Codice Etico e cultura d’impresa

di Vincenzo Mazzocco* 

Davanti all’adozione dei codici etici da parte delle imprese, a volte, ci si trova avvinti dal dilemma se si tratti di un’operazione di pura cosmesi per accreditare un senso etico che nelle organizzazioni complesse, in realtà, non esiste, ovvero, se con tali strumenti vi sia l’utilità tipica dei modelli auto-regolativi decisionali e operativi all’interno dell’impresa.

I codici etici, pur non espressamente richiamati dal decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231 “Disciplinadellaresponsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell’articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”, sono parte costitutiva dei modelli organizzativi laddove la loro presenza, oltre a concorrere alla prova in ordine all’idoneità e all’efficacia del modello, testimoniano la cultura aziendale riflettendo l’identità dell’ente, la sua “mission” ed i suoi valori. Attraverso i codici etici, le imprese enunciano i valori fondanti la rispettiva cultura organizzativa e imprenditoriale; esplicitano le scelte in materia di responsabilità sociale ed etica d’impresa e, dichiarando la propria responsabilità nei confronti dei c.d. stakeholder, rappresentano il punto di vista degli altri soggetti coinvolti negli scambi di mercato; prescrivono norme di condotta cui devono attenersi i dipendenti e i collaboratori, creando un positivo senso di appartenenza; favoriscono l’interiorizzazione di valori espressi in provvedimenti normativi, aiutando a modificare i comportamenti devianti interni e, se divulgati all’esterno, a scoraggiare prassi illecite di terzi; attestano che il conflitto tra etica e possibilità di condurre con successo gli affari aziendali è in via di superamento.

Sul connubio tra etica ed economia si fonda la c.d. Corporate Social Responsibility che, a sua volta è in sintonia con i precetti contenuti nell’art. 41 della costituzione: lo svolgimento dell’attività non deve collidere con l’utilità sociale né recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, in tal modo delineando un modello di impresa apportatore di benessere per la comunità e rispettoso dei più elementari diritti della persona umana.

Nel corso degli ultimi quarant’anni si è andata consolidando una nuova concezione del ruolo dell’impresa, nella direzione di un maggiore riconoscimento delle responsabilità verso la società dove opera, ovvero verso gli stakeholder intesi come individui o gruppi che vantano un interesse legittimo nei confronti dell’azienda e il cui contributo è essenziale al successo sul mercato. Il riconoscimento di una responsabilità sociale delle imprese è la consapevolezza di un cambiamento avvenuto nel “contratto” tra società ed enti privati, cambiamento che riflette un mutamento nelle aspettative che la società ripone nei rapporti con le imprese.

L’esistenza dell’impresa non si giustifica più solamente con la sua capacità di creare ricchezza, ma, al contrario, con la sua attitudine a soddisfare le aspettative dei numerosi stakeholder che con essa hanno rapporti. La riuscita di questa prospettiva dipende dalle probabilità di istituzionalizzare l’etica nel clima aziendale, ossia di integrare assunti etici nei processi decisionali e nella prassi lavorativa di manager e dipendenti. La via principale per ottenere tale risultato consiste nell’adozione di codici etici che, incarnando il contratto sociale tra l’impresa e i suoi stakeholder, annunciano pubblicamente che l’impresa è consapevole dei suoi obblighi di cittadinanza, che ha sviluppato politiche e pratiche coerenti con questi obblighi e che è in grado di attuarle attraverso appropriate strutture organizzative e sanzioni per i trasgressori.

L’impresa smette di essere concepita come un’organizzazione di mezzi finalizzata a perseguire esclusivamente scopi di lucro, e guadagna la dimensione di realtà organizzativa operante in un contesto complesso e dinamico, che richiede l’articolazione di strategie ad alto coefficiente di elaborazione. Dalla combinazione di questi fattori origina una crescente attenzione per l’impatto ambientale e sociale delle attività, con ricadute che rendono l’immagine e la reputazione di un’impresa un fattore competitivo strategico.

