datore di lavoro sia così palesemente inesistente da atteggiarsi a mero pretesto dell’intimato licenziamento.

La manifesta insussistenza del fatto è collegata al regime della prova, ipotizzandosi tre possibili sbocchi del processo:

  1. ove emerga in positivo la prova che il fatto non sussiste la tutela è quella reintegratoria;
  2. nei casi di prova assente o contraddittoria il cui il giudice deciderà in applicazione della regola di riparto dell’onere della prova ex 5 L. 604/66, con conseguente accoglimento della domanda del lavoratore. La tutela, in tal caso, sarà quella indennitaria.
  3. nel caso in cui emerga in positivo l’esistenza del fatto la domanda del lavoratore sarà respinta.

A ben vedere si potrebbe ragionevolmente sostenere che vi è accesso alla tutela reale in ciascuna delle tre ipotesi sopra considerate. Giusta causa e giustificato motivo soggettivo.

Le due categorie indicate si riferiscono al licenziamento determinato da ragioni disciplinari.

Ferma l’annullabilità del licenziamento privo di giusta causa e giustificato motivo soggettivo, il regime di tutela dei nuovi assunti va distinto da quello dei lavoratori che, per essere stati assunti anteriormente al 7.3.2015, restano soggetti alle previsioni dell’art. 18 L. 300/70 e dell’art. 8 L. 604/66.

Lavoratore assunto dal 7 marzo 2015.

La disciplina sanzionatoria in caso di difetto della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo è comune a quella per il giustificato motivo oggettivo e, come già si è detto, consiste, ai sensi dell’art. 3 co. 1 D.Lgs. 23/2015, in un indennizzo compreso tra le 4 e le 24 mensilità (della retribuzione utile al calcolo del TFR), in ragione di 2 mensilità per ogni anno di servizio. L’indennità è dimezzata ed il limite massimo è di 6 mensilità per le piccole imprese.

Tuttavia per il licenziamento disciplinare per- mane un’unica e residuale possibilità di tutela reale. Trattasi del caso in cui, per quanto si legge nell’ art. 3 co 2 D.Lgs. cit. , “sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

In detta ipotesi è prevista la reintegrazione del lavoratore ed il pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione utile al TFR per il periodo dal licenziamento alla reintegra e comunque non superiore a 12 mensilità- detratto l’ aliunde perceptum o percipiendum – oltre al versamento dei contributi.

Vi è da segnalare che non è prevista, diversamente da quanto disposto dallo stesso D.Lgs. per il licenziamento nullo e dall’art. 18 L. 300/70, la risoluzione automatica del rap- porto di lavoro allorquando il lavoratore non abbia ripreso servizio nei 30 giorni successivi all’invito rivoltogli dal datore di lavoro.

Al lavoratore è attribuita l’opzione per la indennità sostitutiva della reintegra, con rinvio alla disciplina del licenziamento nullo o inefficace.

La disciplina reintegratoria non si applica alle imprese che non hanno il requisito dimensionale dell’articolo 18. La norma, prima ancora della sua entrata in vigore, ha suscitato un vivace dibattito tra gli operatori del diritto, essenzialmente in ordine:

  • all’ individuazione del contenuto del “fatto materiale”
  • alla distribuzione dell’onere della prova (negativa) della “insussistenza” del fatto Sotto il primo profilo deve ritenersi preferibile l’interpretazione secondo cui se c’è insussistenza del fatto sotto il profilo materiale, questo non abbia alcun rilievo disciplinare. Il pensiero va, ad esempio, ai casi di condotta extra-lavorativa, in tutte le ipotesi in cui non rientri tra gli obblighi accessori a carico del dipendente il conservare, terminato lo svolgimento della prestazione, un’ immagine ed una condotta di vita specchiata. In tali ipotesi, per costante giurisprudenza, la condotta extra-lavorativa ha rilievo disciplinare solo allorquando sia potenzialmente pregiudizievole per l’immagine del datore di lavoro o se sia in grado di incidere obiettivamente sull’aspettativa e sulla probabilità di un esatto adempimento, per il futuro, dell’obbligazione lavorativa. Fuori da questi casi si verificherebbe, dunque, l’ipotesi di insussistenza del fatto materiale, per non essere la condotta rilevante sotto il profilo disciplinare.

