Lavorare in ambienti sospetti di inquinamento da sostanze tossiche

di Adriano Paolo Bacchetta * 

Il decreto del presidente della repubblica 14 settembre 2011, n. 177 “Regolamento recante norme per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinanti, a norma dell’articolo 6, comma 8, lettera g), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81” prevede – tra l’altro – la certificazione dei contratti di subappalto, ai sensi del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, che è nato come adempimento di carattere volontario avente la finalità1 di consentire l’accertamento della distinzione concreta tra somministrazione di lavoro e appalto, così da ridurre i contenziosi2. Alcuni ritengono che questo adempimento3 possa contribuire all’eliminazione o riduzione al minimo dei rischi in un settore caratterizzato da gravi incidenti, mentre altri pongono l’accento sul fatto che, in questi specifici ambienti, ove non tutto è programmabile (chi può pensare di certificare in anticipo un contratto con un’impresa che deve intervenire con urgenza per consentire all’appaltatrice di agire a seguito di un guasto con conseguente fermo impianto?), una stringente applicazione dei presupposti concettuali di matrice giuslavoristica, non fornisce alcun concreto incremento del livello di sicurezza sul luogo di lavoro. La rigidità che è imposta dall’attuale testo normativo, per quanto si può percepire nella pratica corrente, si traduce in un notevole appesantimento degli adempimenti a carico delle aziende incaricate di eseguire le attività e, tale condizione, spesso, corre il rischio di attivare scorciatoie o applicazioni formali del disposto normativo, ritenuto troppo complesso e con prescrizioni difficili da attuare4.

Non si può dimenticare che il d.p.r. 177/2011 è stato promulgato sull’onda emotiva conseguente i tragici fatti del Truck Center di Molfetta (3 marzo 2008) e del depuratore Mineo (11 giugno 2008) e come risposta a una opinione pubblica che era rimasta molto colpita dalla dinamica e dal numero complessivo delle vittime di questi incidenti. I tragici eventi, peraltro, diedero l’avvio a un processo di approfondimento su questi temi, esplicitato con la circolare del ministero del lavoro 9 dicembre 2010, n. 42 “Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro; lavori in ambienti sospetti di inquinamento. Iniziative relative agli appalti aventi ad oggettoattivitàmanutentivee di puliziache espongono i lavoratori al rischio di asfissia o di intossicazione dovuta ad esalazione di sostanze tossiche o nocive”, nella quale il Ministero del lavoro aveva disposto che le Direzioni provinciali del Lavoro dovevano attivare tempestivamente specifici piani d’intervento, eseguendo un piano di monitoraggio5 dei lavori in appalto di maggiore rilevanza e, potenzialmente, più rischiosi presso le aziende ove era maggiormente ipotizzabile tale tipologia di rischio, così da poter predisporre la programmazione degli interventi ispettivi volti in particolare alla verifica:

  • della corretta e completa redazione del DUVRI (Documento Unico di Valutazione dei Rischi Interferenziali) da parte delle aziende committenti;
  • delle misure di prevenzione e protezione previste per compiere l’intervento lavorativo;
  • dei contenuti e della “effettività” della formazione/informazione nei confronti dei lavoratori delle aziende appaltatrici sui rischi interferenziali delle attività svolte;
  • dell’efficienza del sistema organizzativo dell’emergenza predisposto.

 

Nella successiva circolare del ministero del lavoro 19 aprile 2011 n. 13 la Direzione generale per l’attività ispettiva, tenuto conto delle risposte ricevute, della limitata casistica riguardante le iniziative condivise con gli organi di vigilanza competenti sulla specifica materia e in considerazione dell’urgenza di porre in essere alcuni interventi immediati per contrastare il fenomeno infortunistico in tali ambiti particolarmente a rischio nelle more della completa attuazione del disegno organizzativo delineato dal d.lgs. 81/20086 e della definizione di iniziative coordinate con gli organi di vigilanza del Servizio sanitario nazionale (Ssn), sollecitò le varie Direzioni regionali e provinciali a procedere all’acquisizione della documentazione7 adatta a verificare la correttezza degli aspetti gestionali degli appalti in esame anche sotto il profilo del rispetto della normativa in materia di salute e sicurezza. Questo anche per raccogliere informazioni utili in modo da poter informare e aggiornare tempestivamente i Comitati regionali di coordinamento, ai fini dell’opportuno coinvolgimento delle parti sociali. Ma quest’attività, non trovò un suo completamento prima dell’emanazione del Decreto e questa visione parziale del quadro d’insieme, a mio parere, è una delle principali cause dell’inadeguatezza normativa rappresentata del d.p.r. 177/2011.