Una prima codificazione etica è emersa negli Stati Uniti d’America (USA), sul finire degli anni settanta del secolo scorso, in conseguenza di alcune indagini del Department of Justice e della Securities and Exchange Commission che avevano accertato un alto livello di corruzione e di ricorso a fondi neri, come provvista per attività illecite, da parte di numerose corporation, soprattutto nei settori delle forniture alla difesa e all’industria farmaceutica. Il Congresso degli Stati Uniti d’America, attraverso il Foreign Corrupt Practices Act del 1977, poi emendato nel 1988 e nel 1999, diede inizio all’adozione di compliance programs e di codici etici con una campagna di contrasto dei comportamenti illeciti attuati dai rappresentanti di società americane, al fine di conseguire vantaggi e ingraziarsi i favori di pubblici ufficiali di stati esteri. In Europa le prime normative risalgono al Libro Verde 2001 della Commissione delle Comunità europee (“Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”), che definisce il codice di condotta come una «dichiarazione ufficiale dei valori e delle prassi commerciali, un codice che enuncia norme minime e attesta l’impegno preso dall’impresa di osservarle».

In Italia, a parte l’esperienza nel settore pubblico della c.d. “proposta Cassese”, recepita dal decreto del Ministro per la Funzione pubblica in data 31 marzo 1994, (Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni), la codificazione si espande nel settore privato principalmente per effetto del d.lgs. 231/2001, con il quale il legislatore, nel dettare le regole della responsabilità delle persone giuridiche, ha stabilito che, nel caso in cui si ottenga la prova che una particolare tipologia di reato è stata commessa nell’interesse o a vantaggio di un ente, esso potrà risponderne in via diretta e autonoma ed essere sottoposto a sanzione qualora, a tacere di altre condizioni, l’organo dirigente non abbia “adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”.

Ai sensi degli artt. 6 e 7 del d.lgs. 231/2001, i modelli di organizzazione e di gestione vanno conformati in modo da intercettare specifici obiettivi: (i) l’individuazione delle attività nel cui ambito possono essere realizzate condotte penalmente rilevanti; (ii) la previsione di protocolli ad hoc, congegnati per garantire la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in ordine ai reati da sventare; (iii) la definizione delle modalità di gestione delle risorse finanziarie finalizzate a impedire la commissione di reati; (iv) la previsione di obblighi di informazione nei confronti di un apposito organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli; (v) l’introduzione di un sistema disciplinare che sanzioni il mancato rispetto delle misure costitutive del modello. Sebbene non espressamente evocato dal d.lgs. 231/2001, il codice etico è oggi considerato parte integrante e indispensabile del modello di organizzazione, gestione e controllo, e come tale diventa oggetto della verifica di idoneità ed efficacia da parte dei giudici che devono decidere della responsabilità dell’ente.

L’introduzione del codice etico rappresenta un primo indispensabile passo per il cambiamento culturale nelle organizzazioni dell’impresa offrendo ai dipendenti, in alcuni casi, lo strumento per resistere a richieste immorali dei superiori. Appellarsi al codice etico significa trovare il sostegno necessario a rifiutare obbedienza a un uso improprio dell’autorità del manager. E anche se si annuncia l’insorgere di un conflitto che potrebbe comportare costi altissimi per il dipendente virtuoso, il più delle volte potrà risultare sufficiente, anziché un atteggiamento di rifiuto dell’autorità del superiore, la segnalazione alle strutture competenti (all’organo di vigilanza, per esempio), dell’esercizio di un potere che esorbita dai principi guida.

Chiunque si occupi di organizzazione aziendale sa che un conto è la documentazione che definisce la struttura organizzativa, un conto è l’insieme delle regole che presiede all’agire reale dell’ente. Anche il codice etico “animato” dalle migliori intenzioni resterà lettera morta se non gode di talune condizioni di efficacia, in difetto delle quali sarà confinato alla mera parvenza e slegato da quelle che sono le autentiche dinamiche culturali e comportamentali in seno all’azienda. Alcuni autori hanno riconosciuto tre funzioni e altrettanti contenuti alla codificazione etica, dalle quali trarre alcune indispensabili indicazioni di metodo:

  • un contenuto normativo, se dice ex ante cosa si deve fare, se identifica i doveri che un’impresa ha nei confronti dei diversi portatori di diritti e di interessi che con essa interagiscono (gli stakeholder);
  • un contenuto cognitivo, se pone doveri e regole di condotta “…anche quando gli eventi sono imprevisti”, in questo modo formando aspettative determinate in contesti dei quali si ha una conoscenza incompleta, riempiendo così un gap che altrimenti metterebbe fuori gioco i meccanismi di controllo e di auto-regolazione sociale;
  • contenuto motivazionale, perché non si limita a prescrivere cosa fare anche quando l’evento è imprevisto e la conoscenza incompleta, ma attribuisce forza per farlo.