Sul primo punto può dunque affermarsi con una certa convinzione che per fatto materiale deve intendersi una condotta che abbia comunque qualche rilievo disciplinare.

Nello stesso senso deve aggiungersi che la condotta oltre ad avere rilevanza disciplinare deve essere imputabile al dipendente sotto il profilo del dolo o della colpa.

L’area del fatto materiale non può invece estendersi a ricomprendere anche la gravità del fatto di rilievo disciplinare; ciò sia perché l’art. 3 co.2 fa esplicito riferimento alla mate- riale insussistenza del fatto ma anche perché si preoccupa di aggiungere che rispetto alla insussistenza del fatto materiale “resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento”.

Il punto più controverso riguarda la distribuzione dell’onere della prova dell’insussistenza del fatto ed il contenuto della stessa prova. Al riguardo va preliminarmente evidenziato che la prova richiesta dalla norma è di insussistenza del fatto sicché quella per presunzioni non è presa in considerazione.

Salvo questo rilievo, le ragioni di dubbio sulla ripartizione dell’onere della prova, non sembrano di agevole soluzione. Chi ritiene che sia a carico del datore di lavoro la prova – positiva – della sussistenza del fatto disciplinare pone l’accento sulla previsione dell’art. 5 L. 604/66, secondo cui l’onere della prova del- la sussistenza della giusta causa e del giustificato motivo cade a carico del datore di lavoro. Si è dunque sostenuto che la norma non autorizzerebbe un riparto dell’onere della prova diverso da quello previsto dall’art. 5 L. 604/66 ma si limiterebbe ad affermare che ove non sia provata, con onere a carico del datore di lavoro, l’ esistenza della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo sotto il profilo della sussistenza del fatto contestato si dà luogo alla tutela reintegratoria. Chi ritiene che sia invece a carico del lavoratore la prova, negativa, della insussistenza del fatto disciplinare osserva, con indubbia aderenza al dato testuale, che la formulazione letterale dell’art. 3 co. 2 è costruita in termini di prova diretta del fatto negativo e che è proprio il lavoratore il soggetto interessato a provare la inesistenza dell’addebito disciplinare. La disciplina sarà dipendente dagli esiti della prova nel processo, nei seguenti termini:

a)Allorché sia acquisita al processo una prova positiva che il fatto non sussiste con onere a carico del lavoratore, si darà luogo alla reintegra.

b)In assenza di prova della sussistenza del fatto contestato (prova carente o contraddittoria) la domanda del lavoratore sarà accolta ma con tutela indennitaria.

c)quando sia invece acquisita la prova della sussistenza del fatto disciplinare l’impugnazione del licenziamento sarà respinta.

Nella disciplina del contratto a tutele crescenti scompare il riferimento alla reintegra nelle ipotesi di condotte punibili con sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi, secondo quanto disposto, invece, dall’ art. 18 L. 300/70.

Tanto nell’ottica della prevedibilità dell’esito del giudizio e del conseguente irrigidimento degli ambiti di discrezionalità del giudice, ampiamente esercitabili nella concreta applicazione delle clausole elastiche delle previsioni disciplinari collettive.

Si pensi al CCNL metalmeccanica, che prevede la sanzione conservativa nelle ipotesi di “lieve” insubordinazione ed il licenziamento nei casi di insubordinazione (con diritto al preavviso) o “grave” insubordinazione (in tronco). Lavoratore assunto fino al 6 marzo 2015 In questo caso la disciplina varia in ragione del requisito dimensionale del datore di lavoro.

Per le imprese di piccole dimensioni, non rientranti nell’area dell’art. 18 L. 200/1970, si applica l’articolo 8 L. 604/66; sicché il datore di lavoro è tenuto a riassumere il lavoratore o a risarcire il danno determinato dal giudice tra le 2,5 e le 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Per le imprese disciplinate dall’articolo 18 la disciplina è contenuta nei commi 4 e 5.

La disciplina dell’art. 18, co. 4, dello Statuto dei Lavoratori prevede i casi in cui il giudice accerta la mancanza di giusta causa o giusti- ficato motivo o per “insussistenza del fatto contestato al lavoratore” o perché il fatto è previsto dai contratti collettivi o codici disciplinari applicabili come condotta punibile con sanzione conservativa.