L’art. 2, secondo comma, del d.p.r. 177/2011, stabilisce che: “in relazione alle attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati non è ammesso il ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, e successive modificazioni e integrazioni. Le disposizioni del presente regolamento si applicano anche nei riguardi delle imprese o dei lavoratori autonomi ai quali le lavorazioni vengano subappaltate”.

Se fosse possibile conoscere i dati nazionali aggiornati sul numero e tipologia di contratti certificati, ci si accorgerebbe che solo un numero limitato di aziende ha presentato istanza di certificazione presso le Commissioni nazionali. Nel complesso, per le indicazioni di cui dispongo, sembra che il numero di certificazioni emesse finora sia da ritenersi ampiamente inferiore al numero di interventi in ambienti sospetti di inquinamento o confinati che, presumibilmente, sono stati eseguiti dal 2011 a oggi e che, ovviamente, avrebbero dovuto essere certificati. Questo è un aspetto certamente sintomatico di un problema reale che vivono oggi le imprese che devono operare in un contesto di elevata competizione dove “esserci quando serve” è diventata una condizione ormai irrinunciabile. É, infatti, evidente che una procedura articolata, quale quella prevista dal percorso di certificazione ai sensi del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276 “Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30”, almeno come applicato nella maggior parte dei casi, difficilmente può coordinarsi con questa esigenza. Oltre al problema giurisdizionale8, sono da considerarsi le specifiche previsioni procedurali e documentali previste dall’iter di certificazione, che necessitano di specifici tempi operativi, quali quelli necessari per:

  • avviare il procedimento (nel caso di certificazione presso altra Commissione, questa deve sia informare la Direzione provinciale del Lavoro competente per territorio, sia inoltrare la comunicazione alle Autorità pubbliche interessate, committenti o di vigilanza, nei confronti delle quali l’atto di certificazione è destinato a produrre effetti);
  • nell’ambito delle attività della Commissione di certificazione, oltre all’acquisizione e analisi della prescritta documentazione è prevista anche l’audizione delle parti al fine di acquisire elementi di giudizio utili alla corretta valutazione dell’istanza di certificazione;
  • l’atto di certificazione deve essere redatto riportando le specifiche motivazioni, contenere il termine e l’Autorità cui è possibile ricorrere e deve esplicitare gli effetti civili, amministrativi, previdenziali e fiscali in relazione ai quali le parti chiedono la certificazione.

 

Il procedimento di certificazione dovrebbe concludersi entro trenta giorni; peraltro, ai sensi dell’art. 3, comma 1, ultima parte, del decreto ministeriale del ministro del lavoro e delle politiche sociali 21 luglio 2004, poiché il concetto “documentazione” utilizzato nella norma va inteso in senso funzionale e non meramente materiale, il termine dei trenta giorni decorre nuovamente dal momento in cui la Commissione acquisisce nelle proprie disponibilità tutta la documentazione, anche istruttoria, ulteriormente richiesta a integrazione, necessaria a dare seguito all’istanza, ivi compresa la prospettazione degli elementi di fatto richiesti alle parti in sede di audizione e in quella sede documentati. Quindi i trenta giorni previsti potrebbero anche non essere sufficienti. Ciò premesso, l’orientamento attuale sul tema, porta le Commissioni ad andare ben oltre a quanto previsto dal d.lgs. 276/2003. Infatti, nell’ambito dell’iter di certificazione, estendono la loro verifica anche verso aspetti peculiari richiesti dal d.p.r. 177/2011 per la qualificazione delle imprese, in particolare agli adempimenti di cui all’art. 2 c. 1, e sugli aspetti operativi di cui all’art. 3. Questo significa che ogni Commissione di certificazione, a prescindere dal soggetto giuridico che ne ha disposto la costituzione, dovrebbe quindi avere adeguate competenze per verificare, oltre alla sussistenza dei requisiti di natura giuslavoristica di propria competenza, anche aspetti direttamente collegati all’applicazione della normativa in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Considerato che, con tali “premesse”, sarebbe interessante comprendere appieno quali sarebbero, da un punto di vista penale, gli scenari che si potrebbero aprire in caso di un grave incidente occorso in un cantiere “certificato” ai sensi del d.p.r. 177/2011 da una Commissione, questo con riferimento a una (possibile) penale responsabilità dei suoi singoli membri che hanno firmato il provvedimento di certificazione, resta da capire se questo istituto possa effettivamente assolvere un superiore compito di tutela delle condizioni di salute e sicurezza nel caso di appalto di attività in ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

