Rassegna di giurisprudenza

di Bernardina Calafiori* e Francesco Marasco* 

Trib. Torino, Sez. lav., 15 dicembre 2018: Rappresentatività sindacale – Diritto di assemblea – Indizione ad opera di un solo componente di RSU – Partecipazione di dirigenti sindacali esterni – Assenza dei requisiti ex art. 19, legge n. 300/1970 – Inammissibilità. 

Non può indire singolarmente l’assemblea ex art. 20 St. Lav. il componente della RSU eletto all’interno di liste riconducibili a Sigle Sindacali che non abbiano sottoscritto, ovvero partecipato alla sottoscrizione, di contratti collettivi applicati in azienda.

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe ha ad oggetto la possibilità di indire l’assemblea sindacale ex art. 20 della legge n. 300 del 1970 (c.d. “Statuto dei Lavoratori”) da parte di un solo componente della RSU. In particolare, tale possibilità veniva propugnata dalla Sigla Sindacale ricorrente nelle cui liste era stato eletto il richiedente lamentando, pertanto, l’antisindacalità della condotta tenuta dalla Societàdatrice di lavoro allorquando non dava seguito né alla richiesta di indizione singola dell’assemblea, né alla richiesta di farvi partecipare alcuni dirigenti sindacali esterni iscritti alla predetta Sigla Sindacale.

Resisteva la Società deducendo non già di aver rifiutato tout court la richiesta di assemblea bensì, considerato che la Sigla Sindacale ricorrente non possedeva i requisiti di rappresentatività ex art. 19 St. Lav. (vale a dire: non aveva sottoscritto alcun contratto collettivo applicato in azienda, né aveva partecipato alle relative trattative), di aver soltanto chiesto che quell’assemblea fosse indetta da tutti i componenti della RSU. Per il medesimo motivo – i.e.: difetto di rappresentatività – la Società riteneva di non poter accogliere la richiesta di partecipazione di dirigenti sindacali esterni.

Il Giudice di prime cure respingeva il ricorso della Sigla Sindacale, sancendo che la possibilità di indire singolarmente l’assemblea – come anche di farvi partecipare dirigenti sindacali esterni – può essere accordata soltanto a quei componenti della RSU eletti in quota a Sigle Sindacali che siano rappresentative ai sensi dell’art. 19 St. Lav., per come modificato dalla nota sentenza C. Cost., n. 231/2013.

A nulla valeva, dunque, il fatto che la rappresentatività del sindacato avrebbe potuto evincersi da un mero dato numerico (costituito dal totale dei voti raccolti all’ultima elezione delle RSU).

Il provvedimento in commento è certamente interessante, poiché rappresenta un esempio di “cristallina applicazione” della nozione di rappresentatività sindacale per come testualmente enucleata dai Giudici delle Leggi nel 2013.

Peraltro, il provvedimento di merito si pone in linea di continuità con quanto recentemente statuito dalla Suprema Corte di Cassazione con sentenza n. 26210 del 18 ottobre 2018. Con tale sentenza, infatti, è stato sancito che “il diritto d’indire assemblee… rientra … tra le prerogative attribuite non solo alla RSU, considerata collegialmente, ma anche a ciascun componente della RSU stessa, purché questi sia stato eletto nelle liste di un sindacato che, nell’azienda di riferimento, sia, di fatto, dotato di rappresentatività, ai sensi dell’art. 19 della l. n. 300 del 1970, quale risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 231 del 2013”. 

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Cass. Civ., Sez. lav., 7 dicembre 2018, n. 31763: Licenziamento – Scarso rendimento – Giustificato motivo oggettivo – Assenza per malattia – Periodo di comporto non esaurito – Violazione art. 2110 Cod. Civ. – Illegittimo. 

È illegittimo il licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo a fronte di un certo numero di assenze registrate a titolo di malattia e del conseguente scarso rendimento della prestazione del dipendente, se non è stato complessivamente superato il periodo di comporto stabilito per legge e dalla contrattazione collettiva.

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava la legittimità, o no, del licenziamento irrogato ad una dipendente che aveva fatto registrare, in un certo periodo, un numero di assenze per malattia superiori alla media del restante personale e tali da cagionare un disservizio alla Società datrice di lavoro (il cui oggetto sociale consiste, essenzialmente, nella gestione del servizio di trasporti pubblico locale nel territorio di Roma).

Il licenziamento così intimato veniva impugnato dalla lavoratrice che ne denunciava l’illegittimità, non da ultimo, per violazione dell’art. 2110 Cod. Civ.. Le domande della lavoratrice venivano accolte dal Primo Giudice, e ciò sia all’esito della fase sommaria che di quella di opposizione.

La Corte d’Appello di Roma, in riforma della sentenza conclusiva del primo grado di giudizio, rigettava il ricorso della lavoratrice, ritenendo così legittimo il licenziamento. E ciò, in particolar modo, perché: (i) l’obiettivo disservizio che le ripetute e continue assenze della dipendente avevano creato ben poteva costituire un giustificato motivo oggettivo di licenziamento; (ii) le predette assenze, comunicate all’ultimo momento ed “agganciate” ai giorni di riposo, avevano determinato una prestazione lavorativa non sufficientemente e proficuamente utilizzabile dalla Società.