In questo caso la disciplina è analoga ed è quella prevista dal contratto a tutele crescenti per la ipotesi di accertamento della insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore e prevede dunque la reintegra ed il risarcimento del danno relativo al periodo non lavorato, con il limite delle 12 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre al versa- mento dei contributi.

Deve evidenziarsi come l’art. 18, co. 4, faccia riferimento genericamente al “fatto con- testato” mentre l’art. 3 del D. Lgs.23/2015 ha aggiunto la precisazione “fatto materiale”: l’aggiunta dell’aggettivo “materiale” è stata all’evidenza ispirata dal dibattito sviluppatosi in dottrina circa l’estensione del fatto contestato.

Invero in giurisprudenza si era fatta strada l’idea che la verifica della sussistenza del fato coprisse anche il giudizio di proporzionalità tra il fatto contestato ed il licenziamento ovvero la verifica circa l’idoneità del fatto a costituire giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento.

Tale opzione interpretativa ha trovato tuttavia smentita in Cass. sez. lav. 6 novembre 2014 nr. 23669; il giudice di legittimità nella pronunzia citata ha affermato che “Il nuovo art. 18 ha tenuto distinta, invero, dal fatto materiale la sua qualificazione come giusta causa o giustificato motivo, sicché oc- corre operare una distinzione tra l’esistenza del fatto materiale e la sua qualificazione. La reintegrazione trova ingresso in relazione alla verifica della sussistenza/insussistenza del fatto materiale posto a fondamento del licenziamento, così che tale verifica si risolve e si esaurisce nell’accertamento, positivo o negativo, dello stesso fatto, che dovrà essere condotto senza margini per valutazioni discrezionali, con riguardo alla individuazione della sussistenza o meno del fatto della cui esistenza si tratta, da intendersi quale fatto materiale, con la conseguenza che esula dalla fattispecie che è alla base della reintegrazione ogni valutazione attinente al profilo della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del comportamento addebitato”. Alla luce di tale condivisibile interpretazione deve ritenersi che la disciplina del contratto a tutele crescenti si apprezza per maggiore chiarezza ma non contiene elementi di novità rispetto alla previsione sulla “insussistenza del fatto con- testato” contenuta nell’art. 18 co. 4 St. Lav.

Un ulteriore elemento di chiarezza nella disciplina del contratto a tutele crescenti si coglie nella precisazione che la misura massima di 12 mensilità della indennità risarcitoria copre il solo periodo intercorrente dal licenziamento alla pronunzia di reintegrazione; lo scopo della norma è, infatti, quello di evitare di addossare per intero al datore di lavoro il rischio collegato alla durata del processo. All’esito della pronunzia giudiziaria l’inadempimento all’ordine di reintegra determinerà invece il pieno diritto del lavoratore a percepire l’indennità risarcitoria per l’intera durata della mora credendi.

Sembra preferibile ritenere, pur in mancanza di espressa previsione in tal senso, che analogo regime sia altresì riferibile all’art. 18 co 4 L. 300/70, in quanto applicazione delle regole generali sulla mora del creditore.

Fuori dalle ipotesi di cui al comma 4 (insussistenza del fatto contestato, fatto punibile con sanzione conservativa a tenore del CCNL) il comma 5 dell’articolo 18 prevede che in caso di mancanza della giusta causa e del giustifica- to motivo soggettivo il rapporto è risolto ed il datore di lavoro è condannato al pagamento di una indennità risarcitoria tra le 12 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

Licenziamenti collettivi.

La legge 223/1991 prevede il licenziamento collettivo come licenziamento intimato all’esito di un periodo di integrazione salariale straordinaria (articolo 4) oppure da una impresa che occupa più di 15 dipendenti e che effettua almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni in un’unità produttiva o nella stessa provincia.

Lavoratore assunto dal 7 marzo 2015.