Altro tema particolarmente controverso, riguarda l’estensione della certificazione anche ai contratti principali di appalto. Se da una parte è chiaro che il decreto prevede che tutti i contratti di subappalto debbano essere certificati (in qualsiasi forma questi siano configurati: nolo a caldo, nolo a freddo, avvalimento, ecc.9), non è chiaro perché – solo in alcune aree del nostro Paese – sia richiesta la certificazione anche del contratto di appalto diretto. Il motivo per cui alcuni sostengono che sia da certificare anche l’appalto è legato alla lettura dell’art. 2, comma 1 lettera c) che recita: “presenza di personale, in percentuale non inferiore al 30 per cento della forza lavoro, con esperienza almeno triennale relativa a lavori in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, assunta con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero anche con altre tipologie contrattuali o di appalto, a condizione, in questa seconda ipotesi, che i relativi contratti siano stati preventivamente certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276. Tale esperienza deve essere necessariamente in possesso dei lavoratori che svolgono le funzioni di preposto”.

Il termine “appalto”, inserito nel contesto della frase non sembra indicare quanto sostenuto da alcune Direzioni territoriali del lavoro bensì, tenuto anche conto di quanto puntualizzato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali con la nota del 27 giugno 2013 n. 11649 “Vigilanza nel settore degli ambienti sospetti di inquinamento o confinati”, applicazione dell’art. 2, comma 1, lett. c), del d.p.r. 177/2011. Nel documento, oltre a fornire altre utili precisazioni, si sottolinea che qualora l’appaltatore si avvalga di professionalità attraverso forme contrattuali diverse da quelle del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, è necessario che i relativi contratti siano certificati ai sensi del Titolo VIII Capo I, d.lgs. 276/2003 e che ciò vale, in virtù del comma 2 del medesimo articolo 2, anche per i subappalti qualora espressamente autorizzati dal committente. Ora, la questione è che se da una parte il testo originario del decreto non è chiaro, dall’altra anche la nota esplicativa consente ai fautori della posizione più rigida di mantenere le proprie posizioni interpretative. Ciò in considerazione del fatto che la nota ministeriale non è ritenuta fonte di rango sufficiente (nella gerarchia delle fonti giuridiche) per superare l’interpretazione che è data alla lettura del testo della legge da parte di chi ritiene sia obbligatoria anche la certificazione dell’appalto diretto. D’altronde, si ricorda, che nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello palese del significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dell’intenzione del legislatore.

Sappiamo che l’attività di interpretazione delle norme è sicuramente alla base dello studio del diritto, giacché cerca di andare oltre il semplice significato letterale delle parole usate per cogliere gli aspetti fondamentali di una norma ed applicarla alle svariate situazioni concrete per cui è stata creata. Tuttavia, proprio per questo, interpretare una legge è un’attività più complessa di quello che appare, perché il semplice coordinamento delle parole di cui è composta, pur costituendo un fondamentale punto di partenza, non basta.

Certamente ci sono esperti giuristi che, su questo tema, possono fornire adeguate interpretazioni, ma se nel testo del d.p.r. 177/2011 volessimo provare ad individuare il senso palese delle parole, cioè procedere all’interpretazione letterale del testo al fine di ricercare l’intenzione del legislatore (interpretazione logica), ci si accorgerebbe subito che la parola “appalto” è inserita nell’ambito di un periodo che si riferisce solo ai requisiti che devono essere in possesso degli addetti alle operazioni e non dei rapporti intercorrenti tra il datore di lavoro committente e le altre parti. Condizione che, invece, è oggetto di specifica trattazione al successivo comma 2. E poi c’è, comunque, da tenere in considerazione la logica dell’organizzazione del lavoro nel settore e la specificità di quest’attività. Infatti, sarebbe sostenibile ipotizzare, in un settore come questo, la certificazione generalizzata a tutti gli appalti? In generale, quante volte in un anno si potrebbero ripresentare le stesse condizioni e quindi quanti contratti un’azienda di manutenzione dovrebbe certificare annualmente? E con quali costi e impegno di personale per la gestione di questa notevole mole di lavoro amministrativo? Certamente le regole previste ordinariamente dal d.lgs. 276/2003 (ricordiamo: nato come istituto a carattere volontario per ridurre il contenzioso in materia di qualificazione dei contratti di lavoro), non sono adeguate per rispondere a queste domande. Sarebbe quindi auspicabile un deciso intervento del Legislatore che consenta di uscire da questa situazione d’impasse. In conclusione, fermo restando l’obiettivo di tutela della sicurezza nelle attività previste in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, l’impatto della richiesta della certificazione dei contratti di appalto, da una parte accresce ulteriormente le difficoltà applicative del d.p.r. 177/2011 dall’altra, tra molti addetti ai lavori, suscita dubbi e perplessità in merito alla sua reale efficacia e fattibilità. É, infatti, difficilmente ipotizzabile certificare un appalto anche per un intervento di durata limitata (magari solo qualche ora), tenendo conto che nel frattempo l’impianto del committente è fermo. È ormai chiaro a tutti che, di là degli adempimenti meramente burocratici, le condizioni imprescindibili per la sicurezza dei lavoratori, non possono che essere:

