Per il futuro del paese non bastano degli gravi   

di Maurizio Centra* 

Secondo l’autorevole vocabolario Treccani per anziano si intende una persona “di età avanzata, in senso assoluto o in relazione ad altri”, ma in un paese che ben conosce la quarta età definire l’anziano usando solo il parametro dell’età anagrafica rischia di essere fuorviante. È sufficiente soffermarsi sul progressivo innalzamento dell’età della pensione per rendersene conto, negli anni ’50 del XX secolo gli italiani intorno ai 60 anni erano considerati anziani e quindi prossimi al pensionamento, oggi sono iperattivi e, tra lavoro, sport, svago e impegni familiari, non sanno a chi dare i resti… Ma qualunque sia l’età a partire dalla quale una persona può essere considerata anziana, senza rischiare di offenderla, l’Italia è indubbiamente un paese che sta invecchiando, in quanto ha uno dei più bassi tassi di natalità del mondo. Al riguardo le statistiche sono eloquenti e le tendenze di facile interpretazione, basti considerare la flessione delle nascite, passate da 557.393 del 2002 a 473.434 del 2016, e il decremento del saldo naturale, ossia della differenza tra nascite e decessi, passato da-19.195 del 2002 a -141.826. Nello stesso periodo però la popolazione residente è aumentata da 57,3 milioni di persone (anno 2002) a 60,6 milioni di persone (anno 2016), principalmente per effetto di fattori migratori.

Le cause della progressiva flessione delle nascite in Italia sono molteplici e, se alcune di esse sono simili a quelle degli altri paesi europei, come l’innalzamento dell’età dell’indipendenza economica dei giovani, il superamento di alcuni schemi familiari, la mobilità lavorativa, i servizi sociali insufficienti, ecc., alcune sono specifiche, come il precariato lavorativo e l’assenza di una politica per la genitorialità. I risultati di una ricerca svolta nel 2015 dalla Prof. ssa Maria Letizia Tanturri dell’Università di Padova con altre quattro ricercatrici internazionali, mettono “a nudo” le difficoltà delle donne italiane a conciliare il lavoro con la vita familiare. Preso atto che nel nostro paese una donna su cinque, tra i 40 e i 44 anni non ha figli, per quelle che ne hanno “la nostra società è organizzata con delle rigidità che non rispondono più alla situazione reale”, ad esempio “gli asili sono pochi e costosi e hanno orari talvolta inconciliabili con quelli delle donne normali…”. In pratica i genitori, ma il più delle volte le mamme, ammesso che superino indenni il problema dell’asilo sono solo all’inizio, perché poi arrivano gli impegni della scuola dell’obbligo, dei colloqui con gli insegnati e delle innumerevoli attività extrascolastiche, per i quali, in assenza di un nonno, che se c’è lavora perché non può essere anziano (…), occorrono tempo e danaro. Per non parlare dei calendari scolastici, che sembrano ideati per le famiglie di 50 anni fa, le quali trascorrevano tre mesi in vacanza (bei tempi), e che impongono il ricorso a centri estivi variamente denominati, ma quasi sempre privati e costosi.

Allo scopo di alleviare i disagi dei genitori, con il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 80 “Misure per la conciliazione delle esigenze di cura, di vita e di lavoro, in attuazione dell’articolo 1, commi 8 e 9, della legge 10 dicembre 2014, n. 183” il legislatore del Jobs act ha introdotto nel nostro ordinamento alcuni nuovi istituti, finalizzati a conciliare il lavoro con la vita privata dei lavoratori subordinati. A distanza di due anni, il 14 settembre 2017 il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e il Ministro dell’economia e delle finanze hanno firmato un decreto interministeriale che consentirà ai datori di lavoro privati di beneficiare di sgravi contributivi nel caso in cui stipulino dei contratti collettivi aziendali (c.d. contratti di secondo livello) che prevedano istituti di conciliazione tra vita professionale e vita privata dei lavoratori; decreto che al momento della redazione di questo articolo non è ancora stato registrato dalla Corte dei Conti.