Per i licenziamenti collettivi il contratto a tu- tele crescenti, con l’art. 10 del D.Lgs. 23/2015 prevede:

– in caso di violazione della procedura previ- sta dal comma 4 L. 223/1991 o di mancanza delle comunicazioni scritte previste dall’art. 4 co. 9 così come in caso di violazione dei criteri di scelta l’indennizzo monetario, con rinvio a quanto previsto per i licenziamenti individuali privi di giustificato motivo oggettivo (ovvero da un minimo di 4 ad un massimo di 24 mensilità ed in ragione di due mensilità per ogni anno di servizio);

-soltanto in caso di licenziamento collettivo intimato senza l’osservanza della forma scritta la sanzione è quella della reintegrazione, così come previsto per i licenziamenti individuali nulli per vizio di forma scritta.

Lavoratore assunto ante 7 marzo 2015.

La tutela trova disciplina nell’art. 5 L. 223/1991, come modificato dalla legge For- nero. Non si coglie differenza rispetto al con- tratto a tutele crescenti nel (solo) caso di licenziamento intimato in mancanza della forma scritta poiché anche l’art. 5 L 223/91 prevede la reintegra nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno. Nel caso in cui il vizio del licenziamento consista nella violazione della procedura la tutela è, come nel contratto a tutele crescenti di tipo indennitario, e varia tra un minimo di 12 ed un massimo 24 mensilità, secondo una liquidazione discrezionale del giudice in base a criteri concorrenti ed “elastici”: anzianità del lavoratore, numero di dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e delle condizioni delle parti ( per i nuovi assunti la tutela minima è di 4 mensilità e l’indennità è determinata in base al solo parametro oggettivo dell’anzianità di servizio) .

La differenza per i lavoratori in forza al 6 marzo 2015 è assai significativa nella ipotesi di violazione dei criteri di scelta; il lavoratore non soggetto alle tutele crescenti potrà beneficiare della reintegrazione nel posto di lavoro oltre al risarcimento del danno – nei limiti di 12 mensilità di retribuzione – ed al versamento dei contributi previdenziali.

Si è già detto invece che il lavoratore assunto con contratto a tutele crescenti ha diritto alla sola tutela indennitaria, negli stessi termini del licenziamento collettivo affetto da vizi procedurali.

Questioni applicative.

Nel silenzio normativo si discute se siano esclusi dal campo di applicazione del D.Lgs. 23/2015 i dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

La risposta affermativa trova quale unico argomento il riferimento dell’art. 1 alle categorie degli operai, impiegati e quadri, categorie che non trovano riscontro nelle amministra- zioni pubbliche.

Trattasi tuttavia di argomento debole. L’art. 2, co. 2, del D.. Lgs. n. 165 del 2001- TU sul pubblico impiego- prevede, infatti, che i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche siano disciplinati dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, salve le deroghe contenute nello stesso testo unico, che non si rinvengono quanto alla disciplina dei licenziamenti. Unica disposizione sulla materia è costituita dall’art. 51, secondo comma, a tenore del quale la legge n. 300 del 1970 trova applicazione alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal requisito dimensionale: tale disposizione, tuttavia, si limita ad escludere l’applicazione ai rapporti di lavoro pubblico dell’art. 8 della legge n. 604 del 1966 ma non può portare ad escludere l’applicazione di una normativa sui licenziamenti che, come quella in esame, prescinde dal requisito dimensionale. E’ dunque preferibile l’interpretazione secondo cui, salvo future disposizioni speciali, il decreto legislativo si applichi ai di- pendenti pubblici ovviamente limitatamente a coloro che siano stati assunti successivamente alla sua entrata in vigore.

Sempre nel silenzio della norma devono ritenersi fermi i regimi speciali di libera recedibilità previsti per prestatori di lavoro domestico, per gli sportivi professionisti, per i lavoratori assunti in prova (in forza dell’art. 2096, co. 3, cod. civ. secondo cui «durante il periodo di prova ciascuna delle due parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità», in qualunque momento) e per i lavoratori che hanno raggiunto l’età pensionabile.

Il secondo comma dell’art. 1 del D.Lgs. 23/2015 stabilisce che il nuovo regime sanzionatorio dei licenziamenti si applica anche nei casi di conversione del contratto a tempo de- terminato in contratto a tempo indeterminato o di stabilizzazione del contratto di apprendi- stato, se avvenute successivamente all’entrata in vigore del decreto. Resta da chiarire se per “ conversione” debba intendersi solo l’ atto volontario di prosecuzione del rapporto dopo la scadenza del termine o se piuttosto – in sen- so ampio- l’ espressione sia inclusiva dei casi in cui la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato avvenga in forza di una pro- nunzia del giudice.