La Corte di Cassazione, tuttavia, cassava con rinvio la sentenza di secondo grado sancendo il seguente principio: “la non utilità della prestazione per il tempo della malattia è evento previsto e disciplinato dal legislatore con conseguenze che possono portare alla risoluzione del rapporto di lavoro solo dopo il superamento del periodo di comporto disciplinato dall’art. 2110 c.c. e dalla contrattazione collettiva”. Pertanto, solo il superamento del periodo di comporto può legittimare il recesso intimato per scarso rendimento a fronte di reiterate assenze per malattia, a nulla rilevando la prova dell’impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa e, in generale, della sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento.

I Giudici di legittimità concludono sancendo poi che la diversa opinione, ossia che “sarebbe legittimo il licenziamento intimato per scarso rendimento dovuto essenzialmente all’elevato numero di assenze ma non tali da esaurire il periodo di comporto”, si porrebbe in contrasto con la giurisprudenza da ultimo consacrata dalle Sezioni Unite della stessa Corte di Cassazione.

Il riferimento è, precisamente, alla sentenza n. 12568 del 22 maggio 2018, con cui le predette Sezioni Unite hanno enunciato il seguente principio: “il licenziamento intimato per il perdurare delle assenze per malattia od infortunio del lavoratore, ma prima del superamento del periodo massimo di comporto fissato dalla contrattazione collettiva o, in difetto, dagli usi o secondo equità, è nullo per violazione della norma imperativa di cui all’art. 2110 cod. civ., comma 2”. 

Pur registrandosi alcune pronunce della Suprema Corte in senso opposto a quello dianzi esaminato (cfr. Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 4 settembre 2014, n. 18678), il recente intervento delle Sezioni Unite potrebbe, invero, assurgere a criterio guida per i Tribunali e le Corti del merito.

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Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza del 21 novembre 2018, n. 30126: Dimissioni – Annullamento – Incapacità di intendere e di volere – Parzialità – Prova di un notevole turbamento psichico – Ammissibilità. 

Sono annullabili le dimissioni rassegnate dal lavoratore che versi in uno stato di incapacità di intendere e di volere, anche se da ciò non derivi una totale privazione delle facoltà intellettive e volitive ma solo un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente.

Il caso deciso con il provvedimento in epigrafe riguardava la possibilità, oppure no, di annullare le dimissioni rassegnate da un dipendente che, al tempo delle stesse, versava in uno stato di parziale incapacità di intendere e di volere ex art. 428 Cod. Civ..

L’annullamento così richiesto veniva respinto dal Giudice di prime cure.

La sentenza di primo grado veniva, poi, confermata dalla Corte d’Appello di Bologna. In particolare, i Giudici di appello giungevano a tali conclusioni sulla base del fatto che: (i) pur essendo stato diagnosticato dal CTU nominato in appello uno stato di “notevole turbamento psichico”, ciò non dava luogo ad uno stato di incapacità totale; (ii) tra l’altro, la decisione di rassegnare le dimissioni andava valutata nel contesto lavorativo dell’epoca, che era fonte di stress e di insoddisfazione per il dipendente; (iii) sicché, secondo “criteri di maggiore probabilità logica”, doveva escludersi che le dimissioni, minacciate anche in passato, potessero considerarsi come il “frutto” di un momento di inconsapevolezza dell’agire.

La Corte di Cassazione riteneva, però, di dover riformare integralmente la sentenza di secondo grado.

E ciò perché la CTU disposta in appello aveva, in ogni caso, accertato un “notevole turbamento psichico”. Ragione per cui a nulla rilevava che lo stato di incapacità del dipendente fosse totale, oppure no.

Ciò posto, la pronuncia di appello veniva, comunque, censurata per non aver chiarito quali sarebbero stati i “criteri di maggiore probabilità” che avrebbero indotto a ritenere le dimissioni come “coscienti”.

Alla luce di quanto sopra, il Supremo Collegio enunciava il seguente, duplice, principio: (i) “ai fini della sussistenza di una situazione di incapacitàdiintendereedivolere… nonoccorre la totale privazione delle facoltà intellettive e volitive, essendo sufficiente un turbamento psichico tale da impedire la formazione di una volontà cosciente” e (ii) “laddove si controverta della sussistenza di una simile situazione in riferimento alle dimissioni del lavoratore subordinato il relativo accertamento deve essere particolarmente rigoroso, in quanto le dimissioni comportano la rinunzia del posto di lavoro … sicché occorre accertare che da parte del lavoratore sia stata manifestata in modo univoco l’incondizionata e genuina volontà di porre fine al rapporto stesso”.

* Avvocato, socio fondatore dello Studio Legale Daverio & Florio

**Avvocato, Studio Legale Daverio & Florio

 

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