Pur trattandosi di una misura sperimentale o forse proprio per questo, la genesi del decreto interministeriale è stata più lunga del previsto e ha richiesto l’istituzione di un’apposita cabina di regia presieduta dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, composta da rappresentanti dei Dipartimenti per la famiglia, per le pari opportunità e della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’economia e delle finanze. Al termine dei lavori, sono stati stanziati 110 milioni di euro circa per il biennio 2017 e 2018, a valere sul Fondo per il finanziamento di sgravi contributivi, allo scopo di incentivare la contrattazione di secondo livello nel biennio 2017-2018. Per poter usufruire degli sgravi contributivi il contratto collettivo aziendale deve essere sottoscritto e depositato dal 1 gennaio 2017 e il 31 agosto 2018 e contenere almeno due delle misure di seguito indicate, una delle quali dovrà rientrare nell’Area di intervento genitorialità. Il deposito va effettuato utilizzando la modalità telematica messa a disposizione dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nella sezione Servizi del suo sito internet istituzionale (indirizzo: www. lavoro.gov.it).

Area di intervento genitorialità:

  • estensione del congedo di paternità, con previsione della relativa indennità;
  • estensione del congedo parentale, in termini temporali e/o integrazione della relativa indennità;
  • previsione di nidi d’infanzia, asili nido, spazi ludico-ricreativi aziendali o interaziendali;
  • percorsi formativi (e-learning/coaching) per favorire il rientro dal congedo di maternità;
  • buoni per l’acquisto di servizi di baby sitting.

 

Area di intervento flessibilità organizzativa:

  • lavoro agile;
  • flessibilità oraria in entrata e uscita;
  • part-time;
  • banca ore;
  • cessione solidale dei permessi con integrazione da parte dell’impresa dei permessi ceduti.

Welfare aziendale:

  • convenzioni per l’erogazione di servizi time saving;
  • convenzioni con strutture per servizi di cura;
  • buoni per l’acquisto di servizi di cura.

La misura dello sgravio contributivo può raggiungere il 5% dell’imponibile previdenziale previsto per tutta la forza lavoro aziendale e sarà stabilita dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) per ciascun datore di lavoro in base al numero di lavoratori assunti e alle dichiarazioni contributive presentate, a condizione che il contratto collettivo aziendale interessi almeno il 70% della media dei lavoratori dipendenti occupati nell’anno precedente alla domanda. Quest’ultima dovrà essere presentata esclusivamente in via telematica, secondo le istruzioni che fornirà l’Inps, tenendo presente che per i contratti depositati entro il 31 ottobre 2017 la scadenza sarà il 15 novembre 2017, per i contratti depositati entro il 1° agosto 2018 la scadenza sarà il 15 settembre 2018.

Al momento non è facile prevedere per i lavoratori quali saranno gli effetti delle misure per conciliare vita e lavoro che saranno stabilite dalla contrattazione integrativa, anche se la soluzione adottata dal Legislatore non è certo esente da critiche, al di là del ritardo con il quale è stata attuata che, di fatto, ha ridotto da tre anni (2016, 2017 e 2018) a meno di due il possibile utilizzo di tali misure. Affidare alla sola contrattazione collettiva aziendale l’istituzione di misure per conciliare vita e lavoro, sostenute economicamente dallo specifico sgravio di nuova istituzione, rischia di limitarne l’utilizzo alle imprese di più grandi dimensioni, nelle quali spesso già esistono e per le quali lo sgravio può rappresentare una riduzione dei relativi costi o, ci si augura, un aumento dei benefit per i lavoratori interessati. Ma per le piccole e medie imprese, che rappresentano il 75% circa del totale delle imprese nazionali, la soluzione adottata dal Legislatore appare di difficile utilizzo, con riferimento all’organizzazione del lavoro, alle dimensioni aziendali e alle procedure di lavoro, oltre che all’assenza – in molti casi – delle rappresentanze sindacali aziendali.

La politica per la genitorialità e i relativi strumenti di attuazione sono funzioni che lo stato e, per quanto di loro competenza, le regioni non dovrebbero rimettere alle iniziative dei datori di lavoro, se non in misura marginale e integrativa, quindi la soluzione adottata con il d.lgs. 80/2015 per conciliare vita e lavoro, nonostante sia stata ideata dal Governo più giovane della storia della Repubblica italiana, sarà utile se accompagnata da altri interventi in materia a carico della fiscalità generale, altrimenti, visto anche lo stanziamento di spesa, rischia di produrre effetti solo per una ristretta cerchia di lavoratori.