Sul punto si osserva che l’identico termine di “conversione” viene impiegato nell’art. 32 co. 5 della Legge 183/2010 (cd. collegato lavoro) norma che disciplina gli effetti della apposizione illegittima del termine al contratto di lavoro, proprio per indicare i casi di trasformazione del rapporto a termine in rap- porto a tempo indeterminato accertati con pronunzia del giudice.

Ciò depone nel senso di una interpretazione estensiva della norma.

Piuttosto deve segnalarsi che il discrimen temporale sarà costituito non già dalla data in cui viene pubblicata la pronunzia del giudice ma dal momento temporale in cui, per quanto stabilito in sentenza, si colloca l’effetto del- la conversione.

Ad esempio, in caso di accertata nullità della clausola del termine dovrà aversi riguardo alla data di stipula del contratto di lavoro, in caso di superamento del termine di 36 mesi al momento in cui si è verificato il superamento e così via. Ciò perché la pronunzia del giudice non è costitutiva dell’effetto di conversione ma dichiarativa di un effetto che si produce automaticamente in forza delle norme di legge.

Deve ritenersi che la disciplina a tutele crescenti sia applicabile anche ai casi di conversione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro a termine del dipendente in somministrazione.

Deve tuttavia ricordarsi che a mente dell’art. 27 del D.Lgs. 276/2003 nei casi di somministrazione irregolare il lavoratore può chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dirette dell’utilizzatore con effetto dall’inizio della somministrazione; in caso di costituzione del rapporto con l’utilizzatore occorrerà pertanto avere riguardo – onde stabilire la disciplina applicabile ratione temporis alla data di inizio della somministrazione. L’ultimo comma dell’art. 1 prevede una unica possibilità di passaggio al nuovo regime anche per i lavoratori assunti anteriormente all’entrata in vigore del decreto legislativo. Ciò nel caso in cui il regime di tutela ad essi applicabile sia quello “debole” di cui all’art. 8 L. 604/66, in ragione delle dimensioni dell’impresa. In tale ipotesi se per effetto di assunzioni a tempo indeterminato avvenute successivamente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo risulterebbe integrato il requisito occupazionale per l’applicazione dell’art. 18 L. 300/70 troverà applicazione, in luogo del- lo statuto dei lavoratori, il nuovo regime a tutele crescenti. Il che equivale a dire che le imprese di piccole dimensioni non potranno mai essere soggette, in caso di futuro amplia- mento, al regime dell’art. 18; in tale eventualità i lavoratori già in forza al momento della entrata in vigore della riforma passeranno dalla tutela obbligatoria ex lege 604/1966 alla tutela “crescente”.

La ratio della previsione evidentemente consiste nell’evitare che l’imprenditore in crescita possa essere scoraggiato, nell’effettuare nuove assunzioni, dalla prospettiva di vedersi soggetto, per i lavoratori precedentemente in forza, al regime rigido di uscita di cui all’art. 18; in caso di crescita viene invece applicata a tutti i lavoratori la flessibilità in uscita.

Questa soluzione si è ritenuta percorribile in quanto non comporta un sacrificio sostanzia- le per i dipendenti assunti ante riforma: essi già godevano di una tutela essenzialmente economica (l’alternativa della riassunzione era rimessa alla volontà dell’imprenditore) ed, anzi, transiteranno in caso di espansione dell’impresa ad un regime che offre loro, in ragione della anzianità crescente, una migliore prospettiva di liquidazione economica (fino a 24 mensilità).

Sempre sotto il profilo del datore di lavoro va da ultimo evidenziato che la nuova disciplina si applica anche alle cd. organizzazioni di tendenza ovvero ai datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale di istruzione o di culto. Tali organizzazioni nel previgente regime erano invece escluse dalla tutela prevista dall’art. 18 Statuto Lavoratori, come modificato dalla riforma del 2012, in forza dell’art. 4 co. 1 L. 108/1990.

L’articolo è stato elaborato per gentile concessione della dott.ssa Francesca Spena(*) che ha reso disponibile il proprio intervento al convegno tenutosi in data 22/05/2015 presso l’Ordine dei Dottori Commercialisti

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