  • una corretta programmazione e la pianificazione di tutte le fasi operative (con particolare riferimento agli interventi in caso di emergenza);
  • un’adeguata attività d’informazione e formazione di tutto il personale (compreso il datore di lavoro);
  • il possesso d’idonei dispositivi di protezione collettiva / individuale, strumentazione e attrezzature di lavoro adeguate alla prevenzione dei rischi propri delle attività lavorative in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati e il necessario addestramento al loro corretto utilizzo.

Questo, richiede la formazione di personale tecnico che, adeguatamente preparato, sia in grado di gestire gli adempimenti connessi alle attività lavorative negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

In conclusione, appare più che mai necessario sia rivedere il quadro normativo di riferimento, al fine di dirimere i molti problemi interpretativi e applicativi del decreto, sia ricondurre la discussione su un piano prettamente tecnico, nell’ambito del quale poter elaborate una specifica norma di riferimento, sulla base di linee guida, norme e/o standard e best practice presenti a livello nazionale e internazionale. Affermata sia l’importanza dell’attività di cooperazione, coordinamento e informazione reciproca delle imprese coinvolte, sia la necessità di verificare che la catena degli appalti e subappalti non porti aziende o lavoratori autonomi a eseguire attività per le quali non sono né preparati né attrezzati, la questione è una sola: bisogna eseguire un’approfondita e corretta valutazione dei rischi, un addestramento efficace, prevedere l’impiego di attrezzature idonee e pianificare sia le attività ordinarie sia gli scenari di emergenza, codificando le operazioni da porre in essere.

* Ordine Ingegneri Milano, Commissione sicurezza

  

Note
  • 75 del d.lgs. 276/2003 nella versione rivista dalla legge n. 183/2010
  • spesso derivanti da un’errata conoscenza delle conseguenze (civili, amministrative, fiscali e previdenziali) in materia di contratti di lavoro
  • con il p.r. 177/2011 tale istituto per la prima volta assume una valenza obbligatoria e non più facoltativo
  • certificazione dei contratti di subappalto, durata della formazione pari a un giorno, assenza di specifiche indicazioni sul tipo e modalità della formazione, ecc.
  • I cui risultati dovevano essere condivisi, nell’ambito degli uffici operativi previsti dal d.p.c.m. 21 dicembre 2007, con gli organi di vigilanza territoriali ai fini della programmazione degli interventi
  • che ha previsto nell’ambito dei Comitati regionali di coordinamento in materia di salute e sicurezza la costituzione di specifici Uffici operativi a livello provinciale
  • già elencata nella circolare n. 42/2010
  • qualora l’azienda intenda certificare un contratto, un appalto o un subappalto nel caso può ricorrere alle Direzioni del Lavoro, le Province, i Consigli dei consulenti del lavoro, gli Enti bilaterali regionali o provinciali, tenuto conto di quanto previsto dall’art. 77 del d.lgs. 276/2003, in altre parole l’impresa dovrà riferirsi “alla cui circoscrizione si trovano l’azienda o una sua dipendenza alla quale sarà addetto il lavoratore”; mentre se dovesse decidere di rivolgersi alla sede Ministeriale, alle Università o alle Fondazioni Universitarie, non vi è alcun problema di competenza territoriale, potendo tali organi certificare in ambito nazionale
  • l’orientamento giurisprudenziale di legittimità estende la solidarietà anche nel caso in cui i lavori siano eseguiti da una società Anche se il negozio di affidamento tra Consorzio e Impresa consorziata non è assimilabile sul piano giuridico-formale a un subappalto, costituisce un «sostanziale subappalto» (Cass. 6208/2008). Lo stesso potrebbe sostenersi per le atto 22 luglio 2010 Autorità Vigilanza sui contratti pubblici)

 

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