Una politica italiana per la genitorialità non dovrebbe differenziarsi troppo da quelle dei principali paesi dell’Unione europea, al riguardo basterebbe esaminare le soluzioni adottate in Francia e in Germania, ad esempio, che hanno dato risultati positivi, ma in un paese che, dopo oltre dieci anni di crisi, ha un tasso di crescita del prodotto interno lordo (Pil) inferiore a quello dei suoi concorrenti non è facile trovare le risorse necessarie, anche se trovarle – con spirito di assistenza intergenerazionale – converrebbe a tutti.

Il progressivo invecchiamento della popolazione e l’innalzamento dell’età della vita portano con se problemi, ma anche opportunità. Se da un lato occorre intensificare la ricerca scientifica e farmacologica, le iniziative di prevenzione delle malattie e le forme di assistenza sanitaria, come anche creare adeguate strutture sanitarie e ricettive nonché garantire in concreto ai cittadini più grandi di età una vita libera e dignitosa, dall’altra ci sono maggiori opportunità di lavoro per medici, paramedici, ricercatori, assistenti sociali, ecc., investimenti in nuove tecnologie, progettazione e realizzazione di nuovi strumenti, ausili e attrezzature, costruzione o modifica di immobili domestici e strutture ricettive, utilizzo di sistemi di mobilità e di connettività avanzati, solo per fare degli esempi.

In Italia per garantire agli anziani i servizi di cui hanno bisogno occorre destinare allo scopo una quota consistente del reddito nazionale, che può risultare più facilmente sostenibile in presenza di una crescita del Pil pari o superiore a quello medio dell’Unione europea, per questo occorre una politica economica che favorisca le nuove iniziative e indichi i settori sui quali il Paese “punta” per i prossimi decenni (es. industria 4.0, turismo, nanotecnologie, ecc.). In quest’ottica la politica per la genitorialità può costituire un valore aggiunto, nella misura in cui può interrompere o ridurre diversi fenomeni socialmente ed economicamente sconvenienti per il Paese, quali la flessione delle nascite, l’aumento delle emigrazioni di lavoratori qualificati e di giovani neo laureati, la riduzione dei consumi interni, la dispersione scolastica e la cessazione dei rapporti di lavoro per assistere i figli. In realtà si possono ipotizzare anche degli effetti positivi indiretti, quali l’aumento della capacità innovativa, se il Paese riesce a dare un futuro alle sue menti migliori, altrimenti costrette a cercarlo altrove, o il miglioramento dei conti previdenziali, grazie alla riduzione dell’età media dei lavoratori, che oggi supera i 44 anni ed è la più alta d’Europa.

Nella mitologia greca troviamo una mirabile rappresentazione di assistenza intergenerazionale, quella di Enea che fugge rocambolescamente da Troia in fiamme portando per mano il figlioletto Ascanio e sulle spalle il vecchio padre Anchise, paralizzato nelle gambe e che tiene in mano il vaso con le ceneri degli antenati (i Lari Tutelari). Enea non si sottrae al suo compito salvifico e, in cuor suo, pensa che altrettanto farà il figlio, se mai la sorte dovesse chiederglielo da grande. Altrettanto sono chiamati a fare in Italia gli uomini e le donne investiti della funzione legislativa, mediante decisioni e comportamenti che favoriscano lo sviluppo economico e culturale del Paese, con le conseguenti ricadute occupazionali, nonché le scelte libere dei cittadini, come quello di avere dei figli senza essere penalizzati sul lavoro, non solo dipendente. Decisioni e comportamenti che, in base all’attuale composizione del Parlamento, spettano a uomini e donne di età media compresa tra i 58,48 anni dei senatori e i 49,67 anni dei deputati, dai quali è lecito attendersi grande sensibilità su questi temi, che riguardano il futuro di tutti i cittadini.

* Odcec Roma

                                                                                                                     

 

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