Al codice etico spetta di attivare risorse interiori che promuovano il rispetto dei principi sulla scorta di meccanismi cooperativi, quali la fiducia e la reputazione. Se si conviene sulla forza normativa, cognitiva e motivazionale del codice etico, una prima e fondamentale condizione di efficacia andrà rintracciata nell’intendimento profondo del vertice, in quella che viene definita come leadership etica: con soggetti apicali provvisti di tensione etica, trasfusa in scelte gestionali e comportamenti personali coerenti con il credo etico che si vuole ispiri la prassi, i valori filtreranno nei ranghi aziendali comunicando la volontà di un agire economico che fa del riferimento ai principi un impegno credibile e tangibile e non un’operazione di facciata. Ne discende che uno dei principali obiettivi di un ethic management sta nel definire una serie di valori aziendali, creare un ambiente capace di sostenere comportamenti eticamente retti e infondere tra i dipendenti dell’organizzazione un condiviso senso di responsabilità.

L’efficacia del testo dipende dal suo inserimento all’interno di un modello organizzativo che ne rappresenti la naturale evoluzione, definendo compiti e responsabilità della gestione del codice con riguardo ai processi di comunicazione, di formazione, di aggiornamento, di counselling (su questioni interpretativo- applicative), di segnalazione di violazioni, di monitoraggio, perseguimento e censura di condotte anti-codice. I contenuti dei codici etici variano in ragione del tipo di attività svolta dalla persona giuridica, e la specificità di ognuno dipende dalle aree di rischio individuate attraverso le operazioni di accertamento e monitoraggio del rischio (c.d. risk management).

Il codice etico condivide con la cultura d’impresa la disponibilità a somministrare indicazioni di condotte reattive a eventi non immediatamente prevedibili: più precisamente, delinea una procedura standard di comportamento condizionale non rispetto all’accadere di eventi specifici, ex ante ignoti, ma a classi di casi che con un certo grado di approssimazione possono essere considerati appartenere all’evento al quale si applica un dato principio etico e una data procedura. Il linguaggio etico, non diversamente da quello giuridico, serve così a favorire un’attività di sussunzione, per la quale un accadimento esterno viene ricollegato a una classe di casi moralmente rilevanti alla luce di un dato principio. Nella teoria economica della cultura d’impresa elaborata dall’economista David Kreps, professore presso la Stanford University e famoso per gli studi sulla teoria dei giochi, si sottolinea l’importanza dei codici di comportamento, intesi come un sistema di norme sociali che vincolano i soggetti appartenenti a un’organizzazione al fine di consentire ai membri dell’organizzazione stessa di formulare ipotesi appropriate sul comportamento di ognuno, anche in circostanze non previste, nell’adempimento dei propri impegni attraverso azioni conformi.

 

Una parte saliente della cultura di impresa è espressa dai codici etici, i quali:

  1. chiariscono ai partecipanti all’organizzazione attraverso alcuni dispositivi generali i criteri che rendono riconoscibili l’esercizio non abusivo dell’autorità e i limiti entro i quali ciascuno deve mantenere le sue prerogative;
  2. creano le condizioni perché ciascun partecipante calcoli razionalmente che l’osservanza degli obblighi risulta essere la risposta ottimale al comportamento atteso dagli altri nell’ipotesi che anch’essi si avvalgano del codice per giudicare i comportamenti.

D’altra parte il modo di come il codice etico condivida realmente la cultura d’impresa può evincersi da quanto affermato dal saggista ed editorialista statunitense Thomas Lauren Friedman “la persona giuridica possiede un’anima, una coscienza, da cogliere in seno a una cultura aziendale dalla quale promana un’identità specifica, che si manifesta in modo autonomo in ambito sociale e che si distingue nettamente da quella dei singoli individui che la compongono. Un’identità diversa da impresa a impresa, che rispecchia le consuetudini, i modi di gestire la corporate governance, gli obiettivi espressi o taciti, e che fa leva sulla capacità di comunicare giudizi morali che impegnano la persona giuridica come soggetto unico non scomponibile”.

* Odcec Roma

 

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